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Autore: rainbowdasharp    23/03/2018    1 recensioni
"Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?"
| leotsu (e presenza di altre coppie, seppur accennate), soulmate!au |
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Leo Tsukinaga, Tsukasa Suou, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 12: Comete


“Il dubbio è un mostro che striscia sotto il letto, proprio lì dove ti senti più al sicuro; una volta che l'hai intravisto, anche solo per un attimo, diventa l'unica cosa che riesci a distinguere davvero – nella realtà sfocata, ha l'aspetto di una serpe invisibile che si avvinghia attorno a chi vuole colpire, lo tiene nella sua morsa senza lasciarlo andare. Ignoravo quella serpe. La vedevo sulle spalle dell'elfo, che mi guardava con i suoi occhi che riflettevano l'aria, impossibili da percepire per chiunque, se non per me.

L'elfo lo sapeva. Mi guardava sempre con il suo sorriso cordiale, mi parlava con la sua voce melodiosa ma faticava a toccarmi. Non voleva ferirmi con gesti che forse non sarei più stato in grado di ricevere con la riconoscenza di un tempo.”

 

Alla fine, il nome del gatto, dopo aver scoperto che era un maschietto, fu Merlino. Lui e Robin ne avevano parlato a lungo – incredibile come il moro insistesse per Artù, quando c'era già un Artù in quella casa! E no, non contava che fosse un pupazzo, su questo Leo non transigeva.

C'era da dire che il nome in realtà gli si addiceva in tutto e per tutto: il pelo arruffato, dopo una bella pettinata, si rivelò di un bel tigrato bianco e grigio e, nonostante la diffidenza dei primi giorni, si rivelò un micio di indole tranquilla, non esageratamente affettuoso che amava però sonnecchiare sulle gambe di Leo ogni qual volta lo scrittore si metteva al pc con l'intenzione di lavorare; per il resto del tempo, adorava svegliarlo al mattino prendendolo a morsetti sul naso, miagolando perché bisognoso di attenzioni, nonché di riempire il suo stomaco.

Furono giorni tranquilli: era troppo concentrato sul lavoro per preoccuparsi di ciò che lo aveva tanto impensierito nelle settimane precedenti e come sempre, quando voleva dare priorità al suo lavoro, aveva chiuso dubbi, sospetti, teorie e complotti al sicuro in un angolo un po' più polveroso della sua mente. La presenza di Robin, infine, riempiva quei momenti di dolce far niente che erano soliti spingerlo a riaprire quei cassetti, facendolo ritrovare sommerso delle sue stesse elucubrazioni mentali.

Il compagno riusciva sempre a tenerlo occupato: quando con un film, quando gli chiedeva di insegnargli a cucinare qualcosa, quando lo sovrastava con la sicurezza che aveva acquistato, col solo calore di cui gli importasse davvero.

Leo si disse che sì, doveva essere questo il sapore della felicità. Così semplice, eppure così preziosa.

«Mi sono iscritto ad un corso per la patente» esordì Robin una sera, entusiasta, appena entrato in casa sua; Merlino non tardò ad accoglierlo, ancor prima di Leo che, indaffarato, stava finendo di apparecchiare. Il giovane, ancora con la giacca indosso, si chinò subito per accarezzare il micio, che ricambiò con delle fusa sentite.

«Ma dai, mi hai preso alla lettera?» ridacchiò lo scrittore, prima di avvicinarsi a lui e dargli un bacio leggero sulle labbra. «È quasi pronto, sei arrivato giusto in tempo».

«Ti ho preso alla lettera perché credo che un uomo debba poter essere indipendente dai mezzi pubblici, soprattutto se rendono complicato lo spostarmi come voglio» borbottò mentre, ormai familiare con la casa, andava a poggiare il cappotto nella camera da letto. «Se hai tempo, magari, potresti, mh, aiutarmi con la pratica? Please?» chiese, incerto, mentre tornava in cucina, consapevole e padrone dell'occhiata del più grande – Leo adorava come si vestiva: era assurdo, ma bastava una semplice camicia nera e un paio di pantaloni grigi per dargli l'aspetto giusto, sempre in ordine ed elegante... stentava a credere, spesso, che fosse più piccolo di lui.

Ormai si era anche abituato al nuovo taglio di capelli.

«Ma sì, questa zona non è molto trafficata. Appena hai superato la teoria, possiamo usare la mia macchina». Al posto di un grazie, Leo avvertì le braccia del moro avvolgergli la vita e il mento poggiarsi sulla sua spalla, come faceva spesso mentre lo trovava a cucinare. (Leo non era un gran cuoco, ma quando c'era Robin a cena cercava sempre di impegnarsi, almeno un minimo. Fosse stato per lui, sarebbe vissuto a take-away e cibo precotto, ma questo succedeva quando ancora l'unica cosa bella e degna di nota della sua vita erano i suoi libri... adesso, poteva tranquillamente dire di avere due comprimarie priorità – il che sorprendeva lui per primo).

«Thank you, leader» sussurrò il giovane, prima di lasciargli un bacio leggero sulla guancia e, come faceva sempre mentre Leo si occupava della cena, rimase lì a guardarlo, sciogliendo l'abbraccio non appena il rosso fece cenno di doversi muovere per stare dietro ai fornelli. Robin guardava i suoi gesti con avidità e voglia di imparare e lo scrittore, spesso, si chiedeva se non stesse già tentando di cucinarsi qualcosa da solo a casa. In quel caso, fantasticava, il suo coinquilino non doveva esserne molto felice, da quel poco che sapeva di lui... Non faticava ad immaginarlo ad inveire contro il moro per aver invaso l'appartamento di fumo, così com'era altrettanto semplice pensare a quanto potesse essere carino Robin con un grembiule indosso. «Sei riuscito a lavorare al finale del romanzo, oggi?» chiese all'improvviso, tanto che il rosso quasi trasalì, preso com'era a pensarlo alle prese con pentole e fornelli.

E quello, purtroppo, era un nervo scoperto, doveva ammetterlo: ormai Leo aveva finito di rivedere la sua storia per intero ed era tutto pronto... eccezion fatta per quei due stupidi, maledetti finali. Entrambi scritti ed ultimati, entrambi sensati e allora—perché? Perché improvvisamente non riusciva più ad essere convinto di quel che aveva creato? Era la prima volta che si trovava così in conflitto con le sue stesse idee e, davvero, non sapeva come uscirne. Era come guardare un altro Leo, quello che aveva iniziato a scrivere e domandarsi perché.

«Ancora niente... Posso chiederti un consiglio? Anche se non hai mai letto i miei libri».

«Non ho detto di non averli mai letti» ribatté Robin, dopo una breve pausa. «Ho un... amico molto appassionato delle tue storie, magari posso esserti più utile di quanto pensi».

Leo rimase interdetto, per un momento – non sapeva come sentirsi all'idea di Robin che leggeva così tanto di lui (perché , i suoi libri erano come i suoi arti, i suoi figli: non gli avrebbe mai chiesto niente al riguardo ma sarebbe stato curioso di sapere che cosa aveva carpito, delle parole che aveva accumulato in quei pochi anni, quanto di Leo trasparisse dalla carta stampata) ma dopotutto parlare di una storia non significava farla vivere; il libro era una creatura, mentre un mero riassunto... solo il suo fantasma, niente più di un'ombra.

Il suo ragazzo aveva inoltre dato più volte prova di riuscire a vedere ciò che Leo celava persino a se stesso, le sue trappole e le sue fughe quindi che motivi aveva di non fidarsi?

Certo, non aveva precedenti. Mai una volta in vita sua aveva parlato dei suoi scritti prima che questi potessero essere giudicate competenti: provava nei confronti delle sue storie, soprattutto se incomplete, un maniacale attaccamento – ma valeva la pena tentare.

«D'accordo, allora. È una sorta di fiaba».

«Fiaba? Non un fantasy?» Sembrava molto stupito, il che convinse Leo a pensare che sì, aveva letto davvero le sue storie.

«No, è una fiaba davvero. Non per bambini, però, una fiaba per i grandi» si premurò di specificare, sperando di non essere interrotto di nuovo. Intanto, aveva spento il fornello e si accingeva a portare il riso ben cotto in tavola. «Il protagonista è un cavaliere, un giovane eroe che è da poco tornato dalla sua ultima impresa. Al suo ritorno, però, trova la città dov'è nato e cresciuto affetta da un male oscuro, una malattia che sembra non risparmiare nessuno: ogni uomo, donna, bambino o vecchio che ne viene affetto diviene uno spirito della Luna, mostri che vivono solo per infestare gli incubi degli altri, cibarsene e lasciare corpi vuoti». Molte delle presenze nel libro venivano dai suoi incubi infantili, da quelli di Ruka che in lacrime si infilava sotto le sue coperte nel tentativo di trovare una protezione. “Non ci prenderanno” le aveva sussurrato una sera e il giorno dopo, sotto il suo cuscino aveva messo una piccola spada in legno (che sua madre gli aveva sequestrato il mattino seguente). Non era mai stato un tipo docile, neanche da bambino. «Il re, ancora in sé, dopo aver perso l'adorata figlia per colpa del morbo, al cavaliere affida un compito: trovare, in fretta, l'unica cura universale – la fonte dell'eterna giovinezza».

«Quindi la principessa è da salvare?»

«Ti sembro il tipo interessato alle donzelle in difficoltà?» A Robin scappò una risata leggera, complice,una di quelle che Leo adorava, che quasi risuonava con la sua anima. Ma non poteva farsi distrarre. «Il giovane si mette in viaggio, dirigendosi verso l'unica persona a cui il re lo ha indirizzato, uno stregone con millenni di conoscenza ma di temperamento terribile. E infatti, quando si presenta, lo stregone si offre di dargli la mappa, ma in cambio il cavaliere deve cedere lui stesso al morbo... al suo netto rifiuto, perché il ragazzo non è così stupido, lo stregone lo imprigiona. Ovviamente, lo stregone aveva previsto questo svolgersi degli eventi, ma a lui serviva il cuore di un eroe e quindi...»

«... Dovrai specificare sulla copertina che la fiaba è sconsigliata ai bambini, for God's sake».

«I fratelli Grimm facevano ben di peggio. Comunque», perdonava le interruzioni solo perché si trattava di Robin. «L'eroe viene salvato da un pettirosso» mugugnò, arrossendo appena – era un caso? In parte, ma cercò di non far trapelare il fatto che avesse celermente cambiato “rondine” in “pettirosso” dopo la sera in cui si erano baciati. Tra l'altro, così facendo, aveva mandato in crisi il suo editore il quale, disperato, gli aveva chiesto se si trattava di un riferimento ai suoi vecchi libri e Leo subito lo aveva assecondato... più facile fare così che spiegare come stavano realmente le cose. «Il pettirosso lo guida verso un luogo che somiglia all'Eden e poi gli si mostra nel suo vero aspetto: è un elfo, unico abitante umanoide di quell'angolo di paradiso, in cui tutto sembra al posto giusto, tutto è caldo e tutto è da scoprire, compresa la concezione del tempo. In breve, il cavaliere dimentica il motivo per cui si era messo in cammino, entra in sintonia con il luogo e anche con l'elfo, innamorandosene».

«Capisco perché la principessa aveva così poca attrattiva ai tuoi occhi. Sempre le cose complicate, eh?»

«Perché sei così fissato con la figlia del re che ho a malapena accennato?» chiese il rosso, quasi irritato – soprattutto perché l'elfo era basato in molte delle sue caratteristiche sulla figura di Robin e, ad essere sincero, non lo avrebbe scambiato per nessuna principessa al mondo.

«Beh, stai andando contro tutta la narrativa cavalleresca in una singola storia che dovrebbe rifarsi proprio a questa, lo trovo divertente».

«Da quando seguo le regole, io?» lo provocò, mentre spegneva il fornello. Ormai il riso era cotto, così si affrettò a servire la cena, senza per questo perdere il filo del discorso (anzi, a dirla tutta era più probabile che sbagliasse a mettere le pietanze in tavola che distrarsi dal suo racconto). «Dicevo. Col passare del tempo, però, si rende conto che gli incubi che lo tormentano, seppur placati dalla compagnia, iniziano a tormentarlo persino durante il giorno. Sono attimi di follia, o così crede, finché non inizia a temere che l'elfo gli nasconda qualcosa... Troppa gentilezza, dopotutto, che un essere umano non riesce mai ad accettare senza credere che abbia un secondo fine». Robin stavolta non commentò e, al contrario, gli riservò uno sguardo pieno di dubbi; Leo non era nuovo al nichilismo né al pessimismo, quindi perché tanta sorpresa negli occhi? Lo scrittore si sedette al tavolo, finalmente libero di sfamarsi e sfogarsi allo stesso tempo, così che in fretta si prese un bel boccone abbondante di riso, prima di continuare. Brandendo la posata per l'aria, continuò: «E qui nasce il problema. Quando ho iniziato a scrivere, ero sicuro che la scelta dell'eroe sarebbe stata... degna di un eroe: l'elfo in realtà voleva salvarlo da quel morbo perché aveva dimostrato di poter sacrificare se stesso pur di salvare gli altri e, inoltre, dargli la fonte dell'eterna giovinezza, di cui l'elfo è il custode, avrebbe significato far morire quel luogo e la sua casa; ma il cavaliere non avrebbe potuto accettare di essere in trappola, ingannato dalla pace e quindi avrebbe fatto ritorno a casa con la cura, di fatto... distruggendo tutto ciò che lo aveva reso felice».

Robin, che aveva preso a mangiare e che aveva continuato ad ascoltarlo in silenzio, dopo essersi pulito la bocca con un tovagliolo – con i suoi gesti discreti, sempre misurati – lo fissò dritto negli occhi, lo sguardo quasi contrito, attanagliato forse da qualcosa che Leo non poteva cogliere fino in fondo. Posò la forchetta sul piatto, prendendosi del tempo prima di commentare.

«È quello che un eroe farebbe, questo è certo» si limitò a mormorare e il romanziere si chiese se... per caso, avesse colto quanto c'era di sottinteso in quella fiaba: il Predestino era un Eden ingannevole, non di certo la vera pace. L'amore vero era quello dei tuoi cari, non quello che un'utopia ti poteva offrire.

Leo aveva sempre basato tutti i suoi racconti su questi concetti, su quanto credesse che ci fosse qualcosa di più di un amore già scritto e adesso, dopo che aveva iniziato a scrivere quella storia pieno dei sentimenti di rabbia per Izumi che lo aveva abbandonato perché aveva trovato il suo personale Paradiso Terrestre... perché non riusciva a respingere l'elfo? Perché non riusciva a lasciarlo lì, solo nella sua valle appassita, morente, mentre l'eroe vinceva contro la Menzogna Ultima, quella della vita? Sapeva di aver sbagliato ad aver dato a quella creatura armoniosa così tanti dei tratti di Robin ma, paradossalmente, più ne scriveva e più prendeva vita sotto i suoi polpastrelli, in quegli occhi di ametista, specchio di quelli che adesso aspettavano una sua risposta.

«Ma l'elfo non è colpevole» sussurrò, mordendosi il labbro. Era un conflitto continuo di fronte ad uno specchio, un labirinto da cui gli pareva impossibile uscire. «L'elfo lo ha accudito. I suoi sentimenti sono reali, lo sono sempre stati. Ma il popolo--»

«Leo». Il tono di Robin lo ammutolì – c'era qualcosa di strano, come se con quella storia il rosso avesse toccato note nell'animo del più giovane di cui aveva, fino a quel momento, ignorato l'esistenza. Di fronte, gli sembrava avere il violino estraneo di quella sera in teatro, le corde tirate pronte a tradire un suono sbagliato al primo errore: nonostante il sorriso leggero sulle labbra (tirato, nervoso, inusuale), la voce gli era sembrata così distante, così difficile da tenere insieme per colui a cui apparteneva. «Sei... sicuro che sia il lieto fine dell'eroe, questo?»

Ci fu un attimo di silenzio, di cui Robin approfittò per tornare se stesso, per nascondere quello sguardo spezzato in un angolo di sé che Leo non poteva raggiungere.

«Che... vuoi dire?»

«Spoglialo del suo ruolo. L'armatura, la spada, l'impresa – quando era con l'elfo, non era niente di tutto questo, giusto?» Leo aggrottò la fronte: no, aveva dimenticato le sofferenze passate, dopotutto, quindi scosse la testa. «Rimane l'uomo, allora. Hai detto che si innamora di lui, sbaglio? Sono i sentimenti dell'uomo, non del cavaliere. Ripresa l'armatura, vuole davvero rinunciarvi, addirittura—lasciarlo morire? Calpesterebbe a tal punto la propria felicità per quella degli altri? Quella di un re che lo ha richiamato quando ne aveva bisogno, di una—folla di sconosciuti... !»

Era un fiume in piena. Leo per un attimo vide in quel ragazzo così concitato, così desideroso di mostrargli il suo punto di vista... se stesso. Il se stesso così disperato da quella serata d'autunno, tra le foglie gialle e marroni che cadevano, come le lacrime sul suo viso – quel Leo Tsukinaga le cui mani avevano preso a tremare, piene di voglia di riscatto nell'unico modo che conosceva: scrivere. Scrivere per dimostrare al mondo che, nonostante gli fosse stato tolto anche Izumi, non si sarebbe arreso; scrivere per ricordarsi che era ancora lì, pronto a combattere finché non sarebbe stato l'ultimo uomo ancora in piedi.

Robin gli stava urlando le sue paure - “non rimanere solo”. Gli stessi dubbi che erano cresciuti parola dopo parola, mentre scriveva, adesso si manifestavano tutti nella persona che aveva iniziato ed imparato ad amare. Robin cercava di comunicargli che l'aveva percepita, quell'autodistruzione nel suo racconto: il sacrificio dell'eroe, che rinunciava alla sua felicità per portare la “verità” agli altri... una verità che, entrambi lo sapevano, nessuno avrebbe mai riconosciuto davvero. Una verità inascoltata che avrebbe ucciso l'elfo e avrebbe finito con l'uccidere anche il cavaliere, di solitudine, in un mondo in cui tutti avrebbero relegato quell'impresa ad una bella storia da raccontare attorno ad un fuoco.

Quindi... a che prezzo?

Leo poggiò i palmi delle mani sul tavolo, poi si sporse in avanti quanto bastava per posare un indice sulle labbra del più giovane che, finalmente, si calmò. Aveva il respiro corto, preso com'era dal cercare di tendergli la mano, salvarlo, riportare il cavaliere al suo posto, accanto all'elfo. Si guardarono a lungo, dritto negli occhi, quelli di Robin colmi di un'apprensione che forse non era capace di capire fino in fondo, che forse non avrebbe dovuto risvegliare.

Ma loro erano diversi, dopotutto.

«Ho capito, Robin. Ci penserò».

***

Non ne parlarono più. Leo non si era deciso, questo no, ma sentiva ancora quel peso sul petto ogni volta che pensava al finale originale e al tempo stesso non se la sentiva di tradire anche lui il Leo che era stato, già condannato dalla sua stessa essenza: quella di credere.

Inoltre, se prima aveva scorto solo in parte accenni di nervosismo da parte del suo ragazzo, i momenti in cui si rendeva conto degli sguardi che gli rivolgeva – apprensivi, pieni di un'irrazionale paura che lo scrittore non riusciva davvero a spiegarsi – si moltiplicarono a dismisura. Dopo quella discussione, era diventato ovvio persino a lui che il moro pesasse ogni singola parola pronunciata quando toccavano argomenti più complicati del “cuciniamo insieme” o “magari proviamo a vedere quel film”. Robin sembrava essersi spaccato in due: da una parte, il solito Robin fatto di sorrisi, rimproveri e del suo accento inglese irresistibile; dall'altra, un nuovo Robin silenzioso, di cui coglieva le occhiate quasi malinconiche, come se temesse la sua scomparsa da un momento all'altro.

E lui... temeva di star impazzendo.

Leo aveva sempre avuto paura dell'abbandono, questo poteva – anche se a fatica – ammetterlo almeno a se stesso; Eichi se n'era andato, Izumi se n'era andato. Era così evidente da ogni storia che scriveva: piuttosto, era lui ad andarsene prima che qualcuno gli potesse voltare le spalle. Almeno nella finzione.

Con Robin, però, non riusciva neanche a pensarlo. Quando era da solo a casa, con Merlino in grembo che faceva calorosamente le fusa, quasi gli sembrava di vedere quegli stessi sprazzi di follia del suo eroe: squarci di notte che, invadendo il giorno, sussurravano ridendo, complici, “non ti fidare”. Eppure, non riusciva a credere che Robin potesse... essere stanco di lui o che, peggio, avesse paura di quello che avrebbe potuto fare.

O che ci fosse dell'altro.

Lo irritava non capire cosa gli passasse per la testa ogni volta che lo guardava disorientato, con il terrore accennato sulle labbra; era frustrante rendersi conto che lui, un uomo che di parole ne produceva più di chiunque altro, adesso non riuscisse a trovarne di adatte per rassicurare la persona che amava.

O per tenerla vicino a sé.

«Mi piace come ragiona» e, ormai, l'unica persona con cui poteva davvero parlarne era Madara, la cui voce squillante ed entusiasta, se possibile, rendeva il tutto ancora più lugubre, dal suo punto di vista. «Potrebbe farti da psicanalista meglio di chiunque altro».

Su questo non aveva tutti i torti, ma Leo non glielo avrebbe detto, neanche morto. «Va bene, Robin mi capisce. Ma sono io che non riesco a capire perché dovrebbe credere che mi autodistruggerei se sono... felice, con lui?»

«Glielo hai mai detto?» chiese Mama, apparentemente sovrappensiero. Una domanda semplice, fatta con una leggerezza tale da sembrare innocua.

Ovviamente, non lo era.

Ne seguì una lunga pausa, nella quale Leo si chiese se, in effetti, fosse mai stato sincero fino in fondo con Robin riguardo ai suoi sentimenti; si era aperto con lui riguardo tutte le sue manie, le sue paure e le sue visioni della vita e quando facevano l'amore riusciva a farlo stare davvero bene, ma...

«... Ok, domanda di riserva: gli hai detto che quel libro ha origine dalla fine della tua storia con Sena?» Altro silenzio. «... Non posso crederci. Non posso crederci».

«Ma non è ovvio?!» replicò Leo, un po' sulla difensiva a quel punto – la mente, però, era già in moto: per quello che Robin ne sapeva, quella storia era nata senza un'origine così specifica e di certo lui non poteva immaginare che, concentrato in quelle pagine ancora da stampare, c'era tutto il bisogno di Leo di sentirsi convalidare agli occhi di qualcuno, il suo rimorso di non essersene andato per primo, il suo desiderio di liberarsi di ogni illusione che portava il volto dell'Amore.
Merlino continuava a fare le fusa e dormire, nonostante il suo padrone avesse preso ad agitarsi come un ossesso sulla sedia, in preda al turbinio dei suoi pensieri.

Ecco perché l'elfo aveva preso sempre più le movenze del moro – era quello che rappresentava: quel sentimento a cui anelava da tutta una vita, quello che aveva assaporato davvero per la prima volta sulle labbra del ragazzo, alla luce fasulla di un lampione, dentro una scatola di latta. Ed era per quello stesso motivo che, adesso, si sentiva così colpevole a lasciar morire quel personaggio: non lo avrebbe mai fatto, non adesso. La rabbia era svanita e il combattente implacabile aveva posato la spada: si sarebbe aggrappato a quelle emozioni con le unghie e con i denti, pur di tenere quel tesoro stretto a sé, stavolta.

«Non sempre» sospirò l'amico al telefono e Leo giurò di averlo sentito darsi una manata dritta sulla fronte. «Se non ne sei ancora sicuro, potresti dirgli anche solo perché è nato il libro. Sa già cos'è successo tra te e Sena, no?»

«... Gli ho raccontato tutto, sì» borbottò Leo. Stava rivivendo, come un film, tutti i momenti in cui Robin lo aveva guardato con quello sguardo perduto; davvero stava attendendo una prova da parte sua, dopo tutti quei mesi? Davvero lo aveva reso incerto, con quel suo blaterare solo e soltanto di se stesso, come sempre?

Era un egoista. Il peggiore degli egoisti.

«Allora dagli qualcosa a cui aggrapparsi, Leo. Anche se vi siete trovati, non dare per scontata la sua presenza al tuo fianco. Mai».

***

Era davvero raro che Leo seguisse il consiglio di qualcuno. Nonostante cercasse spesso il confronto con terzi (Arashi, Shu e Madara ne erano la vivente dimostrazione) era paradossalmente raro che mettesse in atto quanto gli veniva detto; la sua caparbietà lo aveva spesso indotto a fare errori colossali ma erano suoi errori, creati dalla sua persona e di cui soltanto lui poteva rammaricarsi.

Ancora una volta, si sentiva in dovere di rivendicare la sua individualità anche nei minimi gesti, con quella smania autodistruttiva che lo aveva sempre guidato.

Ma Leo stava cambiando. Era palese mentre, seduto in macchina, aspettava che Robin sbucasse dalla stazione della metro più vicina. Era evidente anche ai suoi occhi mentre, con le mani nella tasca della felpa blu notte – ormai non faceva più troppo freddo, gran parte della primavera già corsa via – giocherellava con la metaforica l'ancora che aveva intenzione di lanciare al moro. Ed era cristallino, quasi, quando guardava il suo riflesso nello specchietto retrovisore e vedeva il volto di un uomo che stava seriamente pensando alle parole da dire per far sì che Robin non potesse dubitare mai più di lui.

Si stava ancora fissando con cipiglio deciso, quasi fosse pronto ad attaccare l'altro Leo al minimo segno di incertezza, quando sentì bussare appena sul finestrino della macchina, facendolo sobbalzare; un attimo dopo, Robin sedeva sul sedile del passeggero, lo sguardo sempre più pesante, impensierito.

«Mi preoccupo quando sei puntuale» fu il suo saluto, prima che Leo si appropriasse delle sue labbra con un broncio accennato.

«Il tuo sarcasmo d'alta classe non ti servirà, alla guida» replicò il rosso, scacciando in fretta quella parola – preoccuparsi – prima di regalargli un mezzo sorriso complice e al tempo stesso un po' canzonatorio, che cancellò almeno parte di quell'aria stanca dal volto dell'altro. «Sarò impietoso».

«Oh, non ne dubito» mormorò Robin, prima di uscire di nuovo dalla macchina per scambiarsi di posto con Leo; il rosso, non appena si sedette, colse immediatamente l'occasione per immortalare il momento con il cellulare: la prima guida di Robin il quale, impacciato, aveva appena poggiato le mani sul volante.

Sembrava che stesse familiarizzando con l'idea tramite il tatto, come faceva con Merlino dopo un po' che non si vedevano: si lasciava annusare e poi, dopo qualche attimo, ecco che il legame veniva ristabilito e il micio gli consentiva di carezzarlo. Ecco, con la macchina di Leo sembrava star facendo la stessa cosa - “ci conosciamo”, sembrava dire all'auto, mentre percorreva con le dita tutto il volante.

«What are you doing?» gli domandò il ragazzo, rigorosamente in inglese, dopo avergli scoccato un'occhiataccia non appena colto il “click” della fotocamera.

«Dovrò pur commemorare il momento, in qualche modo. Avanti, metti in moto e partiamo!»

Passarono almeno due ore a girare nel parcheggio della metropolitana, poco trafficata dalle auto per via dell'orario ed era ormai tarda sera quando, finalmente, Robin aveva compreso come evitare che il veicolo procedesse a singhiozzi e far sì che non si spegnesse di continuo. Quando finalmente si scambiarono di nuovo di posto, il moro pareva distrutto – molto più di prima ma in modo diverso: insomma, fisicamente provato dall'esperienza.

«Non pensavo che potesse essere così complicato» mugugnò, prima di sorseggiare avidamente dalla bottiglia d'acqua che Leo gli aveva appena offerto. «Come fate a fare così tante cose tutte assieme?»

«Basta la pratica, davvero. Poteva andare peggio, come prima volta». Al poco velato riferimento alla loro altra prima volta, Robin quasi si strozzò con l'acqua, poi fu svelto nel pizzicargli con una certa stizza la guancia. «Ahi, ahi—permaloso».

«E tu inopportuno» sospirò, prima di chiudersi gli occhi ed adagiarsi sul sedile, cercando forse un po' di sollievo. Quando Robin doveva cimentarsi in qualcosa di nuovo ed inaspettato era sempre teso, come se la sua intera vita dipendesse dai suoi immediati successi. Erano altri, invece, i fallimenti che Leo temeva e, si disse, questo era il momento giusto per fare quel passo avanti che si sentiva capace di fare, adesso: con una manovra un po' complicata (il cambio e il freno a mano in mezzo a loro non furono di certo di aiuto), si mise cavalcioni sul grembo dell'altro, rivolto verso di lui, gli occhi del moro puntati addosso con una sorta di rassegnato sollievo. «Che cosa hai in mente adesso?»

«Tranquillo, non ho intenzione di fare niente di perverso, in macchina. Per ora, almeno» ridacchiò, immaginando che fosse stato quello il primo pensiero del compagno (in parte, doveva ammetterlo, non poteva biasimarlo...) «Voglio parlarti di una cosa».

Il volto di Robin, che si era disteso in un sorriso all'insinuazione dello scrittore, tornò ad irrigidirsi, al punto che per Leo non fu difficile notare delle leggere rughe di espressione sulla fronte del giovane, persino dietro la sua ordinata frangia di capelli neri.

«... Ti ascolto».

Il rosso inspirò profondamente, prima di carezzargli con delicatezza le guance appena paffute; voleva smettere di vedere quell'ansia continua sui suoi lineamenti puliti, voleva spazzare via quell'accenno di oscurità dai suoi occhi luminosi. Non sapeva spiegarsi il motivo ma si sarebbe esposto più che volentieri se questo fosse bastato a far tornare Robin sereno e, considerando quanto fosse poco disposto ad ammettere quelle cento, mille verità riguardo se stesso, quello che stava facendo gli costava davvero tanto. La paura di essere respinto non lo avrebbe, forse, mai abbandonato davvero.

«... Cavolo, se è difficile parlare di certe cose» ammise, con una mezza risata accennata, nella speranza di spezzare quel silenzio incredibilmente soffocante – ma doveva dirglielo: era sua responsabilità farsi avanti, stavolta. Come Robin lo aveva fatto più e più volte; con lo stesso coraggio con cui lo aveva preso la sua prima volta, con la stessa voglia di combattere senza ferire nessuno che aveva mostrato quando, nonostante tutto, lo aveva visto fuggire sotto i suoi occhi. «... Beh, Robin, tu sei... maledettamente importante, per me. Da quando sei entrato nella mia vita, ho—smesso di sentirmi sbagliato. Sai, quando passi anni a combattere ciò che è considerata l'unica scelta possibile e tutti ti assecondano, come si fa con i pazzi... Tu mi hai dato finalmente un posto dove sentirmi me stesso. Dove non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno, perché ormai sapevo dove poter tornare. In così poco tempo, sei... Sei diventato fondamentale, sì». Sapeva che le sue parole suonavano egoistiche; sapeva che il suo egocentrismo avrebbe irritato chiunque – ma non Robin. Robin poteva interpretare quelle frasi come se il personale lessico di Leo fosse la sua lingua madre. Robin poteva vedere oltre quella fortezza fatta di “Leo, Leo, Leo” perché sapeva da cosa era stata creata: non era amore per se stesso – al contrario, ma restava l'unica cosa certa che aveva. L'unico appiglio alla realtà che troppo spesso gli sfuggiva, cambiava colori, si deformava, solo perché gli stava stretta. «Ma non sono bravo a prendermi cura degli altri. So a malapena badare a me stesso, figurarsi...» Per tutto il tempo, aveva guardato in basso, lì dove le sue mani stringevano il cappotto di bianca lana leggera del più giovane, perché incapace di essere sincero in presenza di quegli occhi. Era più pensare che il suo fosse un lungo, sconnesso monologo interiore recitato ad alta voce. «Proprio per questo, però... tu meriti di più. Di meglio di me, ne sono sicuro. Ma non per questo ho intenzione di lasciarti ad altri, io—non intendo rinunciare a te. E per questo, volevo che tu sapessi cosa provo davvero, senza... girarci intorno». Si sentiva bruciare. Una sensazione che mai aveva provato in vita sua, come se potesse da solo affrontare il mondo intero con la certezza di vincere: non c'era più niente, in lui, del solitario scrittore che attendeva l'infrangersi delle onde su di sé, in piedi su una scogliera, sconfitto ma fedele. Si sentiva esplodere nel petto quelle parole al punto che ormai avrebbe dovuto urlarle, per pronunciarle correttamente. Ma si limitò a sollevare lo sguardo, fino ad incontrare gli occhi violacei di Robin, pieni di una sorpresa che Leo interpretò come il segnale giusto e, finalmente, lo disse. «Ti amo, Robin. Più di quanto abbia mai amato chiunque altro».

Ignorò il silenzio che ne seguì. Piuttosto, ormai pieno dell'adrenalina del momento, con quelle semplici parole che sembravano aver preso a fluire dentro di lui, al posto del suo stesso sangue, cercò il suo regalo – la sua “prova”.

«Tu mi hai dato un posto nel mondo, io... beh, posso darti libero accesso al mio, di mondo» mormorò, concitato, prima di lasciare che una perfetta copia delle sue chiavi di casa penzolasse tra le sue dita. «Non voglio correre troppo e dirti di venire a stare da me, ma... se Tori diventasse insopportabile, sai dove trovarmi».

Robin, con un gesto misurato e un'espressione indecifrabile in volto, prese il piccolo mazzo, a cui Leo aveva accompagnato il portachiavi di un alieno (giusto per rimarcare che sì, quelle erano le chiavi di casa sua). Con mani tremanti, le strinse in un pugno e poi...

Gliele restituì.

«... Leo». Il tono era simile a quello che aveva usato a tavola, il giorno in cui gli aveva parlato del libro. Era quello stesso sguardo pieno di senso di colpa – ora lo vedeva, chiaro: era paura, violenta e cruda paura di essere scoperto, come in una perversa caccia alle streghe – che gli rivolse, frantumandolo. «Leo, devi—devi ascoltarmi, adesso».

«... L'hai trovato anche tu?» Il ricordo del viale in pieno autunno lo fece rabbrividire e per un attimo riempì il piccolo ambiente dell'auto, ma era l'unica spiegazione che riusciva a darsi: lo aveva preso in giro? Aveva cercato per giorni l'occasione adatta per confessargli che dovevano dirsi addio, che il Predestino lo aveva derubato di nuovo della persona che amava?

«... Leo, non è... non è come pensi». Le mani del moro cercarono il suo volto, come lui aveva fatto poco prima: lo carezzarono con l'amore e la cura che aveva sempre avuto e quello che lo scrittore vide nell'altro fu... un ragazzo distrutto, che non sapeva cosa fare; non aveva mai visto Robin in quel modo, era la prima volta che lo vedeva così provato. Per lui? Per colpa sua? Era come se le mani che lo sfioravano fossero di Robin, ma che Robin non fosse la persona che aveva davanti. «Ricordi... quando ci siamo incontrati, allo Sleepover?» Leo annuì, lentamente. Si sentiva svuotato—anzi, no, peggio: incompleto. Come se qualcuno gli avesse appena strappato la possibilità di percepire con i propri sensi, menomato – stava lì, disorientato, passivo testimone degli eventi... peggio del suo pupazzo, peggio della bambola di Shu. Stava lì, ad ascoltare. «Ti... ti dissi che volevo mettere alla prova il Predestino. Che non avrei accettato passivamente questa persona e—l'ho fatto». Leo non capiva. O forse non voleva capire? Non era sicuro di poter cogliere la differenza, in quel momento: tutto quello che riusciva a comprendere erano gli occhi violacei di Robin, ora lucidi sotto il riflesso dei lampioni del parcheggio, come la sera in cui si erano baciati. Anche allora erano nella sua macchina, a notte fonda. Anche allora, Leo aveva fatto il primo passo, si era esposto.

«... perché me lo dici adesso... ? Da quando... da quanto hai accettato il Predestino?!» L'impassibilità divenne, in un attimo, rabbia. In un impeto di frustrazione, si liberò della stretta di Robin, scacciò le sue mani e aprì la camicia del ragazzo senza neanche sbottonarla, lasciando che i bottoni schizzassero per la macchina e senza preoccuparsene minimamente: cercava un segno, un qualunque simbolo di prigionia e schiavitù da incolpare, come quello stramaledetto lucchetto sul collo di Makoto Yuuki. Lo ricordava, quel dannato lucchetto.

«... Adesso». Robin non lo aveva fermato – nessun gesto sarebbe stato abbastanza forte da placarlo, se non quell'unica parola mormorata con voce incrinata. Leo tornò a guardarlo, il dubbio che prendeva possesso delle sue ossa, delle sue viscere, ghiacciando il sangue che per quegli attimi così brevi ma belli si era riempito solo di quel sentimento. E il dubbio allora divenne incubo, spaventoso perché reale.

Poteva crederci? Forse, ma non voleva. Non voleva ascoltare davvero la voce dei suoi sospetti, coloro che lo avevano spinto a scrivere, lettera dopo lettera. Non era stata la sua immaginazione, a guidarlo lungo le linee di quella storia.

Perché, in fondo, forse lo aveva sempre saputo.

«Robin... non è il mio vero nome. Mi chiamo Tsukasa».


Note: Ed eccoci qui, alla resa dei conti. Questo capitolo non è stato difficile da scrivere perché avevo in mente tutto: dalle rivelazioni del libro, alla chiacchierata con Mama, alla strampalata ed impacciata dichiarazione di Leo, alle paure di Robin--o meglio, Tsukasa.
Il Predestino, le paure che causa in Leo e la sua personalità complicata... in questo capitolo ho cercato di concentrare tutto. Ho cercato di mentire, farlo mentire e poi scacciare il pensiero della realtà per coprire tutto con delle bugie che facevano meno male. Leo è un bambino, detto tra noi, per cui è molto più facile deformare la realtà perché non faccia più così male ed è schiavo di questa sua immaturità (ad esempio: Robin è sempre stato il primo a fare il primo passo quando, in effetti, ho sempre fatto sì che i momenti cruciali della loro relazione dipendessero dalla volontà di Leo, che Robin/Tsukasa ha accontentato). Forse, è questo il perno di tutta la storia - crescere. Se Izumi aveva distrutto una speranza, Tsukasa ha infranto ogni sua certezza riguardo a sé e la sua visione del mondo. Il titolo del capitolo riguarda l'effimero, che aprirà anche la tematica del continuo.

Nel prossimo capitolo mi troverò a parlare meglio di quanto pesante sia questo nuovo nome, "Tsukasa", per le orecchie di Leo. Mi sento di dire che il prossimo sarà effettivamente l'ultimo capitolo della storia, ma che seguirà un epilogo forse diviso in due; il quando riuscirò a scriverlo ma credo che entro la fine di aprile dovrebbe arrivare... ormai è un anno e mezzo che scrivo questa fic, non la abbandonerò di certo ora. ~

 
   
 
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