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Autore: Diana LaFenice    23/03/2018    0 recensioni
Al tempo in cui il Medioevo si scambia di posto col Rinascimento, Agostino è soltanto un bambino quando la sua vita cambia per sempre e, con la sua famiglia, si trasferisce a Sirmione per sfuggire alle malelingue sul suo aspetto: a causa di un forte shock parte dei suoi capelli sono diventati bianchi.
Il suo peregrinare finirà quando lo zio lo accoglierà presso di sè a Castel Toblino, ove troverà impiego come giardiniere. Il suo intento, infatti, è quello di ricreare il Giardino dell'Eden proprio lì, nel parco del castello. Ma non sarà facile.
L'amore per i fiori e la natura, che condividerà con molte persone, intrighi, superstizioni, maledizioni, una creatura misteriosa la cui voce angelica che risuona nelle notti della bella stagione, e pericoli di varia natura, fanno da cornice alla vita del giovane giardiniere, all'incredibile storia che vivrà e a una leggenda quasi dimenticata il cui unico ricordo è ormai la spilla su cui aleggia: quella di un giovane amore sbocciato sulle sponde di un lago minacciato dai pericoli del suo tempo e l'espiazione di un cavaliere.
Questa è la Leggenda delle Stelle d'Acqua.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 12: Ospiti d’Inverno


E
’facile parlare di alleanze quando in realtà non si ha neanche la minima idea di come organizzarsi. Eppure i due ragazzi ce la fecero. Non avendo moltissimi punti d’incontro però, e non conoscendosi abbastanza bene, la loro alleanza subì una fase di stallo nel periodo immediatamente successivo. Non solo perché fu il tempo che richiese la guarigione della sua nemica non più così nemica. Trovarono modo di cementificare quest’alleanza quando, un pomeriggio che si era completamente ristabilita, servì al giardiniere e il maestro qualcosa da mangiare. I due la ringraziarono e lei, pulendosi le mani al grembiule che indossava, domandò, osservando i fogli sul tavolo: «Quelli non sono i progetti del giardino?»
«No, sono gli esercizi di matematica di Agostino.» rispose Lucenzio. Poi la guardò: «Mi è giunta voce che tu l’hai umiliato con questa disciplina».
Il giovane, seduto lì accanto, arrossì mentre lei lì per lì non riuscì a rammentarsi dell’episodio: «Non mi ricordo».
«Effettivamente è successo qualche mese fa. Quando ti sei offerta volontaria per lavorare al giardino». Cercò di istradarla l’insegnante. La ragazza frugò nella memoria ma scosse il capo desolata: «Mi dispiace, non ricordo proprio». Agostino tirò un sospiro di sollievo che fece voltare i due verso di lui e il poverino arrossì. «Che c’è?»
«Che sospiri?»
«Che sospiro? Quale sospiro? Io non ho sospirato affatto!» I due decisero che quel giorno era strano e tornarono a ignorarlo. Il maestro scrollò le spalle e sorrise: «Non fa niente. Hai ancora la corona di fiori che ti ho regalato per San Giovanni?» Anche questa volta lei scosse la testa, dispiaciuta: «Purtroppo si è seccata, ho dovuto buttarla via».
«Non fa niente, per il prossimo San Giovanni te ne prenderò un’altra.» promise l’uomo e lei s’illuminò: «Dite sul serio, signore?» Il maestro le garantì di sì con un cenno d’assenso e un sorriso. La giovane ringraziò tutta sorridente disegnando ripetuti inchini poi, si congedò e se ne andò. Agostino trattenne un conato di vomito tutto il tempo. Quando l’altro si girò di nuovo verso di lui, fece molta fatica a non fulminarlo con lo sguardo e a rivolgersi a lui a male parole. Quella sera decise di sostare un po’in biblioteca. Purtroppo aveva scoperto che l’angelo del lago cantava solo durante la primavera e l’estate e che per la stagione invernale non si faceva udire neanche per sbaglio. Tra una scusa e l’altra non aveva più avuto tempo per dedicarsi alla lettura. Perciò voleva riprendere da dove si era interrotto. Stava cercando un libro, aiutandosi con una delle tante candele del loco quando sentì la voce de La Scorbutica: «Sei ancora sveglio?» Si volse verso di lei. Stavolta non era spaventato, l’aveva sentita arrivare. «Non mi va di dormire subito.» Si sforzò di non sorriderle. Non aveva ancora dimenticato il colloquio che aveva avuto con Lucenzio quel pomeriggio.
La bionda si avvicinò dicendo: «Io leggo tutte le sere prima di addormentarmi.» poi si mise a scrutare nella scansia accanto a lui. «I Da Campo ti hanno insegnato a leggere e scrivere?» Domandò il ragazzo. E, lei confermò con un cenno del capo: «E’stato il marchesino a insegnarmi». Rivelò con voce carica d’affetto per l’amico. Lui la guardò, non pensava che la sua voce potesse diventare così calda. «Vi tenete spesso in contatto?» La ragazza si guardò attorno con aria guardinga, poi gli rivelò, a voce bassa: «Almeno una volta ogni tre mesi, ma non lo sa nessuno. Una volta ci scrivevamo molto più spesso, ma non sta bene che una serva intrattenga rapporti epistolari con il figlio di un marchese.» finì con voce piena di tristezza. Fortunatamente Amalia non ne era a conoscenza. Lui provò un po’di pena per la giovane. «Almeno siete ancora in contatto, io non ho più sentito nessuno degli amici che avevo prima di trasferirmi qui».
«Mi dispiace».
«Anche a me. Ti manca?» Domandò cercando di cambiare discorso. Non voleva ripensare a loro: non l’avevano mai cercato nel corso di quell’anno, né dalla morte del padre né dal suo trasferimento. Begli amici, davvero. S’impose di non pensarci. «Un po’.» ammise la giovane. Poi trovò finalmente ciò che cercava e si diresse al tavolo. Anche Agostino trovò l’oggetto delle sue letture e la imitò, accomodandosi vicino a lei, ma non aveva più molta voglia di leggere. Il ricordo di quel pomeriggio ancora ben vivido nella sua testa. E forse parlò con un tono un po’troppo geloso, quando disse: «Però vedo che hai tanti amici qui, e che te la intendi con Lucenzio.» L’amica del marchesino lo guardò con l’aria di chi cade dalle nubi: «Me la intendo? In che senso?» Il ragazzo coi capelli di due colori diversi s’impappinò. Forse aveva preso una cantonata colossale. Ma ormai l’aveva detto, lei lo incalzava a rivelare tutto, e quindi continuò: «Gira voce che tu sia l’amante del mio maestro, è vero?» Chiese arrossendo ancora di più di quello che probabilmente doveva già essere. La giovane seduta di fronte a lui lo fissò a lungo con gli occhi sgranati prima di scoppiare in una fragorosa risata. Il quattordicenne la guardò stupefatto, vergognandosi. Tenne fermo il candelabro prima che i suoi colpi lo facessero ribaltare. «Smettila!» Le intimò. Se continuava così, avrebbe svegliato tutto il castello! Mentre lei si teneva la pancia con una mano e batteva il pugno sul tavolo, cercando di articolare una frase di senso compiuto: «Tu hai pensato che… io e Lucenzio fossimo… Questa è bella, no, questa è veramente bella. Non ho mai riso sì tanto in vita mia!»
«Ho capito! Ho capito! Mi sono sbagliato! Adesso smettila! Smettila!» Fece lui sentendo il sangue fluire alle orecchie e al collo, cercando di farsi udire sopra quegli sghignazzi sguaiati. La tredicenne si calmò, si pulì gli angoli degli occhi col dorso della mano e poi, venne scossa dalle ultime risa. «Sarà perché sei tu, ma se fosse stata un’altra persona l’avrei sbranato senza pensarci due volte. Tra me e mastro Lucenzio non c’è niente del genere. Da quando è arrivato qua, mi ha preso in simpatia in questo modo; dice che gli sono famigliare, che gli ricordo una sua sorellina, e anch’io provo la stessa cosa. Non so cosa sia, non mi era mai successo con nessuno, fatto sta che è molto gentile con me. Ma non ha mai osato sfiorarmi neppure con un dito.» lo rassicurò. Agostino sperimentò un fenomeno curioso: un po’della rabbia che aveva provato fino a quel momento scemò. Però fu subito sostituita dalla preoccupazione: «Stai attenta, anche se è gentile è pur sempre un uomo adulto, mentre tu…»
«Io?»
«Tu sei ancora vergine». E, a questa frase, anche parecchio scurrile persino per loro due, lei si accigliò: «E allora?» Ribatté in tono completamente diverso, offesa. «Stai attenta». Si raccomandò Agostino, esternando così ciò che pensava e provava: «Non voglio che tu finisca male. Sai cosa si dice sull’ingenuità delle fanciulle e di come gli uomini se ne approfittino facilmente. Poi sei una servetta, mentre lui è istruito, gli ci vuole niente per portarti a letto. L’ho già visto succedere». Fece quasi un balzo indietro sulla sedia quando lei lo trapassò con lo sguardo. Gli occhi ridotti a due fessure: «Credi che Santiago, Charo, i Da Campo e persino tuo zio non mi abbiano fatto la predica per questo? E, che non mi tengano d’occhio anche quando parlo con te o con qualsiasi altro membro maschile della servitù? Lo sai che non posso rivolgere la parola agli schiavi perché temono che loro, più di tutti, mi aggrediscano? E, che persino Amalia non abbia cercato di mandare all’aria quest’amicizia da quando è giunta qua? Credi che non ci stia provando persino adesso? Non ti ci mettere anche tu!» Urlò a voce sempre più alta, balzando in piedi e andandosene, lasciando il libro lì sul tavolo. Agostino si alzò: «Aspetta!» Esclamò ma troppo tardi, lei era già uscita e stava avviandosi a grandi passi verso la propria stanza.
L’indomani, una bella giornata di sole, lei non gli rivolse la parola per tutto il giorno. Neanche quando uscirono a fare la legna e stavolta venne anche Lucenzio. L’uomo, che aveva compiuto gli anni proprio tre giorni dopo Natale, aveva detto di non aver mai visto i boschi in inverno. Accorgendosi di come la ragazza li ignorava palesemente chiese spiegazioni ad Agostino, che si era lasciato sfuggire un sospiro che si condensò per via del freddo. «Che cosa è successo?»
Il giovane arrossì e mentì: «Niente, tutto come sempre; lo sai che siamo come cane e gatto e non ci sopportiamo». Poi si chinò a raccogliere un ramo nella neve.
«Mi era parso che in questo inverno i vostri contrasti si fossero appianati.» osservò.
«Bè, non è stato così.» lo superò e andò a raccogliere altri pezzi di legno. Bagnati com’erano, non potevano bruciare, però se li avessero lasciati vicino al caminetto si sarebbero asciugati. Lucenzio assottigliò gli occhi e allora provò un’altra strada: «Che cosa le hai detto?» Il ragazzo scattò come una molla e si volse verso di lui, terrorizzato; «Perché pensate che sia colpa mia?»
«Ha ignorato anche me, non solo te». Gli fece notare senza scomporsi.
«Niente».
«Sicuro? Guarda che lo vedo che mi stai mentendo.» non era difficile accorgersene: si agitava talmente tanto da andare nel pallone. Il bello era che lo stesso Agostino non lo sapeva, tantomeno immaginava: «No, ti assicuro che non ti sto mentendo». Il maestro lo squadrò a lungo prima di decidere di rispondere. «D’accordo.» concesse senza crederci lo stesso. Poi entrambi ripresero a camminare nella neve, verso una salita.
Se quei due tornarono a parlarsi fu perché Lucenzio alla fine chiese delucidazioni alla serva sull’accaduto. E quando quella sera lo seppe, fulminò l’allievo con lo sguardo: «Hai pensato che io e lei avessimo una relazione? Ma è una bambina! Non potrei mai abbassarmi a tanto!» Fece seriamente irato, quando lo trovò. Il ragazzo si stava scaldando alle fiamme del camino in camera loro. «Al castello si vocifera così...» squittì lui senza avere il coraggio di guardarlo in faccia. E gli occhi del maestro si assottigliarono ancor di più: «Ti ho già detto che me ne accorgo quando menti. Come ti è passato per la testa che io e lei potessimo anche solo lontanamente scopare? Eppure mi sembrava di essere stato chiaro già qualche mese fa!» Disse senza mezzi termini. E, il poveretto esplose: «Vi ho visto a San Giovanni e anche dopo e, quando le avete domandato della corona di fiori, ho pensato...»
«Ah, quindi non sono voci che girano, è farina del tuo sacco.» Lo interruppe e il ragazzo capì di essersi scoperto. Il ventiseienne sospirò, si schiacciò una mano sul viso e scosse il capo: «Mi meraviglio di te, Agostino, ora spargi veleno come una fantesca. Ti manca solo di metterti a rubare gioielli e spettegolare come una fantesca».
A quel punto il ragazzo balzò in piedi, offeso e sbottò, i pugni stretti e le braccia rigide lungo i fianchi: «Le ho solo detto di stare attenta e che non mi fido di quando degli uomini le ronzano intorno!» E, con maschi si riferiva, ovviamente, a lui. Il diretto interessato, da arrabbiato, scoppiò a ridere in una risata sguaiata, lasciandolo interdetto. E, sì che si era aspettato delle bacchettate per aver osato alzare la voce con lui. Anche se avevano un rapporto molto stretto, quasi fraterno, Lucenzio restava sempre il suo maestro. Però che strano, quella reazione era la stessa che aveva avuto Stella. Solo che stavolta, invece di preoccuparsi che lo sentissero, preferì girarsi verso il camino. Quando l’uomo si calmò, spiegò: «Stella? Le hai detto che io starei cercando di attentare alla sua verginità? Questa è bella, aspetta che me la segno».
«Perché, non è così?» Domandò il giardiniere, guardandolo incerto, mentre prendeva consapevolezza di aver sollevato quel vespaio per niente. L’altro negò: «E’una bambina e a me sembra di essere suo padre. Mi sento in dovere di proteggerla dalle angherie di Amalia. Non sai neanche lontanamente quanto quella donna l’abbia con lei. Posso sopportare che l’abbia con me, e lo posso anche capire, ma non con lei, che è solo una bambina. Le ho promesso di aiutarla a combattere Amalia, capisci?» E, questo spiegò come mai erano così uniti. Questo ad Agostino non bastò: «Quindi perché a San Giovanni le avevate comprato quella corona di fiori?»
«Perché il suo cagnolino era morto quella mattina perciò le ho fatto quel regalo per tirarla su di morale. Non mi è sembrato giusto che passasse un giorno così bello a piangersi addosso.» spiegò. «Il tutto sotto gli occhi di Santiago e Charo.» aggiunse. Agostino ammise a se stesso di non averli veduti ma, considerando gli sguardi cattivi che gli aveva lanciato Charo quando aveva provato a chiedere di Stella... «Ma poi avete anche fatto il tifo per lei quando ha saltato i fuochi.» disse invece, come se questa potesse essere una prova di colpevolezza. Il maestro sbuffò, irritato: «Se non l’hai notato, stavamo facendo tutti il tifo, e l’ho fatto anche per te.» poi aggiunse «Comunque, se proprio ci tieni a saperlo, dopo quest’episodio ha passato tutta la giornata con Santiago e Charo, mentre io sono rimasto assieme a te. Questo te lo dovresti ancora ricordare». Se lo ricordava. Il giovane, sconfitto, e col viso rosso come lingue di fuoco, chinò il capo: «Perdonatemi, io...» Il maestro lo prevenne dicendo «Non ti scusare, Agostino, sei solo geloso».
Agostino lo guardò, sorpreso: «Geloso? Ma di che parlate?»
Il maestro biondo lo guardò divertito: «Ancora non...Ah, non sarò certo io a infilarmi nelle tue beghe amorose». Poi gli volse le spalle e tirò fuori la camicia da notte da sotto il cuscino. Cominciò a spogliarsi dicendo: «Faremo bene a metterci a letto, domani ci aspetta una lunga giornata.» Il ragazzo concordò con lui e decise di imitarne l’esempio. Eppure sentiva che c’era qualcosa che non andava. Di solito il maestro non parlava mai quando spegnevano la lucerna e si coricavano nei rispettivi letti. E loro potevano dirsi fortunati perché nelle altre stanze c’erano altre sette o otto persone, come minimo. Soltanto le camere nobiliari erano singole. Eccezione fatta per i servitori più fedeli, che dormivano in lettini con loro. Invece quella sera era in vena di chiacchiere perché non la finiva più di parlare a ruota libera. «Maestro?» Lo chiamò a un tratto Agostino. «Sì?»
«Qualcosa vi turba, maestro?»
«Cosa ti fa pensare che io sia turbato?»
«Vi conosco un po’, voi non parlate mai prima di coricarvi, a parte per le preghiere la domenica». L’uomo tacque a lungo prima di sospirare un sofferto: «Sì».
«Riguarda quello che ho detto?» Chiese l’altro timoroso. Non gli piaceva che l’uomo potesse avercela con lui. «No, non è quello, neanche più di tanto, in realtà».
«Allora cos’è?» L’altro tacque così a lungo da fargli pensare che si fosse addormentato: «Amalia».
Il ragazzo si mise seduto sui gomiti, e lo cercò al chiarore delle fiamme che andavano consumandosi, ma l’uomo era sdraiato su un fianco e in ogni caso, da dove si trovava, non riusciva a vederlo: «Che vi ha fatto?» Chiese preoccupandosi, con voce chiara. Stranamente non aveva più molto sonno come prima. In altri tempi avrebbe avuto la voce già impastata di sonno. «Vuole che le insegni l’arte dell’eloquenza.» rispose Lucenzio con tutto il disgusto che poteva esprimere. «Chiaramente una mossa per tenerci d’occhio e per separarmi da te e da Stella». «Pensavo che voi non rientraste nelle mire di Amalia». Un fruscio dal letto gli annunciò che si era seduto, incuriosito, e il giovane si affrettò a rimediare «Cioè, pensavo che le persone che considerasse suoi nemici fossero solo Stella, mio zio Etienne ed io, non pensavo che anche voi foste un suo nemico».
«Invece è così.» sbuffò l’altro come se la conversazione stesse diventando troppo pesante. Ormai mille interrogativi stavano sorgendo nella mente di Agostino. «Perché?» Domandò. L’uomo sospirò, chiuse gli occhi e si pizzicò la radice del naso. E sempre in quella posa, disse, in tono da discorso chiuso: «Un giorno la curiosità finirà per ucciderti».
«Ma… Sì, maestro. Scusatemi».
Poi entrambi si coricarono davvero. Agostino però non riuscì a prendere sonno e passò molte ore a guardare le fiamme del focolare spegnersi.

Le lezioni che Amalia richiese a Lucenzio si svolsero la mattina. E, in gran segreto al suo circolo letterario del quale era anche mecenate. Non voleva che sapessero che non ne capiva un accidente. E, questo, col procedere, finì per rendere il giovane maestro stizzoso più che mai. A lezione finita si lamentava tutto il tempo della sua nuova allieva. Per imparare l’arte della retorica dovevano ripercorrere la filosofia e la letteratura, doveva cioè, ampliare il suo pensiero e il suo vocabolario. Si domandò come la sua cerchia d’intellettuali non si fosse accorta di questa sua lacuna. Dopo solo cinque lezioni, gli parve evidente che la testa della sua nuova allieva era come un portone rinforzato, chiuso con lucchetto e catenaccio, oltre che col chiavistello. E, lui, per quanto si sforzasse, al momento non riusciva a trovare la giusta chiave per aprirlo. Il lato positivo, diceva, era che neanche lei era così entusiasta di fare lezione con lui. Era evidente che se avesse potuto avrebbe chiamato qualcun altro.
La minaccia di Etienne e degli altri era ugualmente costante, perciò si dovette accontentare. «Tuo zio mi dovrà pagare molto, e con gli interessi.» fece il giovane uomo sedendosi a tavola in cucina con Agostino per il pranzo. Poi, gomiti sul tavolo, prese a massaggiarsi le tempie con la punta delle dita. Aveva scritto in faccia le parole: se potessi, la ammazzerei di botte; ma non poteva. Non solo perché la violenza non era nella sua natura. «Abbiate pazienza, maestro.» cercò di incoraggiarlo Etienne, che era accomodato di fronte a lui e lo stava guardando con occhi pieni di pietà. Perciò fino a quel momento aveva taciuto. «Facile per voi, dirlo, vero?» Lo canzonò il biondo guardandolo di sbieco mentre gli era servito un abbondante piatto di pasta ripiena. Poi l’uomo si fiondò sul cibo. E, dopo aver bevuto un po’di sidro di mele, si volse verso il suo allievo e gli domandò se avesse fatto pace con Stella. Il giovane scosse il capo, contrito: «Non ci sono riuscito. Lo farò stasera».
Quella sera la trovò in biblioteca, seduta al tavolo. Stava scrivendo qualcosa su delle pergamene e a volte alzava lo sguardo per consultare un libro e tornava agli appunti. «Che cosa scrivi?» Domandò il giovane senza annunciarsi. Lei sobbalzò e lo guardò, spaventata: «Non si bussa più?»
«Scusami».
«Per cosa? Lo spavento?» Chiese lei accigliandosi. Il ragazzo gesticolò con una mano nel dire: «Anche».
«D’accordo.» ma il suo tono aspro era rimasto immutato. Solo allora, come se gli avesse dato il via libera, si accostò al tavolo e le sedette di fronte: «Cosa scrivi?» Domandò inarcando le sopracciglia, cercando di fare conversazione. Anche se si era scusato, sentiva che il rimorso non se ne era ancora andato. «Sto trascrivendo il Tristano e Isotta. Non so perché ma me li ricordo meglio se li trascrivo.» Disse lei senza staccare gli occhi dal proprio lavoro. «Davvero? Interessante, io lo sto leggendo».
«L’hai già finito?»
«No, in realtà non ricordo neanche più a che pagina sono.» restarono in silenzio per un po’. Si sentiva soltanto il rumore della penna sulla pergamena. Infine Agostino si scusò anche per aver insinuato che lei e il maestro avessero una relazione. Soltanto allora lei si addolcì e lo perdonò. Fecero pure per dire qualcosa in contemporanea e risero di ciò. Poi fu lui a offrirsi di dettarglielo. Così avrebbe potuto continuare la lettura anche lui. La ragazza la trovò una splendida idea. E così cominciarono queste serate, durante le quali i due trascrissero il libro.

Solo una sera le cose parvero tornare come prima che stringessero quell’alleanza. Cioè quando giunsero a castello dei cavalieri. I quali chiesero di poter passare lì un paio di giorni per riprendersi dalle fatiche del loro viaggio. Amalia li accontentò, ma guardò Etienne come a dire: «Almeno questo lo posso fare?» Siccome non era riuscita a piegarlo alla propria volontà, tantomeno a strappargli la lettera. La presenza dei cavalieri fu una buona scusa per una tregua tra di loro. Agostino era molto eccitato nel vedere dei cavalieri da vicino. L’ultima volta che era accaduto era stato il giorno del suo arrivo a castel Toblino, ma era ancora sopraffatto dal ricordo dei genitori per pensare ad altro. Finalmente poté vederli da vicino. Stella invece non ne fu molto entusiasta, anche se, quando lui gli chiese perché, non rispose.
Perciò li fecero entrare e la dama indisse un banchetto per i loro ospiti e comandò alla servitù di ristorarli e rifocillarli come si conveniva, giacché erano pur sempre dei cavalieri al servizio della Santa Chiesa. Il drappello di cavalieri era composto di sei persone: un uomo alto e massiccio come un vichingo, dalle spalle larghe, i capelli mossi biondi platino e la faccia rossa, uno dai lineamenti vagamente volpini e gli occhi scuri. Uno che pareva siciliano, a giudicare dall’accento. Uno scozzese e due guardie pontificie. Vederli lì tutti e sei senza cotta di maglia e armatura con le insegne della Chiesa faceva uno strano effetto. Parevano quasi persone comuni. Se non fosse stato per le cicatrici e i racconti che narravano.
Amalia indossò per loro le sue vesti migliori e il suo trucco più bello, anche se poi un cavaliere, con poco tatto, le fece notare che l’erpes era comunque visibile, facendo così scompisciare il resto del drappello e parte dei servitori presenti. La donna avvampò interdetta prima di sciogliersi in una risatina a sua volta. E, inaugurando così la serata, li invitò nella sala dei banchetti e li fece accomodare alla lunga tavolata. I servitori cominciarono a servire le varie portate.
«Ditemi, miei signori, cosa vi porta in queste terre?» Domandò "la padrona di casa" mentre dei servi servivano loro da bere e i musici allietavano la serata. Erano cavalieri che avevano appena sterminato una delle tante sacche eretiche che imperversavano per l’Italia settentrionale, per la precisione nel Tirolo e ora stavano compiendo il viaggio di ritorno. Poi raccontarono delle loro imprese di cappa e spada per conto della Chiesa, probabilmente infarcendo un po’la verità con un po’di fantasia, giusto per le gentili orecchie che stavano udendo le loro fole. Agostino si mise a chiacchierare con il biondo, tanta era l’ammirazione che provava per i cavalieri. Avrebbe tanto desiderato diventarlo anche lui. E l’uomo sembrò ben felice di rispondere a tutte le sue domande. «Essere cavaliere non è facile, devi essere fedele alla Chiesa, a Dio. Quando agisci in Suo nome, quando mulini la tua spada sui servi del Male, ecco, lo Senti vicino a te. È una sensazione indescrivibile. Anche se a volte non è facile perché devi commettere atti estremi.» raccontò.
«Vi capita anche di scontrarvi con eretici?» Chiese Lucenzio, che sedeva a tavola di fronte a loro.
«Oh, loro sono i peggiori. Sono coloro che in primis hanno rifiutato la Parola del Signore».
Lo studioso parve diventare una statua di sale, tanto s’immobilizzò. Infine domandò, con un sorriso forzato sulle labbra: «Cosa ne pensate dei fedeli delle altre religioni?» L’uomo bevve un sorso di birra. Lo sguardo già annebbiato. Ruttò sonoramente, facendo rabbrividire Lucenzio per lo schifo, prima di rispondere: «Degli Ebrei, intendete?»
«Sì.» rispose Lucenzio lentamente, quasi che accarezzasse quel monosillabo, ancora schifato e pietrificato nella stessa posizione. Non amava che gli si ruttasse in faccia mentre mangiava. Invece il giovane allievo stravedeva per lui. Come se vedesse un cavaliere cortese delle leggende che tanto amava, e non un uomo in carne e ossa con tutti i suoi difetti. Infatti, non si sa con quale coraggio, riuscì a ignorare la risposta non poco razzista del cavaliere: «Trovo che stiano bene dove stiano e che abbiano ancora da scontare molti peccati prima di ricevere il Perdono di Dio e della Chiesa; mi dispiace solo che andranno tutti all’Inferno per le loro mancanze e per essere senza Dio». «Quindi, secondo vossignoria dovrebbero...»
«Essere riconvertiti tutti. Inoltre non mi piacciono, sono troppo avari, pensano solo al denaro e ai gioielli e i loro traffici. Non si riesce a farli parlare d’altro, anzi, con loro non si può proprio parlare». Lucenzio alzò le sopracciglia e guardò in basso a destra con la faccia che diceva chiaramente: oddio, ma cosa sto sentendo? Lo sapevano di trovarsi nel 1461 e che ormai era l’umanesimo? Era l’epoca in cui l’uomo tornava a essere al centro dell’universo. E, gli Ebrei non erano forse uomini come loro? Dov’era la differenza? Tentò di instaurare una difesa in onore di quel popolo cui dovevano molto: «Ma tra loro esistono anche valenti medici ed erboristi e studiosi».
«Se la intendono con il Demonio e non se ne accorgono. E’ per questo che siamo qui, per riportarli sulla retta via».
«E, la scienza?» Chiese con un certo sforzo Lucenzio, sempre più sgomento, anche se lo nascondeva bene. L’uomo per tutta risposta tracannò un altro po’ del suo boccale di birra, prima di biascicare: «Datemi retta, la scienza non è che una delle tante menzogne degli alchimisti.» E, di nuovo fu sbeffeggiato dai colleghi. I quali gli gridarono che era per via della sua paura dei dentisti che odiava la scienza in generale. Il cavaliere biondo berciò una rispostaccia e si pulì assai poco educatamente il viso bagnato di birra col dorso della mano. «Tutto quello che c’è da sapere, lo dice il Santo Padre, lui non sbaglia mai».
«Agostino, per favore, vattene via.» ordinò improvvisamente il maestro, gli occhi dardeggianti d’ira trattenuta. Il ragazzo parve risvegliarsi dalle sue fantasie e disse, guardandolo scontento: «Cosa? Ma perché?»
«Fa come ti ho detto, obbedisci». Ribatté il maestro trapassandolo con gli occhi. Il ragazzo sobbalzò, non l’aveva mai visto così irato come in quel momento. «Non sono discorsi che un ragazzo dovrebbe sentire».
Stranamente la loro conversazione fu intercettata dalle orecchie fini di Amalia, che, con gentilezza domandò: «E, perché non dovrebbe restare ad ascoltare? È giusto che conosca quello che succede al di fuori di queste quattro mura. Un giorno se ne dovrà andare da qui, e trovare la sua strada, no?» Il maestro le scoccò un’occhiataccia e cominciò a parlare con lei, spiegandole la ragione del suo ordine. E, forse ci sarebbe riuscito meglio se non fossero stati interrotti da un altro cavaliere, il quale assestò una poderosa pacca sulla spalla dell’uomo con la rosacea e lo canzonò: «Non dar retta a questo contafrottole! Lui non ha mai scovato neanche una volpe nella sua tana».
L’altro volse il capo verso di lui per scoccargli un’occhiataccia ma il siciliano continuò, già alticcio: «Non riuscirebbe a trovare una strega neanche se gliela mettessero sotto al naso. Una volta stavamo dando la caccia a dei valdesi o dolciniani, non ricordo, insomma, gliene sfilano due davanti e lui non solo non se ne accorge, ma addirittura li aiuta a passare i confini del paese! Fortuna che li abbiamo recuperati in tempo. Quando il nostro amico qui l’ha saputo, è stato messo alla gogna. Che ridere. Oh, che ridere.» E, si sganasciò dalle risate, seguito dal resto del gruppo il quale prese a elencare i suoi disastri. Eppure ciò non tolse fascino alla figura di cavalieri protettori che incarnavano tutti loro. E quando ripartirono due giorni dopo, Agostino aveva ancora quella luce d’adorazione negli occhi che nessuno riuscì a togliergli per molto tempo.
   
 
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