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Autore: The Custodian ofthe Doors    24/03/2018    2 recensioni
Sei volte in cui Robert Lightwood è stato un padre esemplare ma solo Alec se n'è accorto ed una in cui tutti lo hanno visto.
♦ First memory.
♦ A little secret for us.
♦ The fourth son.
♦ Have a quality.
♦ Eyes of glass.
♦ Remember.
♦ Father.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Robert Lightwood
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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6- Remember.
 

Quando Alec si deve sposare pensa amabilmente che potrebbe morire.
Il suo completo è oro puro, rifulge di luce propria, quasi quanto la stregaluce o forse proprio come quella visto che il tessuto ne è pregno, Sole accecante nella sua piccola celletta. È lì ad attendere e la camera non gli è mai parsa così vuota e al contempo così piena di ricordi.
Posa lo sguardo su un segno sul muro, proprio sopra la testiera del letto, dove spunta ancora un chiodo a cui un tempo era attaccato un oggetto che Alec ha sempre tenuto in grande cura e che ora è nel loft, nascosto dove né Max né Rafael possono vederlo e prenderlo.
Qualcuno bussa alla porta e Alec prega che non siano di nuovo sua madre o sua sorella, o Clary che vuole chiedergli qualcosa in vede delle altre, o Jace che cerca di far passare lui per quello agitato quando è evidente che il biondo lo è ancora di più e sta rischiano l'attacco di panico imminente.
Non capisce proprio perché la gente debba credere che lui sia in ansai, non sta mica andando a morire, sta per sposarsi con un uomo con cui convive già da anni e con cui ha già una famiglia, è solo un ufficializzazione, un poter finalmente essere riconosciuti come compagni anche da una legge che non li ha mai davvero aiutati ma che ha fatto passi da gigante da quando hanno cominciato la loro storia.
La presenza di Helen Blackthorn nel giardino dell'Istituto ne è la prova e lo fa gonfiare d'orgoglio.
La sua attenzione torna alla porta quando una chioma nera ma sbiadita sbuca dall'uscio ed Alec si ritrova a fissare una versione di sé più vecchia di trent'anni.
Robert entra di soppiatto, cercando di non farsi vedere da fuori, si poggia alla porta e lo guarda attento, in silenzio.
Rimangono così per un tempo indefinito, senza sapere cosa dirsi come non lo sanno da una vita.
Alec ha solo il coraggio di mormorare che ha paura di calpestare i piedi a Magnus durante il loro primo ballo, perché si, lo stregone vuole farlo a tutti i costi e lui non ha avuto possibilità di replica.
Si stropiccia le maniche della maglia che ha indosso e alza di scatto la testa quando Robert, improvvisamente lontano, gli ricorda che glielo aveva insegnato a ballare.

 

La palestra è grigia di ombre pomeridiane, il grammofono suona la sua melodia girando e rigirando su se stesso come un hoolahop impazzito. Sono note di un lento cadenzato e ripetitivo, ben scandito ed ideale per imparare a tenere il tempo.
Alec è di fianco a suo padre che gli indica il piede con cui iniziare, glielo sistema in posizione con il suo e gli intima di tenere la testa alta, reclinata leggermente all'indietro.


<< Un giorno dovrai prendere il mio posto, andrai ad Idris e dovrai saperti rapportare alla più alta società del nostro paese. Ballare valser e lenti è un ottimo modo per instaurare amicizie.>>

Gli prende le mani e gliele posiziona come si deve, abbassa il suo braccio e gli dice di reggersi, così provano a fare un paio di passi in sequenza.

Quando Izzy farà otto anni lo insegnerà anche a lei, ma per ora è troppo piccola, non imparerebbe nulla e si limiterebbe a ballicchiare come fa da sola, scoordinata e indisciplinata. Glielo dice con tono sicuro, certo che avrà il tempo di fare tutto ciò che si è ripromesso.

 

Poi i viaggi si erano fatti serrati, era nato Max, era arrivato Jace e tutto era sfumato.

Alec guarda suo padre e lo vede triste, la stessa patina opaca che oscura i suoi occhi da quando è nato, che non ha mai capito a cosa fosse dovuta.
Rimpianti e dolore, ora lo sa, ora lo capisce, lo capisce fin troppo bene Alec.
Se ne è reso conto in quegli anni, quando hanno trovato Max e poi quando hanno adottato Rafael, non lo giustifica, non giustifica assolutamente le azioni di suo padre, ma ora che lo è anche lui a sua volta, lo capisce. Così come capisce che il giorno del suo matrimonio non vuole vederlo in quello stato.
Con il coraggio che ha accumulato in quegli anni, la tranquillità verso sé stesso e coloro che ama, verso il suo essere e le sue azioni, con la pacatezza e la delicata gentilezza che lo caratterizzano da quando è nato Alec si alza dal letto che lo ha visto spesso insonne o distrutto da cacce, allenamenti e dolori e chiede a suo padre di aiutarlo a rivedere i passi.
Si pone al suo fianco e aspetta paziente che Robert metabolizzi la sua richiesta e gli mostri come muovere i primi passi, proprio come fece quando aveva otto anni e gli insegnò a ballare. Proprio come fece quando erano ancora ad Idris e gli insegnò a camminare.
Il primo ballo del giorno del suo matrimonio Alec lo fa con suo padre, che canticchia a mezza bocca un ritmo famigliare e nostalgico, accompagnato da una chitarra fantasma e dalla voce lontana di un bambino che ricorda come in un sogno le parole di una canzone sentita in un'altra vita.
Sa che ufficialmente sarà sua madre a ballare con lui in pista e si gode quel momento da solo con un uomo che ama come solo un figlio può amare suo padre e non comprende per le stesse identiche ragioni.
Lascia che suo padre gli mostri come posizionare le braccia e gli rammenti che il primo ballo lo deve fare per bene e che avrà tutto il resto della serata per dondolare senza senso al centro della pista stretto a suo marito.
Alec non osa dirgli che quella definizione -marito- gli ha scosso il corpo di brividi e Robert non sembra averlo notato.
Ballano così, per ricordarsi come si fa, sia a muover passi a tempo di musica, sia ad essere padre e figlio. Per rimparare a camminare, con la sicurezza che ci sarà sempre qualcuno pronto a prenderci quando cadiamo.
Quando si fermano Robert non riesce a lasciare la presa sul braccio del figlio e lo guarda come se lo vedesse per la prima volta o lo ammirasse per la millesima.
Quante parole c'erano non dette, quante occasioni sprecate che si stavano tutte condensando in quel singolo momento, in quella piccola bolla solo loro.
L'uomo si riscuote solo per mormorare un basso e flebile “Scusa”, che si riferisce a tutto e a nulla.
Si schiarisce la voce e gli dice che gli dispiace aver rubato a Magnus il loro primo ballo.
Alec scuote la testa e rafforza la presa: va bene così, non si pente di nulla, non si è perso nulla, Magnus avrà il loro primo ballo da sposati, suo padre l'ultimo da “uomo libero”.

<< L'ultimo da ragazzo...>>

Che probabilmente vuol dire che è l'ultimo ballo in cui Alec è ancora solo il bambino che lo aiutava a far addormentare il fratellino la notte o che proteggeva sempre gli altri, ma Alec lascia che rimanga nell'aria come quello 'scusa' mormorato appena, come tutto ciò che non si sono detti e che mai faranno ma che alla fine hanno comunque capito.
Alec gli sorride.

<< L'ultimo con il mio papà.>>

Robert lo guarda con uno strano scintillio negli occhi e Alec ci mette una frazione di secondo di troppo per capire che sono lacrime quelle che illuminano lo sguardo di suo padre.
Le stesse che inumidiscono i suoi di occhi quando gli dice che è fiero dell'uomo che è diventato – Sono fiero di tutti e tre a dir il vero- e che saranno sempre loro il suo vero grande amore.

Sono confessioni di una vita, che se fossero arrivate prima avrebbero risparmiato loro tanto dolore e tanta distanza, ma va bene anche così, va bene tutto purché alla fine ci si ritrovi.

Questo è solo un altro dei loro segreti.

 

 





 
I giorni importanti della nostra vita sono un'infinità. Se vogliamo essere del tutto sinceri ce li scegliamo da soli, siamo noi a definire un giorno “importante”.
Può esserlo per il lavoro, per la scuola, per la famiglia, per gli amici. Un giorno ha l'importanza che noi gli diamo, indipendentemente da quella che gli affibbia la società.
Il matrimonio è uno di quei giorni, quelli universalmente riconosciuti come importanti.
Per le spose è “il loro giorno” e spesso, con una punta di rammarico, da una parte gli uomini non comprendono come possa esserlo, dall'altra, con l'orgoglio borioso, credono che sia tutto merito loro.
È davvero il giorno della nostra vita il matrimonio? Ne dubito fortemente.
Il matrimonio non è altro che un'ufficializzazione, il momento in cui si pone la propria firma -che deriva da “fermo” e vuol dire bloccare un attimo, un'azione, un patto nel tempo- e si diventa parte di qualcosa di nuovo non per noi, non per gli altri, ma solo ed unicamente davanti alla legge.
E che la legge sia terrena o di Dio questo spetta solo a noi deciderlo.
Tristemente il matrimonio non nacque per amore, ma per assicurare le due parti che lo contraevano, un vincolo che obbligava l'uomo e la donna a certi doveri e certi diritti. Come è cambiata la sua concezione nel corso del tempo, quanto gli abbiamo dato di magico, mistico, santo ed importante.
Non lo è davvero, è solo una festa, una festa per far sapere a tutti che finalmente si è assieme, si è lasciato il proprio nido e ci si è accomodati in uno nuovo, costruito con fatica e dedizione, un ramo alla volta, come un tempo fecero i nostri genitori.
Ha davvero importanza chi c'è in quel nido? Importa davvero se sia sullo stesso albero di quello vecchio o se si trovi nel parco affianco?
Abbiamo così tante idee, così tante aspettative dal matrimonio da farci vivere inizialmente come se la nostra relazione fosse appena iniziata, senza renderci conto che non è altro che l'ennesima replica di una sceneggiatura già provata e riprovata negli anni e che continueremo a ripetere finché ci sarà amore.
Credo che la parte più importante del matrimonio non sia l'anello e le promesse, il vestito elegante e la torta sontuosa. Credo che sia proprio la firma, proprio quella linea nera che si arrotola su se stessa e forma le lettere del nostro nome ora, per iscritto, fermo nel tempo, vicino a quello di chi amiamo.
Il domani non sarà diverso dall'oggi, non si rivelerà nei primi giorni, neanche nei primi mesi, la differenza arriverà quando non sarà più nostra madre a poter entrare con noi da un medico perché è richiesta la presenza del coniuge, quando nei momenti difficili non saranno i genitori dell'altro ad essere chiamati a prendere una decisione, ma noi. Quando le lettere arriveranno ad uno e all'altro. Quando prenderemo un mutuo, quando ci saranno l'aspettativa per maternità o per paternità.
La differenza arriverà quando nascerà nostro figlio e vivrà esattamente come siamo sempre vissuti noi, convinto che questa sia la sua famiglia, senza mai sospettare che un tempo noi siamo appartenuti ad un altro nido.
Si chiama “nucleo famigliare” ed è nostro.
Lo è quando siamo nati ed i nostri genitori ci hanno visti per la prima volta e muterà quando saremo noi a vedere i nostri figli.
Cos'è il matrimonio dunque, se non il preludio del cambiamento?
Perché i genitori piangono e gli amici credono che non ci vedremo più come un tempo?
Il giorno del nostro matrimonio è l'ultimo in cui il mondo ci vedrà come singoli ed il primo in cui ci vedrà come coppia. E non importa se sia quella che tutti si aspettano o una coppia “non convenzionale”, non importa neanche se una chiesa, una sinagoga o un templio vedranno le nostre promesse, se sarà un ufficiante in nome di Dio a renderci uniti o un avvocato in nome della legge e della sempiterna dea bendata.
La verità è che non importa neanche se ci sposeremo o meno, la nostra famiglia nasce con il tempo, spesso senza che ce ne rendiamo conto.
Nasce cominciando a portare i nostri vestiti in una casa, lasciare un cassetto alla nostra metà.
Ed i nostri genitori piangono perché sanno che ora, al termine di ogni estate, all'inizio di ogni inverno, non migreremo più nel loro nido ma ci poseremo su di un altro che impareremo a chiamare nostro.
Il matrimonio non è altro che l'ufficializzazione, la nota finale, l'attimo fuggente in cui ai nostri genitori è permesso stringerci un ultima volta e dire che siamo “i loro bambini”, l'ultimo giorno in cui se avremo bisogno di qualcosa chiameremo loro e non i nostri compagni.
È l'ultimo giorno per dirci di prepararci e non mollare, che il matrimonio -l'amore- è fatto di alti e bassi, spesso molto più bassi che alti. Che siamo umani e che alle volte le urla significano interesse ed il silenzio arresa. Che arriverà il giorno in cui ci domanderemo cosa abbiamo fatto, perché arriverà di sicuro, e che quello sarà anche il giorno in cui dovremmo ricordarci più di tutti perché abbiamo scelto proprio quella persona. Perché potevamo avere il mondo ma abbiamo voluto lui.
È l'ultimo giorno per imparare a camminare sulle nostre gambe sorretti dalle mani di chi ci ha dato la vita, che sia in senso letterale o che ci abbiano cresciuto come se fossimo figli loro -i figli che siamo-.
Ci diranno cose, quel giorno, che avrebbero potuto dirci prima, che ci avrebbero risparmiato tanti problemi e tante fisime, che ci avrebbero aperto gli occhi e ci avrebbero fatto fare meno errori o che forse ci avrebbero fatto cadere meglio.
Ma lo hanno fatto, i nostri genitori non devono insegnarci a non cadere ma ha farlo bene e poi a rialzarci.
Quello sarà solo il giorno in cui realizzeranno quanto siamo cresciuti, quanto ha corso il tempo e che non potremo più tornare indietro, non saremo più i bambini che chiedono di esser presi in braccio e gli adolescenti che chiedono di essere trattati da adulti.
Quello sarà l'ultimo giorno in cui potranno prenderci in braccio e trattarci comunque da adulti.
Non serve aver rimpianti, ce ne renderemo conto quando ci guarderemo indietro e loro saranno lì ad aspettare di vederci sparire all'orizzonte.
Perché alla fine, quando la nostra nuova vita sarà diventata la normalità, quando saremo nella nostra “nuova famiglia”, ci renderemo conto che il ramo su cui è posto il nostro nido è proprio di fronte a quello vecchio.
La famiglia non ti lascia mai, ma questo è un segreto che impareremo solo con il tempo.
E sarà la sorpresa più bella di tutte.
   
 
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