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Autore: Koa__    27/03/2018    6 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Mendelssohn, Violin Concerto
 



A intrappolarlo, in quel primo pomeriggio della metà di dicembre, fu il sorriso gioviale di Mike Stamford che piombò con una puntualità da galera nell’esistenza ormai scombussolata del severo professor Holmes. Quel giorno, Sherlock non avrebbe dovuto nemmeno andarci, in sala mensa. Non aveva fame, non mostrava alcun interesse nell’interagire con alcun essere umano e le sue dita parevano fremere dalla voglia di suonare. Gli capitava spesso di sentirsi in quel modo, di bruciare dal desiderio di riversare in musica sentimenti ed emozioni, d’eccitarsi nel non veder l’ora di poter imbracciare il violino. Era il solo aspetto che non gli piaceva della vita a Oxford, oltretutto questa giornata non era tra quelle che poteva facilmente dedicare alla musica. Aveva passato la mattinata in laboratorio e ora, a peggiorare le cose, sentiva il bisogno di parlare con John. A lui aveva pensato per tutta la notte vissuta drasticamente in bianco, e il ricordo del loro bacio gli aveva quasi impedito di lavorare correttamente e concentrarsi sulle attività giornaliere da svolgere. L’idea di John aveva prevalso su tutto, finendo addirittura per convincerlo a spingersi fuori dal laboratorio. Anche se al momento l’ingurgitare cibo lo disgustava, aveva deciso di preparare un buon pranzo. Voleva stare con lui. Parlarci. Guardarlo sorridere. Voleva baciarlo di nuovo e farsi baciare, magari non davanti a centinaia di studenti, si disse con una punta d’ironia mescolata alla preoccupazione. A questo aspetto non aveva neanche pensato; avrebbero dovuto discuterne? La loro era una relazione segreta? Ma poi… ciò che lui e John avevano poteva definirsi una relazione? Si erano a malapena sfiorati e magari John aveva già cambiato idea, magari non lo voleva più e si era pentito d’averlo baciato. Lui e John non erano niente d’altra parte, Sherlock doveva smetterla di fantasticare su quelle sue mani piccole e tozze, ma incredibilmente forti, che lo avevano stretto a sé davanti al camino. Così come non doveva più sognare di perdere il senno su quelle dannate labbra. Sì, si erano baciati ed era stata una sensazione stranissima che ancora faticava a catalogare. Era un’insolita invasione, però piacevole e affatto sgradevole. Dannatamente emozionante. Sì, si erano baciati, si ripeté per un’ennesima volta e ancora non ci credeva. Sebbene stesse tentando maldestramente di razionalizzare, ciò che aveva ottenuto da se stesso era un’infantile trepidazione che si ritrovò a provare anche in quel momento. Freneticamente si guardava attorno, spiando tra la folla accalcata ai tavoli e sperando al contempo di trovarlo. Di scorgere quella chioma bionda tra tante altre con ben poca importanza. Sarebbe venuto a pranzo? Era quel che faceva ogni giorno, però oggi poteva volerlo evitare. Dannazione, neanche gli aveva scritto! Pensò mentre iniziava a pentirsi della decisione di non parlarci se non direttamente a voce, lasciando da parte i messaggi. Credeva fosse una mossa saggia, ma la verità era che non sapeva cosa dirgli. Era imbarazzato all’idea di scrivergli senza che la situazione fosse perfettamente chiarita, cosa che nessuno di loro due si era preoccupato di fare a voce. Dopo che era successo, sì insomma, dopo che si erano lasciati andare a quel lungo bacio davanti al camino, non si erano neanche guardati negli occhi. Sherlock si era limitato a raffazzonare un timido “Buona notte” e a sparire in camera. Forse John l’aveva presa come una fuga, cosa che effettivamente era stata, ma sul momento a prevalere era stato il forte desiderio di riflettere e di starsene da solo. Aveva dato il suo primo bacio da uomo drasticamente adulto e sembrava che il proprio palazzo mentale non l’avesse presa un granché bene. Per questo non aveva dormito e il mattino seguente era uscito di casa alle sei con violino e valigetta. Andare in laboratorio (evitando d’incontrarlo a colazione) gli era sembrata una buona idea. Tuttavia, verso mezzogiorno aveva iniziato a sentirne la mancanza. L’assenza di un chiarimento e di parole nitide messe fra di loro, avevano cominciato a pesare. Così come lo opprimevano le immagini che di continuo gli si proiettavano davanti agli occhi, e che comprendevano lui e John avvinghiati e svestiti. Era stato allora che aveva deciso. Poco dopo, presi sciarpa e cappotto, era filato dritto in mensa.

Conoscendo perfettamente gli orari delle lezioni di John e sapendo, forse meglio di lui, verso che ora si recava in mensa per il pranzo, aveva pensato bene di precederlo e preparargli una specie di sorpresa. Nulla di elaborato, nessuna cena cucinata dalle sue sofisticate mani da chimico. Solo un piatto delle linguine di Angelo e quelle parole che gli giravano sulla punta della lingua, pronte per esser dette. Sì, aveva delle idee riguardo al discorso da fare. Sapeva che cosa dire e cosa invece tralasciare (almeno per il momento). In cuor suo sperava persino che John lo seguisse nello studio e che lì si sedesse per ascoltare quel concerto di Mendelssohn, che Sherlock aveva in mente di eseguire già da qualche settimana. Pertanto era entrato in mensa carico di buone speranze, era preparato persino a ricevere un “No” come risposta o a dover fronteggiare le sue espressioni imbarazzate. Ciononostante, Mike Stamford. Proprio lui era arrivato a rovinargli i piani, intercettandolo non molto lontano dalla porta e spingendolo a seguirlo al proprio tavolo. Lì, dove anche il professor Hobbs e la professoressa Taylor sedevano educatamente, chiacchierando di questo o quello. Lui, pomposo idiota e lei, saccente e petulante, si preoccuparono appena di concedergli quell’occhiata di sufficienza carica di superiorità che subito distolsero, facendo quasi finta di non averlo visto. Sherlock li detestava, tutti e due e considerando che a stento lo avevano mai salutato, il sentimento doveva essere reciproco. Anzi, nessuno aveva mai fatto mistero di mal tollerarlo nell’intero ateneo. Non lamentavano la sua presenza in facoltà in qualità d’insegnante, perché l’opinione professionale che il mondo accademico aveva di lui era talmente elevata, che nessuno si sarebbe mai permesso di contraddire la nomea di Sherlock Holmes. Tuttavia si erano lamentati spesso col rettore, al quale invece pareva importare soltanto degli affari segreti e di certi accordi che faceva con Mycroft. In tanti gli davano ancora del raccomandato, ma Sherlock non si era mai sentito un vero e proprio privilegiato. Al contrario sapeva che erano le proprie capacità, oltre al fatto che più del novanta percento dei suoi studenti trovava lavori di prestigio, a tenerlo solidamente ancorato nella propria convinzione d’essere nel giusto. Quelle della professoressa Taylor erano maldicenze, probabilmente scatenate dall’invidia o forse dall’odio. A Sherlock non importava davvero, faceva di tutto per evitare i colleghi. Tra di loro, soltanto Mike Stamford sembrava gradire sinceramente la sua compagnia. Per queste ragioni, quel pomeriggio avrebbe seriamente preferito andarsene e sparire dalle loro viste, e stava per farlo. Davvero. Quando un qualcuno pronunciò le parole che da quel momento in avanti avrebbero sempre avuto il potere di fermare ogni sua ferrea decisione.
«Watson dovrebbe raggiungerci a breve.» E fu così che rimase.

Alla fine non aveva scelto le linguine. La prospettiva di poterne dividere un piatto con John, andò a scontrarsi con la dura realtà dei fatti. Di mangiare gli era completamente passata la voglia e la già scarsa fame che aveva, si era velocemente tramutata in una leggera nausea. Tutto ciò che sapeva con certezza era di voler scappare da lì, non sopportava più quei discorsi idioti e stupidi che la professoressa Taylor intratteneva da almeno un quarto d’ora con Mike. Non gl’importava nemmeno se John stava o no per arrivare, Sherlock voleva soltanto andarsene. E lo avrebbe certamente fatto di lì a pochi istanti, se non che l’oggetto dei suoi più torbidi desideri, lo trattenne dal muoversi. Stava finendo, a fatica, un risotto al tartufo cucinato da Angelo, quando il professor Watson si palesò di fronte al loro tavolo. Un John bello come il sole che teneva un vassoio stretto tra le dita, e aveva un sorriso allegro a dipingergli i tratti del viso. Sherlock non ebbe neanche bisogno di sollevare lo sguardo, gli era bastato il percepire nell’aria il profumo del suo dopobarba perché una prepotente emozione lo investisse. Lui era lì, pensò mentre la frenesia lo coglieva, sconvolgendolo. Ora sì che avrebbe voluto tanto fuggire e nascondersi. Tuttavia rimase e, anzi, sollevò gli occhi su John ritrovandosi però a boccheggiare come un cretino. Aveva una strana sensazione addosso, ma non era il cuore che batteva in maniera forsennata e nemmeno lo stomaco che sfarfallava tanto da far male. No, era come se un abbozzo di discorso gli si stesse formando sulla punta della sua lingua, ma faticasse per uscire. Avrebbe voluto dirgli tante cose, forse troppe. Avrebbe dovuto parlare e voleva farlo, lo voleva davvero. Eppure si ritrovò a tacere, come uno stupido. Che avrebbe dovuto dire? Da un punto di vista delle interazioni sociali, un saluto cordiale era sempre un buon modo per cominciare una conversazione, ma se la sua voce avesse tremato? Se non fosse riuscito a palargli adeguatamente e mascherando sentimenti e imbarazzi? D’altronde non erano soli e Sherlock si sentiva già scombussolato a sufficienza. Lo stomaco gli era come esploso e adesso il suo petto era tutto un agitarsi di batter d’ali. Aveva la testa leggera e intanto una sensazione di straniamento lo aveva colto, ottenebrandogli i sensi. Era John a essere responsabile di quel suo stato d’animo. John che stava a un passo da lui e che ora lo guardava, rivolgendogli un’occhiata alquanto significativa. O almeno così credeva, non poteva dirsi un esperto in relazioni sentimentali. Ciò di cui fu assolutamente sicuro fu che si sentì avvampare e che un gran calore lo colse, colorandogli le guance. Che l’imbarazzo che provava fosse chiaro agli occhi di chi gli stava attorno, non gli era dato saperlo.

«Professori» disse John con un fare di saluto, prima di rivolgere lo sguardo in sua direzione. «Professor Holmes, ma quanta bella gente che vedo seduta a questo tavolo» aveva aggiunto prima di sorridere e sì, Sherlock era certo che l’avesse fatto in special modo a lui. Poteva trattarsi soltanto di un'impressione, anche sbagliata, però gli aveva strizzato l’occhio. Stava forse flirtando con lui? Oppure si prendeva semplicemente gioco del suo imbarazzo? Dio, perché era così impreparato? Ma, soprattutto, in quale maniera avrebbe dovuto comportarsi? Avrebbe voluto rispondere a quella domanda, tuttavia il vuoto lo colse e al punto che faticò persino a controllare se stesso e le proprie azioni. Sapeva di dover restare seduto e possibilmente in silenzio, e possibilmente anche sparire il prima possibile. Purtroppo però sembrava che la ragione lo avesse abbandonato. Al contrario di quanto sarebbe stato saggio fare, Sherlock era balzato in piedi con uno scatto svelto. La sedia aveva strisciato sul pavimento, producendo un rumore fastidioso e di conseguenza le posate erano cadute nel piatto, tintinnando pericolosamente. Si era messo sull’attenti, drizzandosi su se stesso e gonfiando il petto come un cretino. Adesso gli occhi di tutti erano su di lui. Lui che se ne stava immobile, rosso come un pomodoro. Fermo, a balbettare parole sconnesse.
«John» singhiozzò. «John Watson, ehm, professore. Vorrebbe unirsi a noi per il pranzo?»
«Ma come sei formale» lo rimproverò Mike, prendendolo bonariamente in giro prima di addentare una forchettata di carote bollite. Un provvidenziale Stamford, giunto a salvarlo col suo sorriso bonario e le sue parole disinteressate e prive di malizia, che lo avevano tirato fuori da un bell’impiccio. E mentre tutti ridevano di tanta rigidità, Sherlock desiderò di scomparire.
«Comunque ha ragione» aggiunse Mike «Watson, perché non ti siedi? Hai l’aria di uno che ha bisogno di mangiare qualcosa.» Mestamente e a quel punto, Sherlock si risedette. Lo fece evitando lo sguardo incuriosito di John, ancora volto in sua direzione. Lo fece senza più sollevare il proprio, ma fissando il piatto ormai del tutto vuoto. Lo fece con una prepotente vergogna a divorargli il cuore e con l’inadeguatezza dello stare al mondo che gli amareggiava la bocca, facendogli passare del tutto la voglia di mangiare. Adesso sì che voleva fuggire.
«Molto volentieri» annuì John in risposta, prima di occupare l’unico posto rimasto libero. Lì, in quel tavolo un po’ rettangolare con i piedi che si sfioravano e gli sguardi che piuttosto spesso si intrecciavano, mescolandosi a sorrisi appena accennati, si trovarono nuovamente uno di fronte all’altro. John prese posto alla svelta, sfoderando nel contempo quel suo sorriso furbo che regalava un po’ a chiunque. Non era giusto, si ritrovò a pensare a un certo momento. Quel sorriso era soltanto suo, e suo era lo sguardo che ora gli rivolgeva. E non lo diceva perché era geloso, o forse sì? Ah, gli pareva d’impazzire! Sherlock non avrebbe proprio dovuto lasciarsi andare a simili pensieri, se l’era ripetuto tante di quelle volte negli ultimi minuti, eppure sembrava che non dar retta alla ragione fosse la sua nuova cosa preferita. Al contrario di quanto s’era prefissato di fare, sollevò il viso sino a incontrare gli occhi di John e lì vi rimase. Ad annegare in quel blu intenso e che gli faceva mancare il fiato. Completamente perduto tra ricordi e sentimenti. John aveva lo stesso sguardo di quella sera, quando si era fermato sulla soglia e aveva preso a fissarlo. Prima che si baciassero e addirittura prima che ballassero. Adesso non era poi molto diverso e non dissimili erano le emozioni che quel non far nulla era in grado di scatenargli dentro. Sherlock sentiva i suoi occhi addosso, percepiva quel “qualcosa” serpeggiargli sopra la pelle e fargli battere il cuore, così come la tensione caricare l’aria che li separava. Sentiva le guance arrossarsi e la mente svuotarsi d’ogni capacità razionale. Era questo che voleva dire, essere baciati? Innamorarsi e provare dei sentimenti e intanto avere la certezza che l’altra persona ricambiasse? Non avevano ancora parlato di niente e al di là di quel bacio non era successo praticamente null’altro, ma per ora tanto gli bastava. Era sufficiente intrecciare gli occhi con i suoi e scorgere appena quel suo sorriso, per capire che era tutto reale. E vero. Che John Watson lo aveva baciato e che, dai segnali che Sherlock anche ora riusciva a cogliere, anche lui sperava di rifarlo. Fu la conversazione a rubare entrambi da quell’intenso ammirarsi e quando anche l’ultimo sguardo gli fu portato via, tornò a fissare il proprio risotto. Mestamente triste.

«E così ora voi due abitate insieme» suggerì Mike come spunto di conversazione mentre le occhiate attonite della professoressa Taylor e del professor Hobbs si posavano sul professor Watson e, di conseguenza, anche su Sherlock. Vivevano sotto lo stesso tetto da tre settimane ormai, ma nessuno lo sapeva ancora. Non era certamente una notizia da tener segreta, in fondo erano due colleghi che dividevano una casa, ma Mike ne era evidentemente venuto a conoscenza e probabilmente dallo stesso John. Onestamente, non credeva fosse una notizia. Però a giudicare dalle espressioni sconvolte della professoressa Taylor e da quelle arrese di Mr Hobbs, il fatto era davvero degno di nota.
«Sì, è stato Holmes a propormelo e in effetti era la soluzione migliore per me, dato che prima abitavo in un alloggio per studenti. Sherlock vive in una palazzina molto grande. La mansarda che occupo è deliziosa, oltre che spaziosa e poi Mrs Hudson e Mrs MacGill sono due splendide padrone di casa.»
«Mio caro ragazzo» lo redarguì il professor Hobbs, scrollando il capo come se il solo sentire quelle parole fosse stata, per lui, un’enorme delusione «sei certo di quello che stai facendo?»
«Che intende?» balbettò, in risposta. Aveva tentennato appena prima di parlargli, e anche ora era evidente che non capisse dove quella domanda volesse per davvero andare a parare. Meraviglioso, John Watson, si ritrovò a pensare Sherlock accennando a un vago sorriso. Non arrivava neanche a capire che il professor Holmes, oltre che essere celebre, era anche molto detestato.
«Quello che il mio stimato collega sta cercando di dirle, professore, è che la vita con Sherlock Holmes dev’essere un incubo» osservò Mrs Taylor, sbocconcellando con fare indignato dal proprio piatto di pesce. «Intendo che non è un uomo rispettabile, né normale. Pare lecito chiedersi quale tipo di convivente potrebbe mai essere un qualcuno che si porta il violino persino in università, che suona di fronte agli studenti o spara ai muri per noia. Insomma, non oso pensare cosa potrà mai fare tra quelle quattro mura.» Parlava di lui come se non fosse lì presente, quasi non esistesse o la sua vita non avesse alcuna importanza. Non c’era traccia di rispetto in quella donna, solo puro odio e una punta di superiorità.
«Il che è sempre meglio che portarsi a letto uno studente del terzo anno, non è vero, Julia?» ribatté Sherlock, a tono. Questa volta non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa. Spesso gli capitava di voltarsi dall’altra parte e non cogliere le continue provocazioni che i colleghi come la professoressa Taylor lanciavano in sua direzione. Non lo faceva per buon cuore, ma perché aveva fatto una promessa a sua madre, e a Mycroft, che non avrebbe mai più litigato con nessuno e non si sarebbe messo di nuovo nei guai. C’era sempre riuscito, ricacciando indietro l’orgoglio e mandando giù bocconi amari come il fiele. In fin dei conti neanche gl’importava qualcosa. Questa volta però non avrebbe accettato un’altra provocazione in silenzio. Perché adesso c’era John e non soltanto nella sua vita, ma seduto a quel tavolo e per quanto stupido fosse quel pensiero, aveva quasi paura di una sua reazione. Se avesse sentito che cosa quei professori pensavano realmente di lui, anche John si sarebbe convinto che avevano ragione? Poteva anche darsi, perciò desiderava difendersi e parlare fu esattamente ciò che fece. Non tacque e, sollevato il viso con determinazione, ribatté colpo su colpo. Non gli importava più di niente, voleva solo difendere se stesso.
«Che cosa sta insinuando?» mormorò Mrs Taylor, con una punta di orrore in viso.
«Non insinuo nulla, dico solo la verità. Lo sa persino Mike, lui però è troppo buono per farlo notare. Ad ogni modo, dal mio punto di vista ritengo che far ascoltare ai ragazzi della musica sia stimolante per l’intelletto. Bach aiuta la concentrazione, Mozart la creatività. Brahms li calma prima di un’esercitazione o un esame. Lei invece cosa usa per stimolarli, professoressa? Nulla? O vuole farmi credere che lo stato delle sue ginocchia deriva da un’attenta opera di pulizia del pavimento?»
«Sherlock…» mormorò John, con fare fintamente scandalizzato mentre Mike rideva appena, tentando malamente di non farsi scoprire. Mrs Taylor, al contrario, non sembrava affatto divertita. Aveva il viso trasfigurato dalla furia e una rabbia cieca gli divorava lo sguardo.
«Lei, professore» sputò con evidente disprezzo, calcando su quella parola con una punta di veleno «è una sciagura per l’intera Oxford, una disgrazia per tutti quanti noi. Lei dovrebbe sparire.» Sì, Sherlock Holmes era abituato agli insulti. Da sempre. Fin da ragazzo quando, per tutti, era: “Lo strambo” e veniva spintonato per i corridoi. Non era mai stato simpatico ai compagni e non aveva avuto nemmeno un amico. In questo senso si poteva dire che la sua vita scolastica era stata un incubo. Ciononostante, crescendo aveva imparato a farsi rispettare. Oggi nessuno si azzardava mai a ribattere o a dirgli apertamente le cattiverie che pensava. Aveva avuto diverse discussioni col rettore dell’università, il quale però si limitava a un qualche rimprovero o tutt’al più a minacciare di cacciarlo. E aveva sicuramente avuto a che fare con la schiettezza di Mycroft e con quella di sua madre, ma la sua famiglia in questo senso era del tutto innocua. Mrs Taylor era pertanto la prima persona a parlargli a quel modo. Buffo era, che per quanto Sherlock la considerasse un’idiota e nonostante non facesse che ripetersi che non doveva tenere in considerazione le sue parole, ciò che diceva e la cattiveria che mostrava, facevano un male del diavolo. Perché sì, non contava niente la sua opinione, eppure feriva lo stesso. E più lei parlava, meno Sherlock era capace d’ignorarla.
«Lei è un cancro inestirpabile per la nostra beneamata scuola e mi domando quali favori abbia fatto al rettore, per poter essere ancora qui a insegnare. Forse, professor Holmes, è lei ad aver “pulito” i pavimenti. Che cos’ha dato via per poter essere dove sta adesso? No, a lei dovrebbero rinchiuderla. Agli strambi dovrebbe essere proibito il vivere civile.» No, Sherlock non le fece dire nient’altro. Non le permise di aggiungere ulteriori offese a quelle che già gli aveva sputato addosso. Come aveva osato insinuare d’aver fatto favori sessuali al rettore dell’università? Come si permetteva? Certo, sapeva d’essere considerato come la pecora nera dell’ateneo e sapeva anche d’essere odiato, ma rendersene conto e constatarlo con mano era sempre tutta un’altra cosa. Avrebbe potuto ribattere, cielo avrebbe potuto davvero distruggere quella donna con tutte le nefandezze che nascondeva. Però quella parola, quello “strambo” pronunciato con disprezzo faceva riemergere vecchie ferite e ricordi sgradevoli. Col cuore ancora che sanguinava, Sherlock Holmes lasciò la mensa. Non sentì più niente se non l’eco del proprio dolore e il rumore dei passi per il corridoio.



 
*



Suonare aiutava. Ci riusciva sempre. Sherlock sapeva che quel Mendelssohn che gli girava in testa da giorni e che le sue dita tamburellavano in continuazione, seguendo un ritmo che viaggiava unicamente nella sua testa, era quanto gli ci voleva per calmarsi. Tuttavia, una volta che ebbe varcato la soglia del caotico studiolo che occupava, non fu al violino che andò il suo primo ragionare. Anche se il suo amato Stradivari pareva quasi occhieggiarlo, spiandolo dall’alto del suo esser tutto legno e corde, adagiato nel velluto pareva quasi gridargli di farsi suonare. Sembrava parlargli, invogliarlo a reagire. Istigarlo alla musica. E, per quanto muto fosse, riusciva a fargli capire che non era solo. Che loro sarebbero stati sempre insieme e che avrebbero potuto fuggire altrove, viaggiare con la mente e con lei suonare per principi e imperatori, sviolinare per dame e conti. Avrebbe potuto estraniarsi ancora e rintanarsi nel palazzo mentale, questo sì che sarebbe servito. Quel giorno, però, Sherlock decise di non preoccuparsi di Mendelssohn e del suo concerto. Non badò a nulla se non al proprio respiro, e al battito del cuore che pulsava al centro del petto. Nemmeno pensò alla polvere che gli danzava attorno, sapientemente illuminata da quei pallidi raggi solari che filtravano attraverso vetri e tende lasciate non di molto tirate. Non fece nulla, neanche riflettere sulla maniera in cui adesso avrebbe dovuto comportarsi. Che doveva fare? Si chiese. Telefonare a Mycroft? Scrivere una lettera di scuse? Non ne aveva idea e soprattutto non aveva la forza di pensarci. Semplicemente si lasciò andare, permettendo alla tristezza di cullarlo. Avrebbe voluto piangere, ma farlo avrebbe significato il concedere alle parole di Mrs Taylor un’importanza che non meritavano. Quindi restò dov’era, sfinito, appoggiandosi a stento contro la finestra e scacciando con scarna determinazione quelle voci che gli davano dello stupido.

«Idiota» disse in un sussurro che si perse in un respiro frammentato dall’agitazione. Niente pareva aiutarlo, neanche l’aggrappare lo sguardo al grigiore dell’inverno. Non ci riusciva la pace che trasmetteva quel nevischio lieve che s’andava a posare su prati e giardini, che ornava i tetti delle case. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era che, quel gelo dicembrino, gli penetrava le ossa e gli entrava fin dentro all’anima. Il freddo bruciava, ardeva nel suo cuore al pari di una fiamma di ghiaccio e nonostante calore di quella piccola stanza dentro la quale s’era rifugiato. Là nel suo studio dov’era tornato e dove nessuno sarebbe mai venuto a disturbarlo. D’altronde la facoltà di chimica era relativamente scomoda da raggiungere, sebbene nel centro di Oxford, stava in un edificio a sé e per accedere ad alcune aree si dovevano strisciare dei badge di permesso. Non tutti ne avevano l’onore. La professoressa Taylor, insegnante di letteratura francese, non sarebbe mai venuta a cercarlo nella sua aula. Perciò si sentiva protetto, sebbene fosse un pensiero infantile e anche un po’ stupido aveva sempre la sensazione che quelle quattro mura fatte di legno e libri, lo proteggessero in una qualche maniera. Lui soltanto avrebbe avuto l’onore d’essere osservato dalla silente presenza del violino, e di venire ammaliato dalla musica che danzava note e pause dentro a un palazzo mentale mai così calmo. Sherlock Holmes, che aveva addosso un turbamento evidente e in grado di trasfigurargli i tratti del volto. Le labbra erano deformate da un sorriso triste. Gli occhi, perduti nella desolazione dei giardini di Oxford, erano concentrati a guardare il niente. Un nulla che riusciva a placarlo e a rasserenare il suo animo nervoso. Si chiese tante cose in quei frangenti, su tutto come avrebbe dovuto comportarsi con John adesso che tutto era rovinato. Perché lo sapeva, che aveva perso stima di lui e che già doveva essersi pentito di quel bacio scambiato a tarda sera, al 2 di Ship Street. Ma era davvero così? O forse era soltanto la paura a parlare? Mille e più domande presero a vorticagli nella mente, ronzando come api impazzite. Parole che lo tormentavano e poi lasciavano. Una confusione che lo attanagliò, almeno sino all’attimo in cui lo scricchiolio del legno e il successivo rumore della porta che s’apriva, non lo riportarono alla realtà. Sapeva di chi si trattava, ne aveva riconosciuto il passo vagamente marziale e il profumo di dopobarba. Non aveva bisogno di sollevare il viso o di voltarsi, per sapere che John Watson era in piedi sulla porta. Lo stesso uomo che aveva separato la distanza che li divideva, attraversando la stanza, ma che da un istante all’altro aveva indugiato. Fermandosi. Bloccandosi dove stava, con le braccia già a mezz’aria. Indeciso sull’abbracciarlo o meno. John che si torturava le labbra in un mordersi feroce e che lo guardava intensamente. Sherlock non aveva avuto neanche bisogno di girarsi e fronteggiarlo, già sapeva che cos’era venuto a dirgli. Sperava solo che facesse in fretta e che tutto quanto finisse il più presto possibile, almeno sarebbe potuto tornare alla propria vita.

«Prima che tu dica qualsiasi cosa, c’è un aspetto che mi preme chiarire e tengo a farlo con te per via del bacio che ci siamo scambiati ieri sera» esordì così, con quelle parole pronunciate con sincera decisione nel silenzio dello studiolo dove stava. Niente pareva volerlo interrompere, neanche il frastornante rumore dei fiocchi di neve che colpivano i vetri della finestra. Parlò col cuore che tremava e le dita che non ne volevano sapere di divorarsi a vicenda. Parlò col respiro accelerato di John a riecheggiare nelle orecchie e con quella tensione a caricar l’atmosfera, a divorargli il nodo di lacrime e amore che gli soffocava la gola.
«Sherl…»
«Io sono vergine» sputò fuori tutto in un fiato, ancora senza voltarsi ma restando ancorato con lo sguardo a quel paesaggio invernale. «Non sono andato a letto col rettore per avere questa cattedra, né per mantenere il mio ruolo di professore. Amo questo lavoro, lo amo troppo per commettere atti tanto irrispettosi.» No, John non rispose. Non immediatamente. Al contrario restò fermo dove stava, a far nulla e in silenzio. Pur non guardandolo, a Sherlock pareva quasi di vederlo boccheggiare o indeciso nel cercare le parole adatte. Rimasero in quel modo per pochi istanti, ma tanti furono sufficienti a che il suo cuore si spezzasse. Ecco, adesso se ne sarebbe andato. Se lo sentiva dentro. Perché non gli aveva creduto e perché aveva schifo di lui. Perché era sempre così che finiva sempre, col fango tra i ricci dei capelli e un livido sopra l’occhio.

C’era una cosa che avrebbe dovuto aver già imparato e che i mesi recenti avrebbero dovuto insegnargli, ovvero che lo stimato professor Watson non faceva mai quello che era presumibile facesse. Dal giorno in cui Sherlock lo aveva incontrato, quel soldato aveva scombussolato ogni cosa. Aveva soverchiato le regole comportamentali e sociali e, cosa ben più importante, non una volta aveva reagito in maniera prevedibile. Fu infatti in modo sorprendente in quel primo pomeriggio di dicembre lo vide agire. Proprio mentre Sherlock non faceva che ripetersi che era ormai tutto finito, già certo d’aver perso ogni possibilità, questi azzerò la distanza che li divideva e lo abbracciò in uno slancio appassionato. Sentire le sue braccia addosso, le mani che toccavano. Le dita che si aggrappavano alla stoffa dei vestiti e il suo fiato caldo contro il collo, fu meraviglioso.
«Tu, creatura stupenda. Quei due sono degli idioti.» Lo disse mormorando, parlandogli all’orecchio. Intanto lo stringeva a sé e non accennava a lasciarlo andare, ma al contrario accentuava la stretta con la quale gli aveva afferrato la vita. John che lo abbracciava da dietro e che se l’era tirato contro, affondando il naso nell’incavo del collo e che intanto faceva vagare incoerentemente le mani su di lui. John che gli respirava addosso e che mormorava parole al suo orecchio. John che era caldo e forte, e che lo toccava con i palmi delle mani ben aperti. In quel frangente ogni cosa sparì, persino gli insulti e le allusioni della professoressa Taylor. Sherlock Holmes la cui memoria era spesso una condanna, si ritrovò a dimenticare tutto. Voleva soltanto venir baciato e stretto con sempre più forza, ma nell’infinita timidezza nella quale viveva da tutta la vita, non ebbe il coraggio di farsi avanti.
«Ascoltami» si sentì dire, rompendo il silenzio e sempre a voce bassa, con un tono che poteva apparire come rabbioso. «lo dirò a tutti quello che ti hanno fatto, a tutti e Mike è d’accordo con me. Non sei solo, d’ora in avanti saremo in due. Se tu mi vorrai, io non ti lascerò.»

Fu di nuovo il silenzio a trovarli. Appena dopo che John decise di suggellare quella promessa con un bacio premuto sul collo, concesso appena sotto la nuca. Era un toccare di labbra vagamente possessivo, geloso e che fece sospirare Sherlock di un gemito appena percettibile. Sì, sedare il calore che ora stava percependo allo stomaco e placare il battito frenetico del cuore, era dannatamente complesso. Pareva impossibile che lo pensasse, eppure lo aveva detto chiaramente e senza indugiare. Senza frenarsi dal baciarlo ancora o dallo stringerlo con vigore. John che non lo lasciava andare e che, forse, non lo avrebbe fatto mai più. Poteva sperare? O magari era meglio metterlo sull’avviso, prepararlo a quel che voleva dire stare con lui? Sconvolto dalla paura, decise per la seconda ipotesi. Era più saggio metterlo in guardia.
«Ha ragione» rispose Sherlock, poco più tardi. L’emozione non era scemata, non se n’era andata. Al contrario era rimasta dove ancora stava e lo faceva godere d’una gioia incontenibile. Tuttavia non voleva illudersi, non voleva lasciarsi andare. Non ancora. E non perché non si fidasse, ma perché in fondo credeva che Mrs Taylor avesse ragione. Come si poteva voler stare con un mostro come lui? Com’era possibile che qualcuno lo amasse? Pertanto lo disse, raffazzonando un mormorio vergognoso di porpora.
«Lei ha ragione.» E il tono gelido tremava, le iridi vacillavano. Le mani s’aggrappavano alla stoffa della giacca e tiravano con forza. Quel fare laconico di modi ormai apparenti, scivolava nell’incertezza più nera. «Ha ragione su di me» ripeté, appena prima d’allontanarsi. Per quanto amasse stare tra le sue braccia sentiva di non potersi adeguare del tutto a quella stretta vigorosa. John era un lusso che non doveva abituarsi a concedersi. «Io non sono una persona normale, mai lo sarò e tu più di tutti faresti meglio a capirlo, specie considerando quello che abbiamo fatto ieri sera.»
«Ma io lo so già» tuonò John, e pareva ben deciso. Assolutamente determinato nell’avere ragione. Infatti stringeva le mani a pugno e adesso lo guardava diritto negli occhi, in viso teneva il cipiglio del soldato e nel mentre il sorriso gli si dipingeva di una triste nota di dolcezza. «La prima cosa che ho imparato di te è che sei un insopportabile idiota, e me ne sono reso conto ancora prima di conoscerti. Sei testardo, pigro, saccente e vuoi sempre avere ragione. Pretendi di fare le cose solo come dici tu e non ascolti nessuno, neanche consideri l’esistenza altrui. Sei arrogante e quando ti annoi diventi un’arma di distruzione di massa, e Cristo…» Aveva concluso parlando a voce ben alta, quasi urlando. Tutta la decisione di prima era sfociata in uno sfogo emozionale che c’entrava più con rabbia e frustrazione. «Cristo, se mi piaci! Perché tu mi piaci proprio per questo e perché non ti rendi neanche conto del reale effetto che hai sugli altri. Tu ci fai sentire piccoli, stupidi e così dannatamente imperfetti. Io mi sono sentito inadatto fin dal primo momento che t’ho visto e per quanto stessi pazzamente perdendo la testa per te, non facevo che ripetermi che non avrei mai osato sperare di…»
Successe in quel momento che il razionale Sherlock Holmes smise di pensare e che per la prima volta comprese le parole di sua madre. Quel lasciarsi andare al quale aveva accennato e cui non aveva mai smesso di pensare per un singolo istante, c’entrava col fidarsi ciecamente e con il mettersi nelle mani di un’altra persona. Non lo aveva capito, almeno fino a quel momento. E quando lo comprese il mondo parve illuminarsi di consapevolezza. Pertanto accadde allora, successe che finalmente ebbe il coraggio di credere a John. Di fidarsi di lui e d’abbandonarsi completamente. No, non gli concesse un’altra parola. Non un fiato, non un pensiero. Lo baciò e basta. Afferrando la stoffa della giacca e facendola scivolare a terra, via poiché non più importante. Lo baciò e intanto gli accarezzava il torace, cingeva le sue spalle. E gli divorava le labbra e le loro lingue si cercavano, e rincorrevano, e si trovavano di nuovo. Fu bellissimo. Un bacio era un bacio, credeva. Non c’era niente di eccezionale se non scambi di saliva e mani che toccavano ovunque, era sempre stato convinto che non ci fosse nulla di speciale. Adesso però sapeva che mai aveva avuto così tanto torto a riguardo, mai si era sbagliato tanto sull’importanza di un bacio. E se ne rese conto mentre John lo spingeva contro alla parete, premendolo contro al legno, inciampando maldestramente tra libri e partiture lasciate sul pavimento. Lo capì dopo che riprese a baciarlo, dicendo il suo nome. Invocandolo quasi fosse un Dio.
«Voglio suonare per te» confessò Sherlock, a un certo momento. Lo aveva soffiato fuori tra un sospiro e l’altro, tra gemiti spezzati dopo che la lingua di John era scesa a torturargli il collo. E a divorargli la giugulare e le vene pulsanti della gola. «Voglio suonare solo per te.»
«Sherlock…»
«Voglio farlo a casa nostra» lo interruppe, parlandogli sulle labbra in un mormorio spezzato dall’eccitazione «voglio farlo spogliandomi di tutto, anche dei vestiti. Voglio permetterti di toccare di tutte le mie corde e che tu sappia che mi sei entrato nella testa, che non te ne andrai mai dai miei pensieri.» Aveva le guance arrossate, il fiato corto. L’imbarazzo che cresceva assieme alla consapevolezza di non saper come fare a parlare d’amore. Nell’incertezza smise allora quella confessione, trascinandolo in un altro bacio. L’ennesimo. Forse il primo sinceramente rapito dal sentimento che provavano. E dopo parole, ancora. E ancora baci.
«Suona per me» gli disse John lasciandolo andare, ma sempre sfiorando talvolta un braccio, talvolta una mano. Da quel momento in avanti, solo note riverberarono nel piccolo studio, nascosto tra corridoi e aule, là nella facoltà di chimica di Oxford. Tra loro, sorrisi e Mendelssohn a suggellare ogni promessa. Era soltanto l’inizio, si ritrovò a pensare Sherlock Holmes mentre intonava l’inizio del concerto in mi minore. Era un niente. Un nulla dannatamente meraviglioso.


 
 
Continua



 
Note: Mendelssohn, Concerto per violino in mi minore. Sono stata indecisa fino all’ultimo su cosa scegliere, se questo o il “Concerto per violino e archi in re minore” e alla fine ho optato per quello, tra i due, che ha una parte di violino solista più consistente.

Per quanto riguarda il badge da strisciare per entrare nella facoltà di chimica, me lo sono inventato. Di solito sono precisa su questi dettagli, ma in rete non sono riuscita a trovare nessuna informazione.

L’ultimo avviso che volevo lasciare è che il prossimo capitolo sarà il penultimo. La storia è alle fasi finali, ve ne sarete già resi conto. Ora Sherlock (e di conseguenza anche John) dovrà soltanto cogliere i frutti! Nel frattempo ringrazio tutti coloro che hanno letto sin qui e lasciato una recensione.
Koa
   
 
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