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Autore: _Polx_    31/03/2018    1 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
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“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Arilion, signore” per tre volte fu costretta a chiamarlo prima che Dovah si riscuotesse dai propri pensieri.
“Che vuoi, soldato?”.
Cirleya ostentò ancora una volta dubbio e scetticismo: “che ti è stato fatto, nel covo presso cui ti abbiamo trovato? Non ti hanno lasciato andare: avevi ancora le catene ai polsi, spezzate, questo è vero, ma pur sempre catene. Ilmaril ti ha liberato dal loro peso, ma io sono più che certa che, se avessi posseduto gli strumenti adeguati, il suo aiuto ti sarebbe stato del tutto superfluo. Cosa è accaduto?”.
“Come credi che mi sia guadagnato il titolo di Inquisitore? Pagando profumatamente i miei esaminatori, o offrendo le mie più care virtù a qualche giudice supremo?” la provocò con malizia.
A stento lei nascose il proprio oltraggio.
“Se ora estraessi la tua spada contro di me” proseguì lui “impiegherei un solo istante a farti sanguinare”.
A quelle parole, Cirleya più non osò infastidirlo, né ne avrebbe avuto modo, poiché gli occhi di Dovah si volsero al passo, finalmente visibile oltre la bruma, e non vi era forza o volontà in tutto il Nirn che potesse strapparli da esso. O così credeva, poiché prima ancora d'immergersi nell'ampia cava ghiacciata del Passo di Roccia Fredda, due figure si stagliarono nere nel candore della neve. Procedevano con andatura lesta ma cauta, eppure non s'avvidero di loro.
Allermo ebbe modo d'ordinare ai propri uomini di farsi da parte, celandosi nella macchia, così da non insospettire i viandanti e impedirne la fuga, quando fosse giunto il momento. Tuttavia, Dovah fu sordo alle sue esortazioni e continuò ad ergersi nel mezzo del sentiero. Qualcosa pareva turbarlo e aveva su di lui un tale effetto da pietrificarlo con più gelo delle grida di una fatua madre.
All'ennesima imprecazione di Allermo, cercò d'accampare una scusa tale da giustificare la sua improvvisa avventatezza: “non sono che due giovani donne. Celatevi pure nell'ombra, se lo ritenete appropriato: le interrogherò personalmente. Se dovessi necessitare d'aiuto” continuò con ostentato sarcasmo “non esitate a uscire allo scoperto” dunque avanzò, ma c'era dubbio e apprensione nei suoi gesti.
Le due viandanti si bloccarono di colpo, scorgendolo procedere verso di loro. Lo riconobbero, si guardarono perplesse, persin smarrite, ma in men che non si dica l'ombra di lui le sovrastò.
“Perché siete qui?” la voce di Dovah sibilò a stento tra i denti serrati.
Sapphire e Sofie non seppero come rispondere e il silenzio, così come l'algido stallo che le inibiva, si protrasse troppo a lungo.
Con sospiro esasperato Dovah simulò un'accurata perquisizione: “come mi avete rintracciato?”.
“Sapevo che ti saresti recato all'Accademia per ricavarne informazioni, così è lì che ci siamo dirette. Brelyna era restia a comunicarci i tuoi movimenti, ma credo sia molto in pena per te e infine ha ceduto, indirizzandoci verso Rorikstead” spiegò Sofie con lodevole sintesi “come sei stato promosso a grado d'Inquisitore Thalmor in pochi giorni?” chiese di rimando con una vena ironica che a lui parve terribilmente fuori luogo.
“Fuggendo e fingendo”.
Legò i loro polsi.
“Che fai?” mormorò Sapphire, allarmata.
“Ancora non so, ma spero di escogitare un valido piano entro breve tempo, o della mia copertura resterà ben poco”.
Tuttavia, fece appena in tempo a volgere verso i commilitoni che un sibilo come di serpe affamata fendette l'aria e un dardo andò conficcandosi nell'occhio destro del veterano Thalmor, il quale stramazzò al suolo senza un lamento. Gli altri estrassero le proprie armi, ma una seconda freccia subito penetrò le loro guardie e trapassò la gola della donna.
Allermo e Ilmaril si ritrovarono soli, poiché Dovah aveva costretto Sofie dietro di sé e retrocedeva verso il passo, Sapphire a seguirli con il pugnale pronto nella guaina.
Proprio allora, un uomo uscì allo scoperto e con la foga d'un Troll di montagna si scaraventò contro Allermo, una lama pervasa di fiamme stretta nella sua destra. E sebbene ostentasse la furia di una belva, presto i suoi gesti mostrarono grande abilità e sapienza con la spada.
Quando Ilmaril cercò d'intervenire, per l'aggressore fu sufficiente investirlo con un saldo colpo di tacco in pieno petto ed egli fu scaraventato a terra.
Nessuno degli incantesimi dell'Inquisitore andò a segno, perché quell'uomo, che nulla aveva da invidiare alla stazza dell'Altmer contro cui combatteva, schivava e sviava come uno spettro del ghiaccio e infine la sua spada ebbe la meglio.
Solo quando la lama di fuoco volse contro Ilmaril, Dovah agì d'impulso e abbandonò la cautela per unirsi allo scontro. Non aveva armi con sé e non ebbe il tempo di strappare l'affilata spada di vetro dalla mano ormai inerme di Cirleya, ma in lui vi era un potere impossibile da sottrarre o disarmare. Prese fiato, pronto a liberarlo, ma si fermò interdetto quando il guerriero abbassò la propria arma e intimò al giovane di dimenticare il proprio onore e, per una volta, fuggire di fronte al pericolo.
Dopo un primo istante di disorientamento, Ilmaril ubbidì e corse a perdifiato verso sud.
L'altro sospirò sollevato, rinfoderando l'arma, e solo allora si voltò verso i tre superstiti.
Subito Dovah indietreggiò d'un passo e tornò ad ergersi davanti a Sofie, ponendosi tra lei e lo sconosciuto. Istintivamente, costrinse anche Sapphire al riparo.
“Sono Ebor” si presentò l'imponente guerriero “prego, ragazze, non ringraziatemi. È stato un piacere”.
Nessuno replicò alla sua bonaria provocazione, pure Sofie si sporse cautamente dalla scalpitante figura di suo padre e lo squadrò con circospezione: si sarebbe detto un Nord purosangue nel pieno degli anni, con lineamenti fieri e sguardo acuto, ma la sua carnagione era più olivastra di quanto non fosse comune nei nativi settentrionali e la sua corta chioma era nera come piume di corvo. S'era gettato nello scontro senza indossare un'armatura, bensì sobrie vesti che nulla potevano contro i colpi di spada e ben poco avrebbero potuto contro il freddo, se non fosse stato per l'ampio mantello adagiato sulle sue spalle.
“Proteggi con fin troppa dedizione i tuoi prigionieri, Inquisitore” stavolta fu Dovah a venir pungolato dalle sue parole.
“Con ciò che intendi dire?” provocò a sua volta, cauto.
“Che sei abile a fingerti ciò che non sei, finché è la tua vita ad essere in gioco e non quella di coloro che ami”.
Dovah non si mosse. Non comprendeva come avesse intuito, né riusciva a sondare i suoi intenti, ma non per questo desiderava perdervi il proprio tempo.
“Le liberi o cedi a me l'onore?” insistette il Nord.
Con una smorfia di disapprovazione in volto, Dovah slegò le corde che egli stesso aveva stretto ai loro polsi.
Soddisfatto, Ebor s'allontanò, chinandosi accanto ai cadaveri per frugare senza remore tra i loro averi.
Dimentico persino della sua presenza, Dovah parlò a Sapphire con un livore che di rado rivolgeva ai propri uomini, sebbene le sue parole fossero poco più d'un sibilo: “ti era stato chiesto di vegliare su di lei”.
“È tenace, capo”.
“E con questo?” ringhiò, poiché non vi era attenuante alla disubbidienza di Sapphire e certo lei non poteva sperare di ritorcere il proprio errore contro Sofie.
“Con questo, speravo d'averla persuasa dall'intento di seguirti, ma...”.
“Ma...” la incalzò di nuovo.
“Ma le hai insegnato bene, capo” rispose e la sua voce si faceva più ferma e altera al crescere della rabbia di lui “e io non ne ero al corrente. È fuggita e, quando l'ho rintracciata, aveva ormai percorso un buon tratto. Ho pensato che, se era giunta tanto lontano per conto proprio, allora...”.
“Allora cosa, Sapphire?” inveì “avrebbe potuto combattere al mio fianco? L'avresti condotta da me, dove io meno la desidero in questo momento, così da liberarti dal suo fardello e tornare ai tuoi bagordi alla Caraffa Logora?”.
“Nient'affatto, capo”.
Lui, tuttavia, non sentiva ragione: “già una volta hai rischiato che ti cacciassi dalla Gilda a calci, Sapphire, e per motivi ben più futili di questi. Se è quel che vuoi, allora persevera pure nella tua condotta e otterrai ciò che desideri prima di quanto credi”.
“Capo” incespicò, la colpa e la vergogna a smorzare gran parte del suo orgoglio “permettimi di rimediare. Io e Sofie torneremo a Riften e...”.
“No” s'oppose Dovah fermamente “non è a te che l'affiderò, non più”.
“Capo, giuro che...”.
“Se desideri continuare a chiamarmi tale, taci e torna a casa”.
Sapphire si volse verso Sofie: “la ragazza può essermi testimone: l'ho protetta e ho seguito ogni suo passo”.
“Pure, mi hai deluso e più non avrai a che vedere con lei”.
“Capo, se solo...” ma quando s'avvicinò a Sofie contro la volontà di lui, Dovah attinse al proprio potere e, con un impulso dettato dalla foga del momento molto più che dalla ragione, lo sprigionò contro di lei.
Fus.
Una sferzata ostile e risoluta la fece vacillare, costringendola a retrocedere.
Lo stesso Ebor, mostratosi fino a quel momento indifferente al chiassoso alterco e diligentemente immerso nella propria opera di perquisizione, si bloccò di colpo e li osservò con muta curiosità.
Fu un colpo lieve, innocuo, ma prepotente e spaventoso, poiché terribile pareva la forza del Dovahkiin a coloro che mai l'avevano sperimentata su di sé.
Sapphire ammutolì, impietrita, e lo stesso Dovah parve pentirsi della propria irruenza: “volgi verso casa, Sapphire” ripeté, più pacato ma non meno risoluto “dì ai tuoi compari d'avere pazienza e di attendere il mio ritorno”.
Con labbra tremanti Sapphire annuì, accennando un lieve saluto col capo, e s'incamminò con passo tanto spedito da sparire rapidamente nelle gelide ombre del valico da cui era venuta.
Sofie aveva taciuto per l'intera, penosa lite, né avrebbe osato frapporsi a loro pur trovandone il coraggio, ma il trattamento che suo padre aveva riservato a Sapphire l'aveva molto amareggiata e si sentì in dovere d'intervenire, per chiarire la propria posizione e alleggerire quella di lei: “ti ho seguito perché...”.
“Perché m'infuriassi” la sovrastò lui in un ruggito e la posatezza che pareva aver riacquistato con Sapphire fu spazzata via in un solo istante “dunque, Sofie, ciò che hai ottenuto ti soddisfa?” infierì con aspro sarcasmo.
Lei deglutì contritamente, lo sguardo basso e la fronte corrugata.
“Mi hai insegnato a combattere” azzardò in un mormorio.
“È vero” annuì Dovah “e dimmi: quanti nemici hai affrontato? Quante vite hai spezzato?”.
A tali domande lei s'infervorò: “se manco in esperienza è perché ti mi hai sempre impedito...”.
“Dovresti ringraziarmi!” tuonò e di nuovo Sofie ammutolì.
Conscio della collera che andava ribollendo sempre più indomita e rischiava di annichilire ogni ragione, Dovah prese un profondo respiro e s'impose il silenzio, fosse anche solo per pochi istanti.
“Desideravo aiutarti a ritrovare Cal” fu poco più d'un alito di vento, una voce lieve e contrita che a fatica uscì dalle labbra di Sofie e l'impeto con cui Dovah le rispose, già strappato al fallimentare tentativo di apparire composto e compito, mugghiò come onde in tempesta al suo confronto: “non mi occorre il tuo aiuto. Mi occorre saperti al sicuro. Mi occorre non avere altri pensieri all'infuori di lui. È forse così penoso da comprendere?” poi sospirò seccamente e la sua voce tornò quieta ma ferma “non verrai con me”.
“Dunque che dovrei fare? Tornarmene a casa?”.
“Certo che no” rispose Ebor, insinuandosi improvvisamente nella diatriba. La sua sacca era colma e lui pareva soddisfatto.
“Evidentemente, hai nemici temibile alle calcagna, ma non una sola idea di cosa vogliano da te, Sangue di Drago” continuò “non una sola idea di chi siano, innanzitutto. Per quanto ne sappiamo, la cattura di... Cal, sbaglio forse? Ebbene, la cattura di Cal potrebbe essere un mero artificio, uno stratagemma ordito contro di te, perché tu faccia come essi desiderano. Lascia la ragazza sola e senza protezione a vagare per le lande impervie di questa regione e concederai loro un ulteriore espediente”.
A tali parole seguì un greve silenzio, poiché erano assennate e lui inspiegabilmente lesto nell'intuire le loro tribolazioni, ma non per questo concedeva soluzione al problema.
“Starete a casa mia, per questa notte” concluse Ebor.
“Non ho tempo da perdere” Dovah gli si oppose, ma l'altro non demorse: “non sai dove altro andare”.
“So dove andare: Labyrinthian è la mia meta”.
“Non hai armatura, non hai armi, non hai provviste. Starete a casa mia, per questa notte” ripeté categorico e subito s'incamminò, così da non dar loro modo d'obbiettare.
“La mia dimora si trova a sud di Morthal, in un'ampia radura nella selva” spiegò a quel punto.
“Troverà tutto ciò che gli occorre nella tua baracca?” chiese Sofie, annaspando nella neve nel tentativo di tenere il passo.
“Chi ha mai parlato di baracche? La mia è una tenuta. Gestisco un allevamento di cavalli, creature splendide che acquisto in tutta Skyrim o che addestro per i cavalieri più maldestri e inesperti che non sono in grado di pensarvi in autonomia. La locanda, invece, è a nome di mia moglie. Suppongo tu non abbia un cavallo” commentò poi, rivolto a Dovah.
“Ce l'ho... purtroppo, però, si trova a Rorikstead”.
“Te ne cederò uno dei miei”.
“Perché t'affanni tanto ad aiutarmi?”.
“Qualsiasi cittadino di Skyrim che neghi il proprio aiuto al Sangue di Drago reca un torto alla propria patria. Dopotutto, ti dobbiamo la nostra salvezza, Dovah”.
Quello si fermò: “come sai il mio nome?”.
Anche i piedi di Ebor si piantarono come massi e lui s'azzittì, poi ridacchiò scuotendo il capo in gesto di rimprovero: redarguì tra sé la propria sventatezza, che ancora una volta l'aveva spinto a cadere in fallo. Tuttavia pensò che, compiuto ormai l'errore, non vi fosse più motivo di fingere: “non è così che ti chiami” lo guardò con sorriso difficile da decifrare “nato schiavo, cresciuto servo, fuggito da uomo libero, riforgiato quale guerriero. Tu hai un nome, ma lo disprezzi, per questo ti aggrappi tenacemente a ciò che hai scoperto d'essere. Solo un'anima conosceva la verità, una donna a cui avevi concesso di sapere e che s'azzardava a chiamarti col nome che t'appartiene, ignorando il titolo che il tuo potere ti ha attribuito, solo se non vi erano altri ad udirvi. Mi spiace che tu l'abbia persa”.
Dovah lo scrutava con dubbio rovente: “da chi hai appreso tutto questo?”.
“Da te”.
Ingenuamente, spinto dal disorientamento, Dovah si chiese se in quegli ultimi giorni l'angoscia e la disperazione l'avessero persuaso a perdersi nell'idromele di qualche locanda e se questo avesse forzato la sua mente a dimenticare d'aver interloquito con quel Nord, spifferando nell'ubriacatura quanto di più intimo vi fosse nella sua memoria.
“Non temere, non sei uomo che s'abbandona a simili frivolezze, né ne avresti avuto il tempo” intervenne ancora Ebor “inoltre, il mio corpo mal reagisce all'alcol e non m'è concesso berne in grandi quantità”.
Tale era lo smarrimento di Dovah che a lungo stette immobile, mentre Ebor procedeva imperterrito per la propria strada e in silenzio Sofie lo seguiva, talmente spaesata da essere completamente sottomessa alla piega degli aventi.
Infine lui si riscosse e, forzandosi a un cauto silenzio, recuperò il passo.
 
  
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