Il terrore mi pervardeva
come un’ascia trancia un collo terrorizzato. Tremavo come una foglia. In quell’atmosfera
così lugubre esistevo soltanto io. Io con la mia paura. Speravo almeno che
fosse così. Mi gettai sulla porta urlando e sbattendo le mani
“Shuya! Shuya! Cosa succede?”
Cercai di aprire la porta, pressando sulla maniglia come un tic nervoso. Mentre
le urla mi confondevano i pensieri. Sentii improvvisamente dei passi
avvicinarsi a me.
Il pavimento scricchiolava. Sentivo come se qualcosa mi venisse da sotto le
gambe. Abbassai lo sguardo e vidi una scia di sangue che pian piano mi
raggiungeva, cercando di prendermi.
E ben presto paura e terrore mi ripresero, spingendomi in un vortice di urla.
Alla fine, presa dal
panico, mentre la macchia si estendeva sempre più, presi il
porta ombrelli di fianco alla porta e lo scaraventai sull’uscio con forza, fino
a sfondarlo. Raggiunsi il corridoio oscuro, continuando ad urlare il nome di Shuya,
ma non rispondeva.
Delle
urla mi seguivano “Urumi! Urumi!” ed erano così potenti che sembravano fosse di una donna che
cadeva dritta dal cielo. Violenza sonora. Violenza pura. Il grido si
sovrapponeva ad un pianto acuto che strappava il cuore. L’urlo era tutto
intorno a me, come se mi circondasse e non mi lasciasse scampo.
Intimorita, non persi
comunque l’occasione
di scendere velcocemente le scale, con il terroe che mi prendeva con le
tenaglie della morte le vene della paura.
“Shuya! Shuya” lo chiamavo a voce alta.
L’avrei cercato e una volta trovato saremmo usciti insieme da quella porta, ma
non riuscivo a trovarlo. Ogni stanza in cui entravo Shuya non c’era.
Ritornai all’ingresso di
fronte alle scale, ormai decisa ad uscire. Poteva darsi che Shuya era uscito
dalla paura, spaventato da qualcosa come lo ero io, ma non appena appoggiata la
mano sulla maniglia notai che la porta era chiusa a chiave. Sussultai poi,
sentendo gracchiare gli scalini, come se qualcuno stesse scendendo a prendermi.
Cercai di guardare con la coda dell’occhio quell’ entità,
ma riuscii a voltarmi, vedendo chiaramente Kayako Fukamoto in cima alle scale.
Gridai. Era vestita
proprio come nella fotografia: abito bianco e maglioncino rosa e mi sorrideva.
Scendeva lentamente le
scale, mentre una ferita da sopra la testa cominciava a perdere sangue a
fiotti. Sangue che colava sul suo vestito, per terra, sulle gambe. Il suo volto
cominciò a diventare completamente rosso. La ragazza poi, sempre continuando a
scendere, infilò l’indice sinistro nella ferita, raschiando il cervello a
livello sottoepidermide, facendo scorrere altro sangue che le colava sul bordo
della mano, formando orchidee sanguignee sul gradino di legno.
Ero spaventata. Scattai di colpo e mi rifugiai in cucina, cercando di aprire la
porta sul retro, ma caddi prima ancora di raggiungere la maniglia.
“Urumi!” gridò ancora quella voce che mi attanagliava.
Annaspai e raggiunsi la porta a quattro zampe. Ero così terrorizzata che le
gambe non riuscivano a reggermi. Mi voltai sedendomi.
Kayako era all’ingresso
della cucina, letteralmente coperta di sangue: dalla testa ai piedi.
Era zitta ma il grido
continuava a contorcersi nell’atmosfera.
Cercai di raggiungere la
maniglia con la porta, mentre le mie gambe tremavano e il mio guardo rimanevano
fissi su quella fantasmessa sanguinaria.
“Urumi!Urumi!” solo allora mi accorsi che quel grido veniva dentro da me.
Non ero io ad urlare. Era qualcosa
nel mio corpo a scatenare quell’urlo.
Cominciai ad aver paura di me stessa. All’improvviso uno squarcio tagliò il mio
collo e mi sentii morire. Vedevo in modo sfuocato che il sangue copriva il
pavimento con schizzi lunghi. Sembravo una fontana vivente. Mi sentivo sempre
più fragile, così tanto da non sentirne il dolore.
“Urumi! Urumi! Urumi stai bene?” una
voce lontana mi chiamava con amore. Aprii gli occhi.
Ero in cucina ma non c’erano
né Kayako né il sangue che perdevo. Davanti ai miei occhi c’era solo Shuya, che
mi guardava terrorizzato “Che cosa è successo?”