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Autore: Le VAMP    05/04/2018    3 recensioni
Archie era un cabarettista.
Ciascun riflesso, inciso sulle lame dalla pallida luce che si dichiarava venire dal sole, apparteneva a quei dannati coltelli che si imbrattavano del suo sangue. Ce n’era una che s’era impiantata lì da quando aveva cinque anni che si andava a confondere via via con la sua carne, il cui acciaio si arrugginiva con lo scorrere del tempo.
E pensare che quando quella ragazza si era ferita dinnanzi a lui, convinta che non la capisse, non poté fare a meno di sorriderle amareggiato.
[«Ogni giorno (ogni giorno) ci provo e ci riprovo, ma sembra che tutti vogliano umiliarmi. Dicono che sto impazzendo, che ho il cervello pieno d'acqua, che non ho buon senso, che non mi è rimasto nessuno in cui credere.
Oh qualcuno, oh (qualcuno)
trovatemi qualcuno da amare!»
– Somebody to Love, Queen (1976)]  
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Please, somebody!

 



Archie era un cabarettista. 
Ciascun riflesso, inciso sulle lame dalla pallida luce che si dichiarava venire dal sole, apparteneva a quei dannati coltelli che si imbrattavano del suo sangue. Ce n’era una che s’era impiantata lì da quando aveva cinque anni che si andava a confondere via via con la sua carne, il cui acciaio si arrugginiva con lo scorrere del tempo.

E pensare che quando quella ragazza si era ferita dinnanzi a lui, convinta che non la capisse, non poté fare a meno di sorriderle amareggiato.

____

«Ogni giorno (ogni giorno) ci provo e ci riprovo,
ma sembra che tutti vogliano umiliarmi.
Dicono che sto impazzendo, che ho il cervello pieno d'acqua,
che non ho buon senso, che non mi è rimasto nessuno in cui credere. 

Oh qualcuno, oh (qualcuno) 
trovatemi qualcuno da amare!» 

– Somebody to Love, Queen (1976)  

 

Prelude

Le caviglie gli dolevano: non riuscivano più a sostenere il peso di quella sua fusione con l’acciaio stesso; camminava da giorni cercando il nuovo locale in cui sarebbe dovuto esibirsi. Ah, quale pagliaccio era divenuto per il mondo che l’aveva rifiutato! Gli capitò d’imbattersi, seduta sugli scalini che portavano all’ingresso, nella figlia del proprietario a cui aveva domandato il perché il locale fosse chiuso.
«Sarà qui a breve»
Quant’era mogia! Poiché avrebbe aspettato lì, decise di starsene tranquillo ad attendere e si mise a fischiettare, ma quelle melodie parvero non essere gradite dalla giovane, che s’era rintanata fra le proprie ginocchia. Quanto più il volume delle sue allegre canzoncine aumentava tanto maggiormente le barriere tra i due s’alzava, com’ella stringeva maggiormente a sé le gambe facendo sprofondare lì il suo volto.
La invitò a fare un sorriso.
«E che motivo avrei per farlo?»  
«C’è una meravigliosa giornata di sole oggi!»
Oh, quanti altri ne avrebbe incontrato così in vita sua? Tutti così allegri e spensierati, a parlare del più e del meno come idioti mentre altri fatti accadevano al mondo che venivano ignorati, quelle risate sguaiate che rinfacciavano la loro allegria. Invidiava la loro felicità.
S’alzò tempestiva e si pose di fronte al giovane che non reagì, attendendo il concludersi delle sue azioni; or dunque estrasse la piccola lama che teneva in tasca e la premette sul polso di per sé marchiato d’altri segni e piccole croste di ferite che ancora dovevano chiudersi. Colò il sangue sul gradino, macchiandone la pietra, e lo sguardo di lei si fece fiero e freddo, continuando a premere sul polso:
«Non puoi capire il mio dolore».
Al ché il cabarettista sforzò ancora una volta un sorriso, si chinò appena tenendosi il cappello e si congedò: «Mi dispiace...».
Con la promessa di tornare più in là, o forse un altro giorno, riprese a camminare e tornò sui suoi passi, dando le spalle alla ragazza che lo vide andar via, cercando di saltellare in giro senza sbandare: ognuno dei suoi passi pareva quello di un zoppo; e quello che vide dopo la sconvolse tanto da spalancar gli occhi e dischiudere le labbra: era rimasto poco di quella schiena! Vi erano tre coltelli grossi, due lucenti e uno più arrugginito degli altri; mentre altri chiodi e cocci di vetro costellavano quel povero corpo cui non era rimasto altro che uno spiacevole dolor e sangue vischioso che scorreva giorno dopo giorno. Quanto ne doveva aver sofferto quel poveraccio, e pensare che le parlava della bella giornata!
Accelerò il passo per raggiungerlo, picchiettargli la spalla con un dito e confidare il suo imbarazzo:
«Dispiace anche a me»
Egli sorrise come la prima volta e non aggiunse nulla. Con un rapido saluto eseguito col cappello si dileguò nuovamente. La giovane si domandò, allora, perché dovessero esistere persone del genere, come i suoi genitori. Se tanto soffrivano, perché si ostinavano a fingere col mondo? Come potevano essere aiutati se si negavano agli altri?  
Dunque rimirò i propri polsi. Erano piccoli tagli –autoinflitti–, confrontati a tutti quei coltelli che, la ragazza ne era sicura, qualcuno doveva avergli conficcato alle spalle.
Continuava ad allontanarsi, e ad avvicinarsi erano i dubbi di quella fanciulla che fissava a terra la macchia di sangue.
Fu allora che si decise, fosse stato d’accordo o meno, che gli avrebbe dato una mano, poiché non riusciva a concepire come un essere umano potesse sopportare da solo quel fardello.
Per ogni ferita ch’ella si infliggeva sperava che qualcuno le si avvicinasse per chiederle con affetto sincero come stesse; e invece tutto taceva. Udiva di continuo altre risate da cui si sentiva esclusa, lontane come un eco, grasse e piene di sé, e allora le lacrime si asciugavano per andare a intensificare le gocce di sangue ch’ella espelleva con foga: anche nel loro breve dialogo, da quell’allegro fischiettare, sperava che le chiedesse come mai si stesse rintanando nella sua tristezza, anziché persuaderla a sorridere; non avrebbe mai immaginato che potesse essere come loro. E questi s’allontanava, un passo dopo l’altro, e presto o tardi sarebbe scomparso nel nulla.

Il giovane d'un tratto si sentì più leggero, e qualcosa venne sfilato dalla sua schiena: riuscì dopo tempo a respirare meglio del solito da un tempo di cui non aveva memoria, e nemmeno il tempo gli bastò per voltarsi che udì degli spiacevoli rumori di coltelli perforare carni.

Oh, perché mai doveva farlo? Perché doveva esporsi così tanto se già in futuro, un giorno, sarebbe stata pugnalata come lui? Soltanto guardandola in viso comprese. Era tornata. Teneva due dei coltelli conficcati nelle anche, e da lì a poco avrebbe perso l’equilibrio: barcollava, e col viso contratto da acumi di angoscia –provata per comprenderlo, solo per comprendere il suo dolore– gli chiedeva aiuto.
Riuscì a prenderla prima che cadesse, facendola poggiare a sé, riuscendo a udire così la sua impercettibile voce resa debole dai colpi che si era autoinflitta qualcosa di impercettibile: «Sciocco». Gli aveva dato dello sciocco.
Cominciava a singhiozzare, allora la sostenne mentre lei continuava a inveire su di loro: «Siete degli idioti».
E quest'ultima volta il suo sorriso s'era fatto meno malinconico, mentre ella lo stringeva tra le sue braccia, potendo, per quel pomeriggio, esaurire finalmente le sue lacrime.

______

Can anybody find me somebody to love?

Nessuno si era mai interessato in quel modo alle proprie ferite. Era una battaglia quella che il cabarettista affrontava con il suo fanciullo che stentava a morire, che gli pregava di tornare a sorridere sinceramente poiché quella ragazza si era presa carico dei suoi fardelli; d'altra parte, se prima l’aveva compresa, la diffidenza nei confronti del prossimo che aveva imparato a maturare con gli anni, gli impose dei dubbi su cosa potesse nascondersi dietro quei gesti tanto gentili.
Non avrebbe mai voluto mostrare quelle debolezze.
Il focolare rimaneva acceso quella notte, illuminando lì la ragazza e il suo paziente: si era offerta di disinfettargli le ferite rimaste aperte.
Voleva comprendere una volta per tutte perché, almeno lui, s’ostinasse a nascondere tutta quell’angoscia e reprimerla nel profondo del suo animo, così gli porse la domanda:
«Perché hai deciso fare il cabarettista in queste condizioni?»
Idiota lui, e i suoi genitori che cucivano finte maschere di dolcezza davanti ai loro figliuoli per gettarle via quando credevano di non essere ascoltati.
Cosa poteva spingere delle persone a fingere?
«Ridere era tutto ciò che mi rimaneva»
«Oh...»
Dunque era questa la verità? Una sola risata contro il mondo?  
Come sentiva infierire in sé quei coltelli che si era andata a conficcare; facevano male, eppure tramite quelli conosceva qualcosa di concreto su quel bizzarro giovane: l'uno era la perdita del lavoro e la vita da disoccupato che non riusciva più a sostenere, ed i grumi di sangue che ne derivavano erano maleodoranti; l'altro era più arrugginito e le parlava del problema riguardo suo padre, che l'aveva abbandonato quando era ancora bambino: era cresciuto senza di lui.
La ragazza provava un dolore che probabilmente non sarebbe mai riuscita a sopportare da sola, ma per lei era prezioso per comprendere a fondo quello sventurato. Non se ne sarebbe più privata.
Erano gli unici che fosse riuscita ad estrarre, ma cosa sarebbe stato di quelli rimanenti? Continuava a ripulire il flusso rossastro proveniente da quelle ferite ancora fresche e ben più profonde.
«Io credo che ci sia un'altra soluzione per evadere da quei dispiaceri, almeno per un po'»
«Oltre all'umorismo? Sono tutto orecchi» le rispose, allor, sollevando perplesso le spalle mentre si voltava nella sua direzione; reazione a cui la giovane presente a sorridere ed annuire convinta.
«Domani vedrai»
L'indomani si erano ritrovati in un garage, c'erano degli strumenti.
L'aveva inviato a prendere posto, pronta ad afferrare la chitarra elettrica già collegata all'amplificatore, nera e lucida, con quei due angoli spigolosi che quasi si mostravano affilati quanto le lame che squarciavano le carni dei due ragazzi.
Un unico accordo bastò a far tremare le mura ed i timpani di chi ascoltava, col suo unico grido che accompagnò quel lamento metallico.
Quando ogni corda smise di vibrare, dunque, quel giovane riuscì a far emergere la sua voce nel silenzio:
«Io...in genere preferisco il pianoforte»
Ciò che lo distingueva continuava ad essere il malinconico sorriso con cui parlava agli altri, e quello stesso sorriso aveva invitato le sottili dita della ragazza a pizzicare le corde, facendole vibrar ad ali d'insetto componendo una veloce melodia che si accompagnava con i veloci spostamenti della mano sinistra sul manico.
La velocità aumentava, il volume poco alla volta, e quello rappresentava il vero virtuosismo di chi stava a vantare con orgoglio il proprio io:
«Credo che tu inciampa nella presunzione abbastanza spesso»
«Ah sì?»
«O non sentiresti il bisogno di rivaleggiare in virtuosismi col pianoforte» e allora si permise di sbeffeggiarla un po', abbozzando una lieve risata che stette a contornare quella scala interminabile di note che la musicista continuava a generare: «Lo preferisco perché ha dei suoni dolci e non spacca i timpani!».
Dunque ella sorrise a sua volta beffarda e smise d'improvviso di suonare.
«Perché non provi?» e da quello sguardo imbarazzato che le rivolse la giovane comprese
«Sai, non è come credi. Io che sono un muso lungo e non riesco a ridere così spesso questo è il mio unico modo per esprimermi» con ciò gli si avvicinò, ponendogli tra le braccia il possente strumento ch'egli a stento riusciva a tenere sulle gambe
«Non fa bene tenere sempre tutto dentro, anche perché così gli altri non potrebbero capirti, e ti ritroveresti da solo. A volte per sentirsi meglio fa bene anche mandare tutto a quel paese...»
E quando ebbe la nera chitarra impugnata, il ragazzo imitò l'accordo udito in precedenza, mentre le parole di lei si stavano riducendo a fragili sussurri
«Liberati da tutto quello che ti porti alle spalle, ti rimarrò accanto»
Il cabarettista percepì ad un tratto la schiena meno dolente: a terra vide caduti due chiodi insanguinati, che risuonarono per un istante sul pavimento.
Avevano un aspetto terrificante.
Così, per mezzo di quattro note che conosceva, le raccontò la storia di un vecchio amico di sua conoscenza.
Costui era stato un amico d'infanzia, che negli ultimi anni aveva vissuto con lui quando ancora poteva mantenersi dignitosamente dicendo che se fosse accaduto il contrario avrebbe ricambiato; ma furono menzogne. Come si lamentava, quel tipo! Diceva di continuo che non avrebbe mai potuto comprendere la sua situazione, e a ciò il ragazzo non poteva far altro che scusarsi in continuazione: "Mi dispiace, davvero!"
Quello aveva avuto una volta l'occasione per ricambiare il favore, poiché aveva trovato il modo di farsi raccomandare e far parte del nuovo personale dell'agenzia contrariamente a quelli che stavano venendo licenziati, eppure quando il ragazzo bussò alla sua porta questa gli venne richiusa in faccia con tanto di maligne risate alle spalle.
Per colpa di quella disillusione ci volle molto tempo, trascorso per le strade, prima che riuscisse a trovare quel cravattino vivace con cui cominciare la sua nuova vita.
Allora sì: impose violentemente il suo grido come mai pensava sarebbe accaduto poiché la ferita aveva ripreso a bruciare, e per colpa di quello la ragazza si vide costretta a privargli della chitarra e poggiarla ai margini della panca su cui erano seduti. Ma quando egli si mise le mani tra i capelli disegnando sulle labbra un altro tipo di urlo, muto e invisibile, la chitarrista gli afferrò allora quelle mani e si assicurò che le loro dita si intrecciassero al fine di imitare più rapidamente il calore di quelle fiamme del focolare che l'altra sera li accudiva.
E fu in quell'istante che il bruciore si arrestò, e con esso il ricordo del dolore che si era portato dietro, dimenticando perfino che aveva ripreso a sanguinare.
Quelle mani! Quelle piccole mani che pizzicavano le corde fu ben felice di poterle porre come sostegno per la sua fronte, e stringerle ancor più forte.
Allora, sollevando di poco lo sguardo ebbe modo di notare i segni ai polsi che la ragazza s'era fatta. Prima di riemergere e porsi nuovamente sotto il giudizio dei suoi occhi andò egli stesso a sfiorarli, per capire quanto fossero profonde quelle cicatrici. Dopo un solo tocco riuscì a comprendere che quelle ferite, in fondo, non erano volute.
Quando tornò a donarsi alla realtà circostante, ignorando quel lieve rossore formato sulle guance della giovane che distoglieva il suo sguardo verso terra, ebbe quei polsi sotto il proprio controllo, continuando a esaminarli.
«A te com'è successo?»
Anche quella ragazza, da quando l'aveva conosciuto, aveva imparato il suo stesso linguaggio: quel triste sorriso capeggiò anche sulle sue labbra.
«Perché sono un'idiota»
I suoi genitori stavano divorziando.
Quando credevano di essere soli in casa spesso mettevano alla prova le loro gole di continuo. Se capitava di trovare un piatto rotto nel salotto lei ed il fratello minore dovevano assicurarsi di ripulire gli ultimi cocci, ma quello non era il vero problema.
Per la loro figliola era terribilmente irritante sentirsi presa in giro quando, in loro presenza, i due fingevano di andare d'accordo, ingannandoli di continuo che il giorno successivo sarebbe passato tutto.
"Non illuderti troppo, tanto finiranno in un tribunale": era questo che diceva sempre a suo fratello. Eppure, a pensarci in quel momento, si lasciò catturare ancora una volta dalla malinconia: guardando quel triste cabarettista fisso negli occhi ci vedeva la tristezza che i suoi genitori provavano nel vedere la collera della loro figliuola.
«Secondo te perché lo fanno?» le aveva chiesto.
Come aveva fatto a non comprendere il loro sforzo per mostrarle che l'amore nei confronti dei loro piccini non sarebbe cambiato?
Quei falsi sorrisi li cucivano con tanto dolore per ogni punto sulle labbra, pur di ovattare le loro orecchie dei loro figli dalle urla notturne.
Fu allora che il ragazzo la vide crescere in un batter d'occhio e divenir gioiosa nel sapere che l’avrebbe accompagnata, l’indomani, dai suoi genitori per potersi scusare con loro.

Così venne nuovamente la sera, e i due compagni erano ancora lì a lasciarsi scaldar dal fuoco.
Quando la giovane terminò di medicargli le ferite, come fu la prima volta, anche per quell'occasione egli le donò un sorriso sincero:
«Non ti ho mai ringraziata per avermi fatto scoprire la soluzione più efficace per affrontare il dolore» e mentre diceva ciò andò a sfiorare uno dei due coltelli che prima lo trafiggevano e ora erano conficcati nella sua anca rimasta scoperta, vulnerabile.
La mano della compagna tuttavia si sovrappose alla sua: la vide scuotere il capo.
Volle almeno offrirle la spalla su cui poter riposare, e fu accorto che quel coltello, mentre gli stava vicino, non la ferisse maggiormente.

 

__________

L’immagine l’ho vista come foto profilo di Lauretta; il che nel vedere tutta quell’angoscia mi sono detta: “ci vuole un po’ di tenerezza”, e la storiella è nata così.
Tuttavia nella seconda parte ci si è iniziati a interrogare su chi potessero essere questi due bizzarri personaggi, quali potessero essere le loro vite, ed il risultato è questo. 
Un elemento in particolare che potreste notare è che si parla completamente tramite metafore e giochi con l'immagine principale: anche il momento della cura delle ferite è un riferimento simbolico a quando si passa del tempo con una persona capace di cucire le cicatrici del passato, così come lo stesso gesto di sfilare i due coltelli per conficcarseli a propria volta, inteso come decisione di condividere anche le esperienze dolorose della persona a cui si vuole stare accanto. 

La canzone, Somebody To Love degli inimitabili Queen è una delle più conosciute; per le voci femminili è consigliato l’ascolto dell’interpretazione di Brittany Murphy (dal film d’animazione "Happy Feet") e in particolar modo di Kol HaMishpaha, con la trasmissione di tutta la disperazione che contorna il lyrics del brano.

   
 
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