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Autore: Mari Lace    07/04/2018    6 recensioni
[Seconda classificata al contest "Una canzone, una storia II edizione" indetto da eleCorti sul forum di EFP]
Provo a raccontarvi un pezzo di vita di Susan, dopo "Il principe Caspian", sul punto di smarrirsi. Prima di dimenticare.
Dal testo:
Non che ci fosse qualcosa di particolarmente sbagliato in Arthur, Susan aveva avuto spasimanti ben peggiori – primo fra tutti Rabadash, un principe di Calormen che aveva tentato di sposarla con la forza –, ma… era così noioso.
Parlava sempre e solo di rugby, feste, ragazze che aveva frequentato in passato… quest’ultimo argomento, in realtà, usciva raramente quand’era con Susan, ma dal canto suo la ragazza l’avrebbe quasi preferito all'ennesimo racconto delle sue brillanti vittorie sportive.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altro Personaggio, Caspian, Susan Pevensie
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Pacchetto: “All I want for Christmas is you”; Prompt: Regalo

Fandom scelto: Le Cronache di Narnia
Note dell’autore: Ovviamente l’idea di una relazione tra Susan e Caspian l’ho presa dai film, ma qui seguo gli eventi dei libri: Susan non l’ha baciato prima di attraversare il portale e i due non si sono quasi parlati – l’unico accenno ad una loro conversazione è nell’ultimo capitolo, con Caspian che cerca di riconsegnarle il corno mentre lei lo persuade a tenerlo. Detto questo, buona lettura!


All I want for Christmas is…



A Londra quel pomeriggio pioveva; non che fosse insolito, tanto più in una giornata di dicembre.

Era il 20, per l’esattezza, e Susan Pevensie iniziava a rimpiangere d’aver accettato l’invito di Arthur Mace, uno dei ragazzi più carini del suo istituto, ad accompagnarlo ad acquistare dei regali per i suoi familiari.

Non che ci fosse qualcosa di particolarmente sbagliato in Arthur, Susan aveva avuto spasimanti ben peggiori – primo fra tutti Rabadash, un principe di Calormen che aveva tentato di sposarla con la forza –, ma… era così noioso.

Parlava sempre e solo di rugby, feste, ragazze che aveva frequentato in passato… quest’ultimo argomento, in realtà, usciva raramente quand’era con Susan, ma dal canto suo la ragazza l’avrebbe quasi preferito all’ennesimo racconto delle sue brillanti vittorie sportive.

L’esperienza vissuta a Narnia l’aveva cambiata; lì, anni prima, Susan aveva vissuto un’altra vita, era diventata adulta. Tornata nel suo mondo e alla sua età reale, i ricordi dell’altra sé stessa si erano fatti fumosi, difficilmente riusciva a richiamarli con assoluta chiarezza. Ma erano comunque presenti.

La consapevolezza d’aver vissuto quell’altra vita le dava una strana sensazione. In presenza di chiunque, con l’unica eccezione dei suoi fratelli, si sentiva alienata, fuori posto.

Non riusciva ad integrarsi con i suoi coetanei, ammesso di poterli definire così.

Avrebbe voluto parlar loro di Aslan, di quanto amasse esplorare luoghi sconosciuti e, perché no, della sua passione per il tiro con l’arco. Non poteva: temeva che non la capissero e la deridessero, e non osava confessare la sua bravura in uno sport così poco appropriato per una giovane donna.

I suoi compagni non pensavano che a vestirsi eleganti e partecipare a feste che Susan non riusciva a non paragonare ai balli che aveva atteso a Cair Paravel, nel suo bellissimo castello, a Narnia. Come Regina.

Pensava che crescendo i suoi compagni sarebbero maturati, che con il tempo si sarebbe integrata; non era stato così, anzi, ora che avevano sedici anni le sue amiche – chiamiamole così – parevano avere un unico scopo: l’alcool che alcuni ragazzi introducevano di nascosto alle loro feste.

Lei non riusciva proprio a capirlo, le altre dal canto loro non capivano lei.

L’unico modo per incontrare la loro approvazione era civettare con i ragazzi, apparentemente.

Forse proprio per questo aveva accettato l’invito di Arthur, per farsi accettare. Sono una sciocca, pensò.

«…Susan?»

La voce a metà tra l’irritato e il preoccupato del giovane Mace – doveva averla già chiamata un paio di volte – la riportò alla realtà. L’amara e piovosa realtà in cui passeggiavano sotto un ombrello su uno dei tanti viali commerciali della capitale britannica.

«Sì?» rispose, cercando di suonare naturale.

«Mi stai seguendo? Ti dicevo di quando…»

«Di quando la tua meta miracolosa ha portato alla vittoria la squadra della scuola contro ogni previsione, sì. Lo so» completò lei senza entusiasmo.

Susan comprendeva bene la passione per un’attività sportiva, ma nei racconti di Arthur non ne trovava traccia. Per lui sembravano contare solo i risultati, i suoi motivi di vanto; lei prediligeva lo svolgersi dell’attività, l’intrico di emozioni che provava nel tendere la corda, prendere la mira e scoccare.

In quei pochi attimi si sentiva eccitata, tranquilla, sicura di sé.

Provava tutto ciò a prescindere dal risultato. Se poi questo era positivo – ed i suoi erano quasi sempre ottimi – al piacere si aggiungeva la soddisfazione, ma questo veniva dopo.

Praticare uno sport senza trarre piacere dal suo svolgersi era qualcosa che Susan non riusciva a concepire.

Arthur si portò una mano – quella non impegnata a reggere l'ombrello sotto cui procedevano entrambi – dietro alla testa, imbarazzato.

«Mi eri sembrata assente», mormorò.

La maggiore delle Pevensie considerò tra sé che quando si ascolta lo stesso aneddoto per la trentesima volta essere assenti è legittimo, ma non disse nulla.

Arthur sospirò e abbassò il braccio.

«Vedi, Susan, parli così poco…» iniziò incerto. «Sì, insomma, una ragazza non dovrebbe parlare troppo, ma…» tossicchiò, in difficoltà. La verità era che il silenzio quasi perenne della ragazza lo metteva in soggezione.

Le ragazze che aveva frequentato prima di lei erano solite riempirlo di complimenti, mentre sua sorella minore Alice – unico altro esemplare femminile sotto i vent’anni con cui Arthur interagisse – parlava anche troppo.

Per questo non sapeva mai cosa aspettarsi da Susan, il suo atteggiamento così insolito lo spiazzava.

Allo stesso tempo, però, lo attirava.

Non poteva certo esporle così le sue debolezze, però; era un gentiluomo.

Decise di cambiare argomento, regalandole comunque una verità.

«Sei bellissima, Susan».

L’aveva sentito anche troppe volte, era piuttosto chiaro che il suo aspetto fisico fosse l’unica cosa che i ragazzi notavano in lei – ma qualcosa nel tono di Arthur l’intenerì.

«Ti ringrazio», disse.

Fino a quel momento aveva osservato le vetrine solo distrattamente, ma ora qualcosa attirò la sua attenzione. Si fermò di colpo.

Arthur, preso in contropiede, cercò di capire cosa l’avesse colpita così tanto, ma quello che vide non fece che confonderlo ulteriormente.

Nella vetrina davanti a loro erano esposte spade e antichi stemmi; dall’angolo in alto a destra pendeva un corno da guerra. Non esattamente gli interessi che avrebbe attribuito ad una compagna di classe, neanche a quella sorpresa continua che era la Pevensie.

La mente di Susan, intanto, volava indietro.

Quel corno le aveva ricordato il suo – ovviamente non lo era, però.

Il suo l’aveva lasciato a Narnia, al ragazzo che li aveva richiamati, al nuovo Re.

A Caspian.

Avvertì una stretta al petto.

Era… nostalgia, quella? Non poteva essere. Aveva conosciuto appena quel ragazzo, anche se sì, l’aveva incuriosita. Come lei e i suoi fratelli discendeva da Adamo, ma diversamente da loro era nato a Narnia.

Era grazie a lui se era potuta tornare in quel magico mondo, l’unico in cui si sentisse realmente felice, una seconda volta.

Inoltre, aveva ammirato il suo coraggio. Era un vero Re, degno del suo trono.

Si trovò a pensare che avrebbe voluto avere l’occasione di conoscerlo meglio – ma era un pensiero stupido, se ne rendeva conto. Per quel che ne sapeva lei, il giovane dei suoi ricordi a quel punto poteva essersi sposato. Poteva perfino – considerò tristemente – essere morto.

Scosse la testa per scacciare quel pensiero.

Finalmente notò lo sguardo confuso del suo accompagnatore. Chissà cos’aveva pensato, vedendola imbambolata di fronte alla vetrina di un antiquario militare.

«I miei fratelli amano le spade», improvvisò. «Non che siano un regalo appropriato. Proseguiamo pure».

La vetrina successiva esibiva accessori per donne; Susan poté muovere due passi prima di avvertire sul braccio la presa di Arthur, ripresosi dalla sorpresa. Le indicò il nuovo negozio.

«Entriamo qui, va bene?»

Immaginando che volesse prendere qualcosa per sua sorella Alice, Susan annuì. Magari anche lei avrebbe trovato qualcosa per Lucy.

Una volta dentro si allontanò dal ragazzo. Si mise a curiosare fra gli scialli.

La malinconia scatenatale dal corno non l’aveva lasciata; il desiderio sopito di tornare a Narnia e poter sostenere una conversazione completa con Re Caspian almeno una volta tornò a farsi sentire.

Quegli assurdi pensieri erano provocati dal suo senso di straniamento rispetto alla realtà che la circondava, decise. Questo, però, non la aiutava minimamente a scacciarli.

Un tocco leggero sulla sua spalla la fece sussultare. Si voltò di scatto.

Forse un po’ troppo, perché Arthur – era stato lui, nel tentativo di attirare la sua attenzione – indietreggiò.

Si ricompose. Forse voleva un parere sul regalo per la sorella?

Probabilmente in quel negozio il ragazzo si trovava un po’ fuori posto. Anche se l’aveva proposto lui.

«Posso aiutarti in qualche modo?» gli domandò gentilmente.

«Sì», rispose Arthur. Le rivolse un bel sorriso. «È quasi Natale», cominciò. Un po’ alla larga.

«Lo so», affermò lei, un po’ stupita. «Non è per questo che siamo qui?»

«Sì, appunto. Posso chiederti una cosa, Susan?»

La Pevensie lo fissò inquisitoria, ma annuì. Non riusciva a capire dove volesse arrivare – magari era solo un modo un po’ più formale per chiederle il favore? Poi sono io, quella strana, si concesse di pensare.

«Cosa vorresti come regalo?»

Susan si immobilizzò e sbatté gli occhi un paio di volte. Aveva davvero detto quello che pensava? Aveva sentito bene?

Perché mai avrebbe dovuto farle un regalo? Insomma, si conoscevano appena. Fino alla settimana prima non avevano mai scambiato nemmeno un saluto.

Ma non era questo il suo unico pensiero…

Che bel sorriso, aveva pensato anche, galeotta la parte più irrazionale del suo cervello.

La stessa che continuava a riempirle la testa con il ricordo di Caspian.

Ecco, appunto… Caspian. Anche lui le aveva rivolto un bellissimo sorriso, subito prima che lei varcasse la porta preparata da Aslan per riportarla a casa. Era diverso da quello di Arthur, però; era più caldo.

Caspian… Inconsciamente, l’immagine del giovane Re si sovrappose a quella del ragazzo davanti a lei.

Caspian, tutto ciò che voglio per Natale… sei tu.

Arrossì di botto, rendendosi conto di ciò che aveva appena pensato.

La situazione le stava decisamente sfuggendo di mano.

«Susan? Tutto bene?» stava dicendo Arthur. «Ci terrei davvero a farti un regalo…»

«Non è necessario», disse Susan, appellandosi a tutta la sua forza di volontà per non farsi tremare la voce.

L’assurda risposta che aveva pensato continuava ad echeggiarle nella mente, sembrava quasi il ritornello di una canzone popolare.

Osservò Arthur accigliata. L’aveva presa di sorpresa con quella domanda… e comunque, se anche gli avesse detto cosa voleva lui non avrebbe potuto accontentarla. Sospirò.

Lui la prese per un braccio e la trascinò verso uno scaffale.

«Che ne dici di questo nastro? Ti starebbe bene», propose. «Credo».

Era un nastro piuttosto semplice, di quelli per acconciare i capelli, in semplice stoffa blu.

Susan pensò di rifiutare, ma era proprio tenuta a farlo?

Il ragazzo sembrava deciso a farle un regalo, e alla fine che importanza aveva?

Quello che voleva non poteva averlo comunque, a quel punto…

D’altra parte, pensò con una punta di vanità, non ha torto, mi starebbe bene.

Mentre Arthur lo faceva impacchettare, Susan scelse un altro nastro, rosso, per portarlo a Lucy.

Già si immaginava le scenate di gelosia della sorellina, se lei fosse stata l’unica con un nuovo accessorio.

Poco dopo uscirono dal negozio, scoprendo che anche il cielo aveva deciso di far loro un regalo: aveva smesso di piovere.

«Grazie», mormorò Susan prima di salire sul treno che l’avrebbe riportata a casa.

Arthur aveva aspettato con lei in banchina.

«È stato un piacere», rispose lui. Avrebbe sperato in qualcosa di più, ma la ragazza dopo un ultimo cenno di saluto era salita in carrozza e già non era più visibile.

Ragazza strana, la Pevensie, pensò tra sé mentre tornava a casa. Durante tutto il tratto fino alla stazione era sembrata stranamente allegra – forse per il suo regalo? E dire che aveva cercato di rifiutarlo! – e quasi più assente di prima – ammesso che fosse possibile –, aveva avuto l’impressione che stesse canticchiando qualcosa fra sé e sé.

A un certo punto aveva persino mormorato una frase di cui non aveva capito nulla, se non forse l’ultima parola; “tu”.

Quando l’aveva interrogata al proposito, però, lei aveva glissato. “Ripensavo a un sogno che ho fatto”, gli aveva detto.

Qualunque fosse il suo segreto, Arthur ora era anche più interessato di prima.

Le chiederò di accompagnarmi alla prossima festa, decise. Le ragazze amavano le feste, no?

  
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