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Autore: MarcoMarchetta    07/04/2018    0 recensioni
Narrativa fra storia e racconto.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MATILDE  
(1081)                              
 
"Cosa mi consigliate, padre?"
"Mia signora" rispose Anselmo da Lucca, "come prete non potrò mai suggerirvi di prender partito contro Nostro Signore Gesù. Gregorio è il papa nostro e la sua parola è quella di Cristo.
Se siete convinta di questo non potrete che appoggiare il pontefice contro lo scomunicato Enrico."
"Non è così semplice. Vi voglio parlare in confessione." Non appena si sentì benedetta e protetta dal sacramento, Matilde mormorò fra i denti:
"Io sono stata di Enrico, padre, quando venne qui per farsi togliere quella prima scomunica.
Per quello che successe allora dentro queste mura posso fare solo il mea culpa, avendo complottato contro papa Gregorio che ospitavo amichevolmente. Dio mi perdoni."
Lei, così piccola e minuta, fra le braccia di quel giovane tanto ardito e insolente, alto, biondo e così bello.
"Tilde" sfotteva il deposto imperatore più nel suo natìo teutonico che in latino, "il vecchiaccio imbalsamato crede che davvero stia sotto le intemperie a impetrare la sua clemenza?"
Era davvero buffo: Enrico, il quarto di Franconia con quel nome, era alloggiato comodamente all'interno del castello da quando era giunto a Canossa e Gregorio VII, ospite anch'egli, non se n'era mai accorto.
Il papa, tronfio del suo potere temporale, faceva il duro a concedere il colloquio conciliativo osservando dagli spalti una figura infreddolita lasciata all'esterno in penitenza. Non avrebbe mai saputo che, intabarrato nel mantello regale, c'era un fidato famiglio della contessa; se ne stava  ben lontano dalle vedute del
castello per non essere altro che una sagoma indistinta.
"Imperatore mio" argomentava lei godendo di ogni gesto e di ogni respiro del suo amato, "il papa comanda e io devo fare almeno il gesto d'obbedienza. Tu hai potuto constatare quanto la sua maledizione possa alienarci l'appoggio dei sudditi ed è opportuno conservare il loro favore.
Salvaguardato ciò, per quanto possa ritenersi Dio in terra, non può pretendere di arrivare nelle mie terre da amico e mèttervisi a spadroneggiare da sovrano. Sono sempre io che decido!"
 
Rievocando col confessore quei momenti di quattro anni prima Matilde continuò:
"Ero così innamorata che gli proposi di liberarsi della moglie per poterci sposare. Insieme, unite le nostre forze e le nostre sostanze, papa Gregorio avrebbe abbassato la cresta. Questo prospettai a Enrico.
Io, vedova di Goffredo di Lorena che avevo sempre detestato e che, fortunatamente, si era tenuto sempre lontano da Canossa, mi vedevo già imperatrice. Enrico, deposto, senza un vassallo che lo appoggiasse, ottenne il mio letto e me oltre la mia indispensabile intercessione per ottenere la revoca della scomunica. In più, grazie al mio favore, non si era mai dovuto veramente umiliare.
Vedete, padre Anselmo, che vi sono dei precedenti a complicare i miei rapporti attuali con l'imperatore.
È tornato qui in forze ben deciso a chiedere soddisfazione di quell'affronto. Ha l'esercito attendato a valle e sta a me che il suo passaggio per Canossa non si trasformi in un assedio ai miei danni.
Se gli nego ogni aiuto sembrerà a entrambi che voglia vendicarmi di lui che, allora, non prese sul serio la mia proposta: aveva avuto la possibilità di liberarsi della sua Euprassia.
Voi  l'avete vista, padre; non sarei stata io una più degna imperatrice?"   
Anselmo, secondo la scolastica in auge, era proprio un santo: non pensava che agli interessi della Chiesa.
Matilde avrebbe preferito uno spregiudicato consigliere politico, o un amico esperto in quegli imponderabili moti dell'animo, piuttosto che un pio religioso.
Per quello qualunque cosa la signora gli stesse dicendo, qualsiasi sfogo esplicasse a cuore aperto o checchè bassezza il suo orecchio peloso raccogliesse non aveva alcun peso e non cambiava la sua visione d'insieme. L'unica cosa importante e insondabile era la volontà del papa, la sola legge cui attenersi, l'unica da rispettare e seguire; non importava se per farlo sarebbe stato necessario esercitare soprusi, lasciare cadaveri sul cammino, calpestare sentimenti e commettere, così, molti peccati.    
Per la contessa di Canossa quel personaggio piovutole in casa per gli incerti dell'esistenza non era di alcun conforto nè utilità. Però Matilde questo non glielo avrebbe mai fatto capire in quanto, pur capace di comandare uccisioni e maltrattamenti a carico di chiunque altro, era condizionata per forma mentis a mostrare condiscendenza e rispetto verso un uomo di Dio.
Di lì a poco Enrico fu introdotto nel salone con alcuni suoi fidi e Matilde, affiancata da scherani, lo volle attendere assisa sul tronetto.
Lui era nuovamente scomunicato ma, questa volta, di seguaci incuranti dell'anatema ne aveva, eccome.
"Signora" vociò, brusco" voglio ricordarvi che esistono i doveri feudali e che non sono ritornato a Canossa per effettuare altre attese o penitenze."    
Matilde chiese di appartarsi per discutere in privato. L'imperatore consentì all'abboccamento in un angolo del salone facendo segno ai suoi di ritirarsi in quello opposto.
"Enrico..." e lei avrebbe desiderato tanto che l'antico amante ricordasse le dolcezze passate senza ulteriori incoraggiamenti.
"Matilde" abbreviò l'altro come se pochi anni prima, lui ventisettenne e lei trentunenne, si fossero scambiati solo convenevoli, "io devo soffocare definitivamente quel gufo malefico di Gregorio.
È presto detto: necessito di truppe e vettovaglie.
Questi territori appartengono all'impero e tu mi sei vassalla. O mi obbedisci o ti privo del feudo!"   
"Mio signore" replicò lei fieramente, "sono ben cosciente che, se avete portato in Italia tutte le forze di Germania, è per servirvene contro un vecchio e contro una donna." Poi ricordando le parole del confessore: "Non prenderò mai partito contro il nostro amato pontefice! Lui è come se fosse Gesù in persona."
Ora che si era espressa avrebbe atteso la rabbia di Enrico e ne avrebbe subìto tutto il peso.
Ma la ragione del suo rifiuto non era quella.
Certamente non odiava il papa pur non venerandone la persona come la superstizione del tempo rendeva consueto: fra quegli ed Enrico non c'era dubbio da quale parte la bilancia della donna avrebbe penzolato.
Il signore di Germania avrebbe dovuto fare appello ad altre ragioni che non quelle degli obblighi feudali.
Ma gli uomini non capiscono mai niente.
 
Marco Marchetta
 
 
I   BRITANNI  
(43)                      
 
Minussic nel riordinare l'alloggiamento di campo di Aulo Plauzio trovava sempre l'occasione per srotolare, leggere e aggiornarsi rapidamente sul contenuto del libro che a ogni luna piena il comandante inviava all'imperatore Claudio.
Chi faceva caso a una schiava da niente? come per definizione era 'selvaggia, ignorante e buona solo per poche cose elementari, come tutti i Britanni' Che leggesse bene il latino chi lo immaginava fra i Romani?
Da eccellente spia, la volta successiva che il suo amante e referente, Caractobelle, le segnalò la sua presenza, con la scusa di doversi scaricar le viscere Minussic lo raggiunse nel bosco. Prima di farci l'amore, come al solito, gli relazionò con dovizia di particolari.
Con un giorno di cavalcata Caractobelle potè raggiungere e riferire tutto a Glochis, capo del gruppo di Catuvellàuni che si trovava a fronteggiare gli invasori.
Quando l'intera assemblea dei capi famiglia venne messa al corrente il druido si alzò a parlare:
"Ma davvero? I Romani sono convinti che siamo rozzi e ignoranti come mille anni fa.
Sicuramente anche questo duce batterà il tamburo a sua gloria scrivendo i suoi commentari, un 'De Bello Britannico'. Ho letto quello di Giulio Cesare e anche lui aveva girato la frittata a suo tornaconto. Per lui i Belgi, che in gran parte si sono riversati qui, erano i più feroci e incivili fra i Celti e temeva noi Britanni anche per questo.
Quanti di noi hanno sangue belga nelle vene? E sappiamo che il caro Giulio aveva preso un grosso abbaglio; però ci temeva più di quanto facesse con i popoli di Gallia. Fu questo che lo fece desistere dal darci addosso in forze quando tentò l'invasione della nostra isola.  
Compagni, la nostra salvezza o, almeno, la possibilità di raggiungere con questi schiavizzatori una sopportabile convivenza è nel farci temere il più possibile.
Cesare ci invase due volte inutilmente perchè non riuscì a stabilire un contatto per darci battaglia. Questa volta credo che scappare non servirà a molto.
Dimmi, Glochis, fra tutti i villaggi di Catuvellàuni quanti carri da guerra possiamo mettere assieme? Falli arrivare tutti qui. Dobbiamo far sì che Plauzio si convinca sul serio che ogni guerriero catuvellàuno e britanno in genere combatta sul suo carro con un  drappello di ausiliari.
Poi ci dobbiamo denudare e dipingere dappertutto, e impariamo a urlare fino a perdere la voce.
No, compagni, non ridete: pensate che è necessario per le vite nostre e dei nostri cari.
I Romani sono tanti, con tanti mezzi e, contrariamente a noi, avvezzi alle battaglie e al sangue. Dobbiamo combattere più con il senno che con la spada questa guerra che non possiamo vincere."
"Druido, quelli son convinti che tutti tagliamo teste e ce ne adorniamo, come avranno visto fare a qualche celta depravato. Tutti i Celti devono essere così? A me queste cose danno raccapriccio."
"Tutti noi siamo delle persone civili, amici. Ma pure i teschi serviranno per suscitare paura e rispetto in questi barbari.
Passate la voce che si conservino le teste dei morti, che possano capire e perdonarci. Prendiamone dalle tombe. Quante più sono, meglio è."
"Avete capito, gente" concluse Glochis, "cosa ci consiglia il druido nostro? dobbiamo imparare a diventare peggio dei Romani!  
E ha ragione. Sì, amici, non pensiamo al ribrezzo e facciamolo."
 
"Vedi, Ostorio, se non avevo ragione?" dedusse Plauzio col suo luogotenente. "Qui i carri sono centoquattro, anche più dell'altro villaggio di Catuvellàuni. E quando avremo superato questa popolazione poi ci sono i Siluri, i Briganzii e tanti altri, fino ai Goidels del nord con il pelo di un rosso impressionante.
Sono tutti ferocissimi, come vedi, assetati del nostro sangue.
Temo che ci stiano dando il passo per richiudersi in forze soverchianti attorno a noi. Capito, Ostorio?
Con loro dobbiamo cercare di stabilire una difficile convivenza basata sul reciproco rispetto, raggiungere un accordo, in attesa che acquisiscano il nostro modus vivendi sennò di qui non se ne esce."
"Non con la testa sulle spalle, almeno" concordò Ostorio.
In vista dell'esercito romano che sfilava con mille precauzioni, rumoreggiavano con urla agghiaccianti e disumane i terribili Britanni sui loro carri (con poche variazioni sempre gli stessi), quasi nudi come bestie villose (tremanti per il freddo anche se questo i dominatori del mondo non lo supponevano) e ostentavano su tutto il corpo impressionanti decorticazioni.
Quello che più faceva accapponare la pelle ai raffinati figli del Tevere erano quei teschi in evidenza sulle picche e in cima alle capanne vuote.
Ne deducevano che difficilmente quei bruti si sarebbero civilizzati.
 
Marco Marchetta
 
 
LA  FINE             
(1821)                
 
“Monthelon…” soffiò Napoleone dalla sua alcova.
“Sì, mio Imperatore” gli rispose il suo medico personale Antonmarchi, unico presente.
Tutti si erano trattenuti fin dal mattino di quel tempestoso 5 maggio al capezzale del loro mito per vederlo spirare. Ma le ore passavano e l’agonia si protraeva.
Col tempo inclemente, che toglieva la voglia di respirare dell’aria fresca all’aperto, si cominciò pian piano a disertare il luogo.
“Scrivete … vi prego.”
Il medico fece cenno di assecondarlo e stette a sentire fra rantoli e sussurri quei ricordi mai dettati. Le sue memorie erano già state scritte un po’ da tutti a turno, dagli ufficiali ai servitori.
Quella larva umana lì distesa aveva scosso e terrorizzato l’intera Europa e continuava a legarsi alla vita con altri labili ricordi come se l’umanità fosse ansiosa di conoscerli tutti, e fin nei minimi dettagli.
Ci volle molto ad Antonmarchi e a quelli che tornavano a riprendere la veglia funebre per ascoltare e capire quegli episodi.
Napoleone aveva nove anni e alla scuola militare di Brienne aveva notato del vetro nella brocca accanto al letto. Lo fece presente ai compagni e questi risero tanto che accorsero i superiori. Il vetro era ghiaccio e lui nella sua Corsica non ne aveva visto mai.
Prima di esalare l’ultimo respiro il morente cercò di raccontare dell’altro che, pienamente cosciente, non avrebbe mai confessato a nessuno.
Nel rapporto positivo a fine corso i relatori prospettavano per il cadetto ‘Monsieur de Bonaparte’ una eccellente carriera marinaresca. Nel ricordare questo nei suoi ultimi momenti Napoleone riuscì perfino a ridacchiare.
Infatti avrebbe voluto concludere che di mare non aveva mai capito nulla. Nell’ottocentoquattro insistè col vice-ammiraglio Magon perché le navi pronte all’invasione dell’Inghilterra sfilassero nonostante il mare grosso. Circa la metà della flotta andò a picco. E questo, per sua fortuna, la morte gli aveva consentito rimanesse nel dimenticatoio.
 
Marco Marchetta
 
 
BIANCA  MARIA  VISCONTI  
(1466)                 
 
La duchessa è sempre più preoccupata nel rileggere le sue memorie e si arrovella.
 
Devo distruggere tutti i miei scritti.
Mio figlio, Galeazzo Maria, è troppo impulsivo e irrazionale e quando verrà a prendere possesso di Milano non so che sorte potrebbe riservarmi. Offrirgli un appiglio può essere la fine per me.
Tutti gli Sforza, da Muzio Attèndolo, sono bestie, compreso il mio amato Francesco appena morto. Tutti violenti e irragionevoli.
Però qui dentro ci sono i miei ricordi, la mia vita.
“Io, Bianca Maria de’ Visconti, signora di Milano per legittimo matrimonio con Francesco Sforza, gli ho dato figli a sufficienza per lo stabilimento di una dinastia…”
Bell’inizio che a Galeazzo Maria non dovrebbe dispiacere. Aspettiamo prima di buttare tutto nel camino.
Ah, qui ho scritto della mamma.
“Mia madre, Agnese del Maino, mi disse tutto sulla mia origine: Filippo Maria, ultimo dei Visconti, signori del ducato, non era affatto mio padre.”
In effetti solo gli ingenui potevano crederlo: quel maialone non mi somigliava affatto ed era notoria la sua propensione per i maschi giovani.
Questo, una volta letto, addio duchessa, erede dei Visconti. Ecco, al fuoco e leggiamo appresso.
“Mamma mi disse che lui aveva finito per gradirne la presenza nel suo letto solo perché era bellina e tenerella anche a vent’anni, efebica come i suoi ragazzetti e perché la riteneva altrettanto capace di stuzzicarlo con le mani e con la bocca.
Giacendo al suo fianco gli faceva credere che anche con lei, supportato dall’ebbrezza, si comportava da vero stallone.
Qualche sgherro che doveva vigilarla per il padrone finiva fra le sue gambe prima o poi. Così fu concepita mia sorella Lucia, morta da tempo.”
Potrei mai far sapere queste cose a Galeazzo Maria? Via, al camino.
Dove sta, a tal proposito, quell’altra possibilità? Dove l’avrò scritta? Cerchiamo un po’… Ah, ecco.    
“Agnese, mia madre, era orgogliosissima delle sue proprietà e me le mostrava per giustificare la sua disinvoltura amatoria. Filippo Maria aveva tutti i vizi umani ma con lei era stato generoso.
Sicuramente alle due mogli ufficiali, Beatrice di Tenda e Maria di Savoia non era riuscito neanche ad accostarsi e, ritenendo di avercela fatta con mia madre in quei momenti di incoscienza, aveva ritenuto giusto compensarla per avergli dato l'unica sua figlia sopravvissuta, me.
Avevo quindici anni e Francesco Sforza continuava a far pressione su mio padre per avermi in moglie: voleva porre un'ipoteca sul ducato in quanto era chiaro per tutti che per la dinastia viscontea non vi sarebbero stati discendenti maschi.
Fu allora che mamma mi prospettò la possibilità che il mio vero padre fosse lo stesso Sforza che mi stava chiedendo.
Aveva ventitre anni il mio Francesco quando mia madre mi ha concepita. In quel periodo il duca aveva bisogno dell'armata di Muzio Attèndolo, detto 'Sforza', passata al figlio Francesco, dopo la sua morte, unitamente all'appellativo. Quel giovane capitano di ventura era già famoso per aver conquistato Napoli.
Ambasciatrice e fiduciaria del Visconti presso di lui chi era? Agnese del Maino con le più intuibili conseguenze.
La mamma mi chiese esplicitamente se volevo correre il rischio di sposare mio padre. Avrei dovuto essere proprio folle per rifiutare un partito simile, signore di quasi tutte le Marche, l'unico che poteva rendermi duchessa di Milano da insignificante figlia illegittima di chissà chi.
Le risposi che anche lo Sforza era consapevole delle sue frequentazioni intime nel tempo in cui venivo concepita. Se non si preoccupava lui di sposare sua figlia chi ero io per prendermene pensiero?” ’.
 
Bianca Maria si arrende alla fine: cose simili non vanno neanche pensate, figuriamoci messe per iscritto. Un tale contenuto che pervenisse al figlio, il nuovo duca, e la sua vita non sarebbe valsa più di una foglia al vento.
Quanto resta del memoriale va ad alimentare le fiamme del camino.
 
Marco Marchetta
 
(Grazie a chi apprezza. Pubblicherò le mie storie settimanalmente. Vi do
appuntamento, quindi, a sabato prossimo, 14 aprile con altre storie)
   
 
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