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Autore: Yumeji    08/04/2018    0 recensioni
Alternative Universe ambientato in una Londra di fine 800 (per quanto vi siano citati eventi, personaggi e luoghi realmente esistiti, vista la natura asiatica dei personaggi e per alcuni anacronismi, non è da considerarsi storica), quali ruoli ricoprono i nostri beniamini in un ambiente tanto diverso, eppure non troppo dissimile, dal loro abituale?
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- Un cadavere? - aveva domandato Dazai nel socchiudere la porta, in modo da poter scrutare i due dall'interno ed accertarsi se fossero davvero chi affermavano di essere. Si era quindi trovato di fronte due giovani poliziotti dai volti imbarazzati, scossi all'apparenza da un forte disagio e probabilmente indecisi sul da farsi, essendo stati abbandonati lì fuori, ad attendere sulla corta scalinata che precedeva l'ingresso agli appartamenti, da una buona decina di minuti.
- Un cadavere - confermò uno dei due, ricomponendosi e prendendo un'espressione grave nell'incrociare lo sguardo di Dazai, - Ci hanno mandati a chiamarla - aggiunse avvicinandosi alla soglia, probabilmente per cercare di aprirla ed entrare. Non doveva essere piacevole rimanere fuori al freddo, sopratutto se si doveva rimanere fermi per un lungo periodo.
- Devo vestirmi, datemi un momento - non aveva potuto non accarezzare il proprio sadismo Dazai, congedandosi chiudendogli la porta in faccia.
Genere: Dark, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Ryuunosuke Akutagawa, Un po' tutti
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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Faceva freddo.

Il suo corpo tremava e il fiato gli condensava a contatto con l'aria, lui però, le braccia strette forte al petto nel tentativo di scaldarsi, non riusciva a vederlo. Non vedeva nulla di quello che lo circondava, per quanto sapesse dove fosse.
"C'è troppo buio... Perché è così buio?" Si domandava la sua mente infantile in un singulto di quella che pareva paura, per quanto non ne fosse certo. In realtà era conscio del motivo dietro a tutta quell'oscurità, ma preferiva ignorarlo, stringendo i denti e prendendo a mordersi l'interno guancia. Avvertì presto il sapore del sangue pungergli la lingua ma ignorò anche quello, tirando rumorosamente su il moccio che rischiava di colargli dal naso.
Non era spaventato. Lui non era mai spaventato. Le punizioni che quel uomo gli impartiva duravano solo poche ore, quindi presto sarebbe venuto a tirarlo fuori. Doveva solo pazientare un altro po', di sicuro sarebbe arrivato da un momento all'altro. Probabilmente quel pomeriggio si era ubriacato ed ora era svenuto da qualche parte, disteso sopra una pozzanghera del suo vomito. Si diceva il piccolo, i tremiti di freddo a fargli battere i denti, scuotendo le sue fragili ossa, senza lasciarlo un istante. Ora stava smaltendo la sbornia, ma si sarebbe svegliato in tempo per venire a prenderlo. Non poteva lasciarlo rinchiuso lì dentro, giusto? Quel uomo doveva arrivare. Ecco, ecco! C'era stato un rumore, di sicuro era lui. Ora avrebbe sentito il rumore del martello e... No.
Un nodo alla gola fece sfuggire un gemito di sofferenza dalle labbra del bimbo, il quale avvertì i propri occhi inumidirsi, ma senza che le lacrime gli bagnassero le guance. Non ne era capace.
Il rumore si era allontanato, non si trattava di quel uomo. "Tra qualche minuto... qualche minuto ancora e arriva" si ripeteva, un senso di vuoto a colmargli il petto, presto riempito dal freddo portato dalla neve che, all'esterno, aveva preso a calare abbassando ulteriormente la temperatura. I vestiti da cui il bambino era coperto erano solo dei cenci logori, non bastavano a proteggerlo dal gelo che sentiva penetrargli sotto pelle. Uno straccio lurido gli faceva da sciarpa, ma a poco serviva, il sangue pareva stargli gelando nelle vene, le giunture gli dolevano, pietrificandosi rendendogli difficile qualsiasi movimento. Nel buio il bambino non poteva far a meno di essere colto da macabre fantasie, e si trovò ad immaginare le proprio ossa spaccarsi, deformate dal ghiaccio, spuntargli dalla pelle a lacerargli la carne dall'interno. Era consapevole di non poter trascorrere la notte rinchiuso lì, il legno sottile della sua piccola prigione non lo difendeva dalle intemperie, sarebbe morto assiderato molto prima dell'alba.
Un eccesso di tosse colse il bimbo, scuotendolo con improvvisa violenza, le mani a correre veloci alla bocca per soffocare i suoni che rischiavano di uscire. Non doveva far rumore, quel uomo odiava i rumori molesti. Non voleva irritarlo provocandone l'ira o sarebbe stato punito di nuovo.
Il bambino ormai era arrivato al limite, aveva freddo ed era stanco. Non riusciva a sopportare di trascorrere un minuto di più lì dentro. Era così stretto che non aveva neppure un po' di spazio per sedersi, ed era costretto a rimanere in piedi per tutto il tempo nella quasi più totale immobilità ed oscurità. Normalmente, qualche spiraglio di luce riusciva a penetrare dai rari buchi per l'aria, troppo pochi perché fossero sufficienti, fatti sul coperchio. Grazie a questi il bimbo riusciva a misurare il passare del tempo, ma per quanto non volesse ammetterlo, il sole era tramontato da un pezzo e non aveva idea delle ore trascorse. Avvertiva un senso di claustrofobia serrargli le viscere e svuotargli i polmoni, non c'era abbastanza ossigeno. Doveva uscire. Doveva uscire o sarebbe morto in quella bara troppo grande per lui.
Si sentiva male, viscida ed amare la paura risaliva dalle viscere del suo animo, solitamente incapace di provare emozioni. Sarebbe scoppiato a piangere come il bambino che era, se avesse saputo come fare. Le sue corde vocali parevano paralizzate, o forse era il panico ad impedirgli di parlare. La sua voce non usciva, non poteva chiedere aiuto, non poteva chiamare quel uomo e supplicarlo di farlo uscire. Non gli importava più di infastidirlo facendo chiasso, ora temeva che l'uomo si fosse scordato di lui o, peggio, che lo avesse abbandonandolo di proposito.
Sulle rive del Tamigi si trovavano un'infinità di bambini mudlark, per quel uomo sarebbe stato facile sbarazzarsi di lui e raccoglierne un altro a sostituirlo. Con la promessa di un lavoro e di uno stipendio chiunque di quei disperati lo avrebbe seguito, esattamente come il bimbo aveva fatto.
In un impeto di collera mista a paura, il piccolo, privo di voce, cominciò a colpire con forza contro il coperchio della bara, lottando per vincere i chiodi con cui era stato fissato. Presto, le sue piccole mani rovinate e rese insensibile dal freddo, cominciarono a graffiarsi, la pelle a spaccarsi contro la superficie in regno ruvido, piena di schegge. Era inverno inoltrato e le notti avevano già fatto le loro vittime fra i poveri della city, il bambino non voleva diventare solo l'ultimo della lista. Quel uomo lo aveva preso dicendogli che lo avrebbe pagato, gli aveva promesso un impiego con cui avrebbe sfamato lui e sua sorella. Non poteva lasciare che finisse a quel modo, era troppo stupido. Troppo umiliante, e per quanto fosse solo un piccolo mudlark, comunque in lui l'orgoglio bruciava.
Non poteva morire come un cane. Era ingiusto. Perché era stato così stupido? Perché si era lasciato convincere da quel uomo a seguirlo, cosa gli aveva fatto pensare che, una volta visti i suoi traffici illeciti, lo avrebbe lasciato in vita? La sua esistenza non aveva alcun valore e, anzi, come cadavere valeva molto di più. Avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto saperlo, non poteva fidarsi di un adulto.
Senza rendersene conto il piccolo cominciò a guaire, vinto dalla frustrazione e dalla ingiustizia. Perché aveva dovuto sopportare tutte quelle botte e quei soprusi se era quella la sua fine? Non era giusto.
Per la prima volta, nella sua breve e triste vita, il bambino scoppiò in lacrime, trovando infine abbastanza voce da gridare il proprio malcontento al cielo.
Sino a quel punto aveva in parte cercato di non sprecare le proprie energie, consapevole che con le ore quel supplizio si sarebbe fatto sempre più duro, ma non gli importava più. Doveva uscire subito o sarebbe morto, e non poteva morire, non a quel modo. Chi avrebbe badato a sua sorella? Doveva uscire, uscire!
Si ripeteva come in un mantra, avvertendo le proprie braccia appesantirsi dopo ogni pugno, la sonnolenza a coglierlo rallentandone le reazioni. Era stanco. Non ricordava più quale fosse stato il suo ultimo passo e quanto tempo fosse passato da esso. Si sentiva debole, e la palpebre gli calavano prepotenti sugli occhi.
In studiate carezze il sonno lo invitava a calmarsi, a fermarsi e riprendere fiato, l'aria fredda che passava attraverso le sottile fessure nel legno cominciò a rammentargli il suono di una triste ninna-nanna. Vinto da un attimo di stanchezza il bimbo si trovò ad abbandonare le braccia lungo il corpo, senza poi più avere la forza per rialzarle. Prepotenti le palpebre gli cadevano pesanti sugli occhi, ma lui non poteva addormentarsi. Sarebbe morto se lo avesse fatto.
Ma anche a fare tutto quel chiasso, qualcuno sarebbe venuto a salvarlo? Se quel uomo aveva deciso di abbandonarlo non c'era nessun altro che poteva venire a soccorrerlo. Era forse meglio cedere al sonno e lasciare che il freddo facesse il resto?
Non trovando più forza nelle braccia, il bimbo cominciò a prendere il coperchio della bara a testate. Non gli importava se nessuno lo avesse sentito o meno, se ci fosse qualcuno disposto a venirlo ad aiutare o no. Lui non voleva morire. Non voleva morire. Prima o poi quella bara avrebbe ceduto sotto ai suoi colpi, doveva solo usare più forza. Doveva solo insistere. Ce l'avrebbe fatta. Ce l'avrebbe fatta.
Non poteva non farcela.
La fastidiosa sensazione di qualcosa che gli colava sul viso lo colse di sorpresa, mentre l'intontimento da cui era stato colto veniva cancellato da una fitta di dolore alla fronte. Stava sanguinando, doveva essersi tagliato con un scheggia, e ora copioso il sangue gli bagnava il viso. Lo stupore durò un istante e non lo fermò dal continuare a colpire il coperchio della cassa ancora e ancora. Il dolore ora gli martellava in testa simili a tanti campanelli d'allarme, ma per lui era meglio così, più erano assordanti meno rischiava di addormentarsi.
- Appiattisciti sul fondo! - urlò una voce a lui sconosciuta, a cui si trovò di riflesso ad obbedire leggendo l'urgenza di cui era intrisa, e avvertendo subito dopo qualcosa schiantarsi contro il legno della bara. Un forte scricchiolare precedette l'istante in cui la testa di un ascia spuntò poco sopra il capo del bimbo, il quale sussultò dalla sorpresa, irrigidito contro il fondo della cassa.

- Scusa il metodo poco ortodosso, ma sembrava che tu avessi l'urgenza di uscire - gli sorrise un giovane poco più grande di lui, mai incontrato prima, dopo aver fatto a pezzi il coperchio della bara. L'ascia da legna adoperata ora abbandonata con fare distratto a terra. - Comunque, per fortuna che hai iniziato a fare casino, o non sarei mai riuscito a trovarti - aggiunse chiocciando, mostrando al bimbo il suo unico occhio visibile, l'altro coperto da uno spesso strato di bende, così come quella parte del viso. Il piccolo mudlark ricambiò senza reazioni il suo sguardo, conosceva la falsità di cui ne era intriso il sorriso cordiale e ancora meglio riconobbe la morte nella sua iride. I vestiti che l'altro ragazzo indossava parevano di buona fattura e non vedeva traccia di sporcizia sul suo viso. Appoggiata ai loro piedi c'era una lanterna accesa, grazie alla quale il bambino poteva scrutare il proprio salvatore e con cui poté riconoscere l'ambiente esterno. Si trovava dietro l'abitazione di quel uomo, su un piccolo appezzamento di terra, un giardino sul retro dove ammassava le bare che aveva dissotterrato dal cimitero lì affianco, e di cui era il custode.
"I cadaveri che le riempivano hanno trovato un'altra sistemazione, possiamo riutilizzarle per nuovi ospiti" gli aveva una volta spiegato senza che il bimbo gli chiedesse alcunché. La bara dentro cui lo rinchiudeva per punirlo doveva essere appartenuta ad una donna, essendo troppo alta per un bambino ma troppo stretta per un uomo adulto.
- D... dov'è "lui"? - il bambino non aveva mai imparato il nome di quel uomo, non aveva mai avuto la necessità di farlo, era sempre lui a chiamarlo, mai il contrario. E probabilmente neppure l'uomo aveva mai imparato il nome del bimbo, avendolo sempre apostrofato con nomignoli dispregiativi come: "piattola", "scansafatiche", "demente"; ed simili.
- Intendi il beccamorto? - gli domandò il giovane, che altro non era se non un bambino un poco più grande, ma di cui l'unico occhio visibili sembrava tradire una tristezza del tutto atipica per la sua età.
Il bimbo si limitò ad annuire in risposta, accorgendosi in quel momento di star tremando e battendo i denti dal freddo, i piedi nudi immersi in un sottile strato di neve che ancora calava dall'alto su di loro. Il taglio che aveva alla fronte ancora sanguinava, e in un moto di fastidio si trovò a tentare di asciugare il sangue sfregandosi con il dorso della mano la ferita, stupendosi nel trovarsi a riuscire a sollevarla.
- Ahahah... Guarda che così peggiori la situazione - rise al suo gesto l'altro, avvicinandosi e chinandosi sul bimbo, era di circa una decina di centimetri più alto di lui, fermandolo afferrandogli la mano, coperta da ferite e un poco contusa dopo tutti quei colpi che aveva inferto. - Non te l'avrò mica fatto io quel taglio sulla fronte, vero? - gli venne un momento il dubbio mentre ne studiava la ferita, e di nuovo il bambino si limito a scuotere il capo in senso di diniego, evitando di proferire un'altra parola. Un lampo gli aveva attraversato lo sguardo facendogli strabuzzare gli occhi di una meraviglia mal celata. Ora che gli era così vicino ricordava di aver già visto in realtà quel ragazzo.
- Ah! Ti sei ricordato di me, vero Ryunosuke? - lo derise Dazai, additandolo nel notarne subito la reazione di stupore e trovando conferma nel vederlo a portare gli occhi a terra. - Su alza il viso - gli ordinò poi, sempre con quell'aria finta allegra che faceva sembrare il suo viso morto, non troppo dissimile a quello di alcune bambole di ceramica che Ryunosuke una volta aveva visto esposte in una vetrina. Se da una parte riconosceva quell'espressione come quella di un suo simile, di un disperato, dall'altra c'era qualcosa di impalpabile, di inafferrabile sotto la superficie che gli sfuggiva e in qualche modo lo intimoriva.
Senza opporre resistenza Ryunosuke gli obbedì, irrigidendosi di conseguenza nonostante non gli fosse facile farlo visto il tremore continuo che lo scuoteva. Dazai però sembrava ignorare quanto stesse soffrendo il freddo, a differenza sua non pareva avvertirlo affatto. Senza aggiunge altro srotolò le bende che gli cingevano i polsi per avvolgerci la fronte e le mani del più piccolo, il quale rimase confuso dal suo atto di gentilezza. - Per il momento dovrai accontentarti di questo "bendaggio di fortuna" - chiocciò allegro, e Ryunosuke si fece ancor più sospettoso del suo comportamento.
- Non mi hai risposto... - gli ricordò senza rivolgergli alcuna parola di ringraziamento, temeva cosa stesse cercando di nascondere dietro le premure che gli rivolgeva,
- Ah, perché non ti ho detto dov'è il beccamorto? - alzò le spalle Dazai, lasciando perdere il fare accomodante, per rivolgergli quell'espressione indecifrabile che tanto era capace di mettere l'altro in soggezione. - Bhé, se vuoi vederlo è dentro casa...- gli disse indicandogli la porta, si trattava dell'entrata sul retro, essendo l'ingresso principale, non molto più grande di quello in realtà, sul davanti della modesta e malridotta abitazione ad un unico piano. - Però non ti consiglio di incontrarlo, sai potrebbe non piacerti - aggiunse e la sua voce era simile a miele intriso di veleno, colava dolce e appiccicosa nelle orecchie e, prima che ci si potesse impedire di ascoltarla, se ne era già ammaliati. Ryunosuke non riusci a sfuggire al suo tranello, finendo per cedere all'invito nascosto in quell'apparente divieto. A passi decisi ma leggeri, attento a non fare il minimo rumore, entrò nell'abitazione del custode del cimitero, stupendosi di trovarne l'interno buio e freddo come l'esterno, il suo fiato a condensare con l'aria delle povere stanze. Il bimbo ebbe appena il tempo di chiedersi perché l'uomo non avesse acceso il camino del soggiorno, vedendone all'interno i ceppi di legno integri come se fossero stati preparati ma poi si fosse dimenticato di appiccare il fuoco, che si trovò a urtare qualcosa di grosso e pesante che pendeva da una trave del basso soffitto sbilenco.
Era appena andato a sbattere contro il cadavere impiccato del custode.


Un gran numero di persone, dagli aspetti e ceti sociali più disparati, riempiva la sala sino all'eccesso. Un brusio di sottofondo regnava costante, in un mormorio controllato e rispettoso, privo di schiamazzi o risa che avrebbero rotto l'atmosfera greve, spezzando l'aria pesante intrisa di lutto. La stanza era stata adibita a veglia funebre e tra drappi scuri, fiori e candele, il profumo inebriante dell'incenso investiva gli occupanti, ognuno raccolto a pronunciare le proprie preghiere a commemorazione di chi li aveva appena lasciati. Non c'erano preti o sacerdoti a dirigere quel coro sottile di voci, chi presenziava in quella sala possedeva le origini e le religioni più disparate. Solo più tardi si sarebbe tenuta una cerimonia cristiana in cui il corpo del defunto sarebbe stato trasportato al cimitero lì vicino e seppellito. In pochi, solo i familiari e gli amici più stretti, sarebbero rimasti ad assistere. All'apice del dolore la famiglia preferiva raccogliersi in silenzio nel proprio lutto, così da non dover essere costretta a mantenere una facciata di decoro di fronte a quei molti che erano venuto a dire addio al morto.
Una folla simile avrebbe fatto pensare ad un evento di qualche genere, magari ad una di quelle sale musica in cui i vari ceti della società avevano la possibilità di incrociarsi senza la diffidenza con cui solitamente si scrutavano dai lati opposti di una strada. Era difficile credere si trattasse di un semplice funerale. Il defunto doveva essere stato una persona davvero speciale in vita per aver avere tanti compianti alla propria morte. D'altronde capitava spesso che, quelli definiti "amici", scomparissero non appena la funesta sorte arrivava, facendo ben attenzione a non presenziare all'ultimo saluto al compianto. A simili comportamenti Dazai vi aveva potuto assistere svariate volte nella propria vita, come aveva potuto osservare all'esatto opposto. Qualcuno rimasto sempre ai margini della vita del morto che si presentava al funerale così da approfittare del lutto dei familiare per poterne ricavare qualcosa.
A quel specifico funerale però era difficile credere vi fossero approfittatori simili, si trattava pur sempre della famiglia che controllava la maggior parte dei traffici illegali di cui viveva Londra, solo qualche sciocco avrebbe provato a sfidarla in quel momento di estremo sconforto.
"Cosa ci faccio qui?" si domandò Dazai con uno sbuffò stanco, massaggiandosi con una mano la fronte, avvertendola coperta da un leggero strato di sudore causato dal trovarsi schiacciato in quella folla. Non riconosceva la metà dei visi che lo circondavano, per quanto, grazie alle proprie conoscenze, riuscisse ad indovinare l'identità dietro ad ognuna di quelle maschere a lutto.
Non era certo del motivo che lo aveva portato a presenziare a quella cerimonia, lui non conosceva nessuna preghiera, e si sentiva un escluso in mezzo a tutti quei credenti dalle fedi più diverse, ma raccolti nel ricordo di un unico individuo. Vista anche la situazione delicata in cui si trovava, essendosi separato in maniera non del tutto pacifica dalla famiglia, dovevano esserci parecchi individui lì dentro che volevano la sua testa. Avrebbe fatto bene ad andarsene subito, si diceva, o c'era il rischio di un precipitoso aumento dei cadaveri presenti in sala.
A fatica Dazai tornò sui propri passi, trovandosi a spintonare, urtare e ricevendo gomitate nei punti più disparati del proprio corpo. Presentarsi ad un funerale non era proprio da lui, non importava di chi si trattasse, non gli era naturale. Tutto quel silenzio, quella tristezza. Trovava molto più allegro parlare con i corpi che dissezionava nel proprio obitorio. Per quanto pure quei cadaveri non fossero dei grandi oratori, per lo meno avevano la scusa d'essere morti. Vedere tutto quell'ammasso di viventi fare circolo attorno ad una bara aperta per lui non aveva alcun senso. Per quante lacrime o preghiere, quel corpo immobile e freddo sarebbe comunque rimasto immobile e freddo.
Non sarebbe tornato.
Chuuya non si sarebbe più infuriato ai suoi dispetti, non avrebbe più schiamazzato minacce ed improbabili promesse di morte. Chuuya non sarebbe più venuto a riscaldargli il letto quando la solitudine a cui si era costretto fosse stata troppa da sopportare e il silenzio dell'oblio si sarebbe fatto un invito più ammaliante di qualunque droga o bottiglia.
Chuuya era morto. E Dazai che gli era sopravvissuto si trovava costretto a seppellire un altro a-...
- Dazai! - una voce a lui familiare lo raggiunse quando ormai era riuscito a svincolarsi da quel ammasso di individui, per la maggior parte sconosciuti, e un brivido lo percorse lungo la schiena sino alla nuca. Si trattava dell'ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento. D'altronde però cosa gli aveva fatto pensare che sarebbe riuscito ad evitarla?
- Sorellona, da quanto tempo - chiocciò allegro nel voltarsi verso la donna, la quale gli si presentò vestita con un elegante abito nero, per una volta di foggia occidentale, il velo del lutto a coprirle in parte il viso e a nasconderle gli occhi probabilmente arrossati dalle lacrime. Di certo Dazai aveva sbagliato a rivolgersi a lei in maniera tanto superficiale, perché la sua bocca prese da subito una piega amara, colma di stizza e risentimento. Non era il momento di stuzzicarla, troppo forte era il dolore per la perdita del suo protetto.
- Cosa ci fai qui? - lo apostrofò aggressiva, una smorfia a segnargli le labbra come una ferita, i denti stretti in un'espressione sanguigna e feroce.
- Nulla - ammise sincero, - Me ne stavo giusto andando - non batté ciglio nonostante Ozaki sembrasse sul punto di azzannarlo, continuando con il suo fare finto allegro, - Ero passato giusto per un saluto - aggiunse alzando le spalle con aria svogliata.
In risposta la donna lo scrutò per un lungo momento, come a volerne intuire i pensieri, trovando però a scuotere il capo quando non vi riuscì. Prese un lungo respiro, che forse nascondeva un singhiozzo, e scosse un poco le spalle. Cercava di darsi un contegno, per quanto affrontarlo in quel momento non le fosse facile, non voleva dar mostra di sé durante il funerale di Chuuya.
- Solo per un saluto? Non hai neppure intenzione di aspettare che...- cercava di scendere a patti concedendogli di assistere oltre, ma Dazai non glielo lasciò fare.
- Ogni giorno con il mio lavoro vedo così tanti cadaveri che per me assistere ad un funerale è una noia - la interruppe, coprendosi poi la bocca accennando ad uno sbadiglio. - In più per venire qui ho dovuto sottrarmi ad un indagine davvero interessante - sapeva di dover tacere, ma non gli riuscì di frenarsi, la voce che prendeva il tono velenoso e sprezzante.
- Quindi preferirei non perdere altro tempo con questa farsa di pianti e...- in mezzo a quel brusio sottile il rumore di uno schiaffo risuonò potente ed assordante come il rombo di un tuono in una giornata un momento prima serena.
- E' colpa tua se è finita così! - urlò Ozaki, il braccio con la mano ingioiellata ancora teso dopo aver sferrato il colpo con cui aveva fatto voltare il viso all'altro, cui espressione era ora colma di uno sconcertato stupore, lo sguardo spalancato di meraviglia. Doveva aspettarselo, si disse nel trovarsi a sentire infine il dolore bruciante dello schiaffo che rapidamente gli arrossava la guancia.
- Questa "farsa", come la chiami tu, è colpa tua se siamo costretti a farla! - lo accusò con la voce rotta dalla rabbia isterica, - Sei stato tu che hai costretto Chuuya a rientrare in quella storia! Lo sapevi in che condizioni era! Lo sapevi che non avrebbe retto, ma lo hai coinvolto lo stesso!  - gli inveiva contro, ma Dazai non riusciva ad afferrarne le parole, una sorta di intontimento a coglierlo mentre si massaggiava il viso, lo sguardo abbandonato a terra. - Perché sei dovuto venire?! Se non sei capace di provare sentimenti umani perché presentarsi?! - e a quelle domande Dazai non seppe cosa rispondere, non poteva che darle ragione. Lui non provava nulla per la morte di Chuuya. Non sentiva nulla. Il suo animo si era assuefatto alla morte al punto da esserne atrofizzato.
Fu a quel punto che Hirotsu intervenne a sedare gli animi, poiché in molti tra gli ospiti presenti assistevano attoniti alla scena, confusi ed allarmati, e non sarebbe mancato poco perché, chi fra loro conosceva Dazai, cominciasse a scalpitare allarmato dalla presenza di un individuo additato come traditore a quel funerale.
- Credo sia meglio andare a discutere in un luogo appartato - suggerì ad entrambi, il tono calmo e controllato nell'apparire perfettamente composto al fianco di Ozaki dopo essersi fatto strada fra la folla che aveva preso a circondarli. - Non è un bene litigare in simili circostanze - cercò di riappacificarli scrutando con freddezza sia la donna che Dazai, in un muto rimprovero che, nonostante la sua posizione nella famiglia non glielo consentisse, vista la sua anzianità, venne accettata con un senso di mortificazione da entrambi.
- Io me ne stavo andando - ne rifiutò l'invito Dazai, lo sguardo un poco assente mentre la mano sostava ancora sulla guancia lesa, - Ho altri impegni - aggiunse, un leggero fremito a formargli una piccola ruga fra le sopracciglia.
- ... con permesso - si congedò da entrambi chinando il capo a mo' di saluto, voltando loro le spalle prima che Hirotsu potesse aggiungere altro per fermarlo, gettandosi nella folla con la stessa smania di un animale in cerca di una via di fuga.
Non era certo di cosa stesse facendo, trovandosi a farsi spazio a forza in quella moltitudine di persone, gli sembrava di star scappando, aveva la sensazione di star fuggendo da qualcosa, ma non comprendeva neppure lui di cosa si trattasse. Non era per via di Ozaki, doveva aspettarsi da lei una reazione simile, era sconvolta. E non si trattava neppure del rischio di essere scoperto da qualcuno che chiedeva in riscatto la sua testa per i fatti di Jack.
Si sentiva confuso, e il dolore bruciante alla guancia non lo faceva ragionare in maniera lucida, si aggirava perso fra le stradine secondarie del porto. Nonostante si fosse allontanato da un pezzo da quella folla in lutto, si sentiva ancora preda di qualcosa di cui non capiva l'origine.
D'improvviso Dazai si trovò strattonato da qualcuno che lo afferrò per un braccio, costringendolo a fermarsi. E solo a quel punto Osamu si rese conto di aver corso per tutto il tempo senza neppure accorgersene. Il fiato corto e il battito accelerato a smuovergli il petto, un dolore al fianco che tradiva un eccessivo sforzo e uno strato di sudore ad attaccargli i capelli alla fronte.
- A-kutagawa?..- riconobbe non senza un certo stupore l'individuo che lo aveva appena fermato, un tremito nella voce a causa della bocca secca, arsa dalla sete, e dal fiato corto.
- Ho voluto...- un eccesso di tosse colse di sprovvista il corvino che veloce si coprì la bocca con una mano, ritrovandosi piegato in avanti. Soffriva di un leggero problema ai polmoni, il quale, pur non provocandogli fastidi nella vita di tutti i giorni, lo pregiudicava un poco quando si trattava di resistenza, poteva correre, ma era meglio se evitava di farlo per lunghi tratti. - Ho voluto aspettarla. Pensavo potesse accaderle qualcosa - riuscì infine a riprendere abbastanza fiato per parlare, trovandosi a lasciare la presa sul braccio del altro, al quale era rimasto ancora attaccato. - Quando l'ho vista scappare, d'istinto l'ho seguita. Credevo fuggisse da qualcuno, ma ho controllato, non c'erano altri oltre a me. Lei però non ha accennato a fermarsi - gli spiegò brevemente, un ultimo lungo sospiro con cui infine riuscì a ricomporsi, recuperando l'espressione impassibile che lo distingueva.
- Sta bene? - osò chiedergli affrontandone in maniera diretta lo sguardo, e di riflesso un moto di stizza attraversò Dazai, il quale sentiva il volto bruciare, il segno dello schiaffo lasciatogli da Ozaki a pulsare in maniera dolorosa. Sapeva di aver un aspetto orribile, il volto tumefatto e il sudore a bagnargli la pelle, impiastricciando i capelli. Doveva sembrare sconvolto al punto che anche l'altro era in grado di capirlo. Non poteva sopportarlo.
- Non ti ho chiesto di aspettarmi - commentò in tono acido e freddo, lo sguardo ad assottigliarsi con fare velenoso,
- Ho pensato che..- fu sul punto di giustificarsi Akutagawa, trovandosi però ad ammutolire, lo sguardo a spalancarsi confuso mentre una fitta allo stomaco lo portava piegarsi in due dal dolore e a cadere carponi sull'acciottolato lurido di quella stretta via deserta.
- Non mi interessa - sentenziò Dazai, l'espressione rabbiosa che il corvino non gli vedeva in volto da molto tempo, da quando aveva smesso di addestrarlo colpendolo sino al punto di farlo rantolare a terra, proprio come era appena accaduto. - A quanto pare ti ho trattato troppo bene ultimamente, Ryunosuke - si chinò su di lui piegando le ginocchia, afferrandogli i capelli sulla nuca e prendendo a tirare per costringerlo a sollevare la testa, - Ti stai prendendo troppe libertà -
- Si è fatto colpire di proposito? - gli domandò il corvino, l'espressione dolorante mentre si teneva ancora con le mani lo stomaco, non lo aveva previsto quel calcio, ma non era nulla rispetto al passato. - La sua guancia - specificò notando lo sguardo confuso che attraversò il suo mentore.
- Vattene - lo ammonì Dazai, alzandosi lasciando la presa sulla sua nuca, - E non farti vedere finché non sarò io a chiamarti - ordinò mentre faceva per voltargli le spalle ed andarsene, il tono freddo ed impersonale. Akutagawa fu però veloce a fermarlo, afferrandolo di nuovo per la manica del soprabito,
- Cos'è un calcio non ti è bastato? Ne vuoi un altro? - gli domandò Dazai voltando a malapena il viso verso di lui, riservandogli uno sguardo storto, colmo di minaccia. Di nuovo però il corvino parve immune al suo fare aggressivo. Eppure Osamu ben sapeva quanto di solito riuscisse a metterlo in soggezione, ma forse in quel momento c'era qualcosa che sbagliava.
- E' triste per il suo amico? - insistette Akutagawa, sfidandolo nell'osservarlo dritto negli occhi, l'espressione impassibile nel rimanere ginocchio a terra, guardandolo dal basso verso l'alto. Per Dazai sarebbe stato facile colpirlo al volto, facendogli saltare pure qualche dente, picchiarlo sino al punto di farsi sanguinare le mani. Forse a quel modo sarebbe riuscito a fuggire da quel "qualunque cosa" volesse accalappiarlo e da cui, probabilmente a quel punto, era già stato raggiunto. Sfogando della sana violenza sul suo sottoposto magari avrebbe smesso di trovare irritante il suo sguardo, che quel giorno pareva in grado di scrutarlo ben più in profondità di quanto mai avesse fatto.
Per la prima volta Dazai si sentiva fragile di fronte ad un altro essere umano, e senza che fosse lui a scegliere chi fosse. Avvertiva su di se una vulnerabilità da cui era spaventato e preferiva allontanare l'altro con forza prima che fosse troppo tardi.
Con una smorfia di stizza a piegargli le labbra, Dazai ricambiò la stretta di Akutagawa, strattonandolo per obbligarlo ad alzarsi, facendogli così quasi perdere di nuovo l'equilibrio a causa dello slancio.
- Non eravamo..- sbottò prima di azzittirsi di colpo, lasciando che un'ombra gli oscurasse il viso, - Sono affari che non ti riguardano - gli ringhiò afferrandolo per le spalle, obbligandolo a voltarsi.
- Vattene via! - gli intimò di nuovo, con un'enfasi eccessiva nel sentirsi infine sopraffatto da ciò a cui era scappato fino a quel punto, trovandosi con un groppo a stringergli la gola mentre gli occhi cominciavano a bruciare.
- Mi dispiace, sono stato indiscreto - si scusò Akutagawa, la voce piatta e lo sguardo fisso di fronte a se, senza neppure tentare di rivolgerlo al mentore che gli rimaneva dietro le spalle. - Non volevo irritarla - aggiunse rimanendo fermo, senza muovere un passo, avvertendo la stretta di Dazai farsi più stretta su di lui, bloccandolo sul posto nonostante gli avesse appena ordinato di andarsene.
Dazai gli si afferrava con forza la giacca scura, un leggero tremito ad attraversargli le spalle nel nascondere il viso sulla sua schiena.
Akutagawa non aveva mai visto il proprio mentore piangere e, anche in quel frangente, non osò rivolgergli neppure uno sguardo, consapevole che Dazai non gli avrebbe perdonato di vederlo in uno stato tanto miserabile. Si limitò ad offrirgli una spalla cui afferrarsi, rimanendo in silenzio a rispettarne il lutto, lasciando che fossero solo i suoi singhiozzi ad occupare l'aria del vicolo.
Alla fine, quel dolore da cui aveva provato a fuggire, la consapevolezza della morte che aveva evitato sino a quel punto, l'avevano colpito con la propria ferocia disarmante.
Chuuya era morto e Dazai non poteva far a meno di soffrire per questo.
La settimana successiva, il corpo di Atsushi sarebbe stato rinvenuto sulle sponde melmose del Tamigi.


- Ho sempre vissuto in un paesino nei pressi di Ginevra...- ora che aveva potuto rivestirsi ed era stato portato fuori da quel misero ospedale, Atsushi pareva molto più invogliato a parlare e si dimostrava ben disponibile a rispondere alle domande che gli venivano rivolte. O forse la sua felice parlantina era semplicemente dovuta dal piatto di stufato che Dazai, usufruendo delle tasche di Kunikida, si era adoperato di mettergli davanti.
Si trovavano seduti ad uno stretto tavolo, troppo piccolo perché i loro gomiti non finissero per scontrarsi ad ogni movimento, in un angolo di una modesta e buia bettola, non molto distante dall'ospedale. Si trattava certo di uno dei luoghi meno indicati in cui discutere di argomenti sensibili, vista la presenza di tutti quegli avventori attirati dall'alcool e da un pasto caldo, ma avevano avuto bisogno di allontanarsi alla svelta dall'orecchio molesto del minuto direttore dell'ospedale; cui cupidigia lo aveva portato a tentare di ricavare qualcosa da quei misteriosi e sospetti fatti che si stavano svolgendo all'intero della sua struttura. Probabilmente avrebbe cercato di ricattarli in qualche modo se, nel ritornare dopo aver accompagnato la dottoressa Yosano, la quale aveva perso un po' di tempo per cambiarsi, Akutagawa non avesse beccato il piccolo ometto a sostare di fronte alla soglia della sala operatoria, a spiare l'interrogatorio che si stava svolgendo all'interno.
Informati di ciò, il coroner e Kunikida avevano subito deciso di allontanarsi, ben consapevoli però di non potersi recare in commissariato vista la natura segreta di quelle indagini. L'obitorio si era dimostrato quindi l'opzione migliore, lo stomaco di Atsushi aveva però fatto presto sentire le sue vivide proteste e, subdolamente, Dazai si era offerto di offrirgli il pranzo - dopo essersi ovviamente assicurato che il portafogli, di cui aveva alleggerito il commissario, contenesse abbastanza denaro da permetterglielo. E, per essere sicuro di non pentirsene in seguito, aveva affidato ad Akutagawa il compito di occuparsi di quello squallido e lurido ometto.
- Come il signor Dazai aveva già intuito, non sono cresciuto all'interno dell'impero e, prima di adesso, non mi sono mai allontanato così tanto da casa - continuò a parlare Atsushi tra un boccone e l'altro, mostrando una voracità innaturale per qualcuno a cui fosse appena stato estratto un arpione dallo stomaco. Mostrava una conoscenza basilare del comportamento a tavola, sapeva maneggiare sicuro coltello e forchetta ma parlava con la bocca piena e teneva i gomiti sul tavolo. D'altronde però per il ceto sociale a cui probabilmente apparteneva, le regole dell'etichetta non dovevano essere poi così importanti. - Fino a quat-... no, cinque anni fa, vivevo con mio padre che si occupava della mia istruzione e mi ha insegnato varie cose - appoggiò per un momento le posate, prendendo un'espressione penosa e sofferente, - E' scomparso all'improvviso, da un giorno all'altro senza dirmi nulla, e io da quel momento ho vissuto come ho potuto - si riprese quasi subito e ricominciò a mangiare. - Mi ero abituato ai suoi improvvisi viaggi e a rimanere da solo per qualche tempo, però prima di allora mi aveva sempre avvertito, e non era mai stato via tanto allungo -
- E come si chiama tuo padre, Atsushi? - gli domandò Kunikida, un taccuino appoggiato sul tavolo e un mozzicone di matita già impugnato nella mano predominante, ignorando di aver appena dato una gomitata nel pancreas al suo vicino di posto, Dazai, pronto a scrivere le generalità di Atsushi e i dettagli salienti del suo racconto.
- Ehm...- il ragazzo esitò, lo sguardo fisso sul piatto quasi vuoto, come se stesse calcolando quanti bocconi gli mancassero per finirlo, ma l'espressione che presto si tinse di un leggero rosa imbarazzo. - In paese si rivolgevano sempre a lui come "professore", "dottore" o "signore", mentre io l'ho sempre chiamato "padre", anche se più spesso mi rivolgevo a lui come "papà" - lo sguardo di Kunikida si assottiglio facendosi di colpo gelido e tagliente.
- Vuoi dirmi che non sai il nome di tuo padre? - il tono piatto e privo di emozione non preannunciava nulla di buono,
- E' questo uno dei motivi che mi ha impedito di cercarlo...- ammise Atsushi sconfortato, mentre Dazai faticava a trattenere le risa.
- Dai Kunikida, non puoi biasimarlo, molti bambini si abituano tanto a chiamare i loro genitori "mamma" e "papà" che talvolta si dimenticano che hanno anche dei nomi - commentò divertito, per quanto la notizia non gli piacesse affatto. Non avere la conferma dell'identità del genitore di Atsushi poteva dar adito a dubbi e portarli ad intraprendere la strada sbagliata. Forse però, la solo presenza del ragazzo a Londra, poteva essere considerata una conferma di chi fosse suo padre.
- Alla dottoressa Yosano hai però detto di chiamarti, Atsushi Nakajima - ignorò il commento del coroner e continuò con le sue domande Kunikida, non voleva demordere. - Supponendo che Atsushi sia il nome con cui ti ha battezzato, da dove deriva quel "Nakajima"? -
- Da una discutibile passione per il roccoco e per tutto ciò che è orientale? - suppose Atsushi, in evidente difficoltà, - Non me lo sono mai domandato - ammise con sconforto, - E' che mi disse che io esisto solo con quel nome. Se non lo usassi, non ci sarebbero tracce di me -
A quell'affermazione del ragazzo Kunikida trascrisse un appunto che poi mostrò con discrezione a Dazai: Probabilmente il "padre" l'ha registrato con quel nome, in modo che avesse un identità. Più tardi spedirò un telegramma per chiedere informazioni, ma ci vorranno settimane; lo informava, e sul momento il coroner si stupì che riuscisse a scrivere tanto in fretta e in maniera leggibile, Akutagawa avrebbe avuto qualcosa da imparare da lui.
- Non voglio sforzarti, cambiamo argomento - decise il commissario, prendendo un tono meno duro, per quanto suonasse ancora severo e distante, - Hai detto che sapevi di essere diverso, per quanto nessuno te lo abbia mai detto. Da cosa lo hai capito? Dalle cicatrici sul tuo corpo? -
A quella domanda Atsushi sussultò vistosamente, rischiando di mandare di traverso l'ultimo pezzo di stufato che si era infilato in bocca, cominciando a tossire mentre, per un riflesso incondizionato, portava una mano a massaggiarsi la gamba destra, dove le cicatrici, sotto agli indumenti, erano più vistose.
In quel momento il ragazzo indossava vestiti di buona fattura, che gli ricoprivano per bene il corpo, nascondendo i vecchi segni da cui era ricoperto.
- Ed ero io quello troppo diretto - commentò Dazai ironico, finendo per ricevere un'altra "involontaria" gomitata da parte di Kunikida,
- Taci! - gli intimò con un occhiataccia, tornando poi a rivolgersi ad Atsushi. - Posso capire che non sia semplice per te, ma per aiutarci devi dirci cosa sai su te stesso -
- Aiutarvi per fare cosa? - gli domandò lui in risposta, lo sguardo che si sollevava dal piatto, ormai vuoto, passando dal confuso al sospettoso. - Credevo vi stesse limitando ad indagare su quello che mi è successo -
- Stiamo facendo anche quello - si intromise Dazai, - Ma cerchiamo una persona, e sospettiamo che tu sia il modo più veloce per arrivarci - chiocciò sfidando con un sorriso da predatore il dubbio che ora Atsushi gli rivolgeva.
- Volete usarmi? - realizzò lui, le spalle ad irrigidirsi mentre le mani si chiudevano a pugno sulle ginocchia, - Quella persona che cercate non sarà mica mio padre, vero? - la voce gli si ridusse ad un sussurro, come se di colpo gli mancasse il fiato per parlare.
- No, no, no. Ovvio che no - negò con fare vistoso e comico il coroner, non nascondendo una certa ilarità nell'udire la sua congettura, - Anche perché, essendo scomparso da cinque anni, è difficile che tuo padre possa sapere dove ti trovi ora, giusto? -
- E-esatto - confermò Atsushi, pur mostrandosi esitante, il volto fattosi pallido dal disagio. - Mio padre non può sapere che sono finito a Londra...- deglutì a vuoto prima di accennare ad un imbarazzato sorriso, - D'altronde neppure io ricordo di preciso come ci sono finito qui - rise in maniera un poco patetica mentre si grattava nervoso la nuca.
- Ah, quello è facile spiegartelo: sei stato rapito, Atsushi - affermò Dazai facendo un gesto vago con la mano, come a definirla una quisquilia di poco conto, - Probabilmente "quella persona" che io e il commissario Kunikida cerchiamo ti ha catturato, messo nella stiva di un traghetto e trasportato fin qui -
- Io.. io però non ho ricordi di essere stato rapito - obbiettò il ragazzo, lo sguardo che si allargava dalla confusione ed una rinnovata paura. Non doveva essere facile per lui, dopo tutti quegli anni di vita tranquilla, trovarsi d'improvviso in un luogo tanto lontano da casa.
- Probabilmente questo è a causa dell'incidente di cui sei stato vittima - con fare saccente Dazai incrociò le braccia al petto, mentre Kunikida faceva da spettatore attento alla loro conversazione. Sapeva che il collega aveva già ricostruito per intero l'accaduto, in barba alle indagini affidate a Tanizaki, ma non aveva ancora voluto riferirgli nulla, definendo come semplice congetture le informazioni che si trovava fra le mani. Prive di prove concrete a supportarle erano come semplice polvere al vento, inutili per un qualsiasi poliziotto.
- Intende il fatto dell'arpione? - domando Atsushi, cui mancanza di reazioni portò il commissario a ritenere che non ricordasse davvero nulla dell'accaduto.
- Proprio quello - chiocciò Dazai, afferrandosi poi il mento con fare sogghignate, l'indice e il pollice sollevati a formare una elle. - Sai, ieri sera al porto c'è stato un fatto interessante che credo ti riguardi direttamente Atsushi -

- Si dice che una bestia, probabilmente un animale di grossa taglia trasportato illegalmente dal continente, sia fuggita dalla sua gabbia... - erano le informazioni che Tachihara aveva riferito ad Akutagawa, stando ben attento alle chiacchiere che riempivano i pub e le case di piacere nei pressi del porto quel mattino. Era riuscito a ricavarne ben poco, essendo riconosciuto come un esterno della famiglia, ma alla fine aveva trovato un'allegra prostituta, appena staccatasi dal proprio angolo di strada, che si era dimostrata assai disposta a svagarsi un po' di fronte ad un paio di bicchieri di gin, dopo quella nottata di duro lavoro. Per lei era stata una sera movimentata e aveva guadagnato più del solito, non poteva non essere di buon umore. E a giudicare dal segno di rossetto che Akutagawa notò sulla sua guancia, doveva essere tanto entusiasta da proporre a Tachihara un servizietto extra oltre alle chiacchiere. - C'è stato un po' di scalpore e qualche cassa rotta, ma nulla di più. La bestia si è limitata ad  intrufolarsi in un magazzini e a far fuori una gran scorta di viveri, poi ha tentato di fuggire. A quel punto però i marinai presenti avevano già creato un piccolo gruppo di circa una ventina di elementi per fronteggiarla. La bestia, messa all'angolo, si è quindi gettata in mare, ma è stata colpita da una fiocina e, secondo i presenti, non ci sono possibilità che sia sopravvissuta. Il corpo dell'animale però non è ancora stato trovato - notando che il corvino gli fissava la guancia, Tachihara comprese di avere qualcosa che non andava e, in un rosso imbarazzo, cominciò a frugarsi il viso con il dorso della mano. - Non che l'abbiano cercata molto in realtà - aggiunse con un verso stizzito,
- Che aspetto aveva? - ne ignorò le reazioni Akutagawa, il volto privo d'espressione.
- Da quel poco che sono riuscito a capire, aveva movenze feline. Il suo aspetto però ricordava più quello di una scimmia, in molti dei marinai che l'hanno affrontata hanno pensato fosse un qualche animale esotico ancora sconosciuto - gli rispose voltando il capo, cercando di nascondere la parte del viso dove il segno del rossetto era ancora più visibile, ben spalmato su tutta la guancia.
- Capisco... - annuì lui con fare grave, come se ne soppesasse le parole, - Per il momento è tutto - lo congedo sbrigativamente, voltandogli le spalle, - Torna al tuo solito incarico e più tardi ringrazia tua madre per le informazioni - aggiunse senza neppure guardarlo. Aveva approfitta del momento in cui si era allontanato con Yosano per parlare con lui, avendolo notato fra la gente che camminava su e giù per la strada di fronte all'ospedale, si era però attardato troppo e ora sentiva l'urgenza di tornare alla svelta dal proprio mentore.
- Co... come ha fatto a capire che è stata mia madre? - sussultò Tachihara, il viso a colorarsi dello stesso rosso del rossetto che lo segnava, arso dall'imbarazzo nel trovarsi subito scoperto, ammettendo così di essere andato a rivolgersi alla propria mamma per chiedere aiuto.
"Ho riconosciuto il colore del rossetto" pensò fra se e se Akutagawa, stando però ben attendo a rivelarglielo, temendo di incorrere in fraintendimenti. Non era certo il tipo di persona che frequentava le prostitute del porto, ma aveva avuto modo di incontrare un paio di volte la madre di Tachihara, la quale si era sempre dimostrata ben disponibile alle chiacchiere, fin troppo per i suoi gusti. In qualche modo la sua vitalità lo metteva in soggezione e, nelle rare volte in cui l'aveva vista, gli era stato ben difficile sottrarsi alle sue attenzione e al fiume di parole che riusciva a pronunciare in un così breve lasso di tempo. Ormai quasi temeva di incrociarla per strada, intimorito dalla prospettiva di poterne finire sequestrato per un tempo imprecisato, che poteva andare dalle due ore ad un intero pomeriggio. Quella donna era sfiancante con tutto quel suo chiacchiericcio, era capace di intontire il proprio interlocutore e di tenerlo seduto ad una sedia fino a quando non le andava via la voce dal troppo parlare. Era difficile da gestire e Akutagawa poteva solo in parte immaginare quale sacrificio fosse stato per Tachihara trovarsi a rivolgere a lei. O forse il fatto che fosse sua madre rendeva il loro rapporto diverso? La donna si comportava in modo differente con il figlio oppure Tachihara aveva sviluppato una sorta di immunità nei suoi confronti?
Al momento però non erano i rapporti familiari dell'altro a dovergli interessare. Davvero quei marinai l'aveva definito una bestia ciò che avevano trovato al porto? Doveva subito portare quelle informazioni a Dazai, forse quel "ragazzo" poteva mostrarsi più pericoloso di quanto non sembrasse.
Infondo aveva risalito il Tamigi con un arpione nello stomaco. La sua forza non era da sottovalutare.

- Quindi Atsushi, hai qualcosa da dirci? - gli domandò Dazai riportando ciò di cui in precedenza Akutagawa lo aveva informato, notando con la coda dell'occhio come Kunikida fosse sussultato a quelle nuove informazioni. Stavano discutendo con una bestia potenzialmente pericolosa? Erano probabilmente i suoi pensieri, cosi come trasparirono dal suo volto mentre fingeva di annotare qualcosa altro nel suo inseparabile taccuino.
- Ehm... Io non ricordo davvero nulla di quello che è accaduto, mi dispiace - disse Atsushi mortificato, scuotendo un poco la testa in un diniego, - Non conosco, né ho mai visto bestie simili. Pensate che mi abbiano colpito per sbaglio mirando a quel animale? -
- ... - non era proprio quella la reazione che Dazai si era aspettato da lui, e difatti il suo sguardo si assottigliò, iniziando a scrutarlo con attenzione, le labbra strette come se avesse appena addentato un limone, l'espressione dubbiosa nel cercare di capire se il ragazzo fosse davvero sincero o fosse solo un ottimo attore.
- Sta bene? - domandò Atsushi dopo un po' che l'altro era rimasto in silenzio a fissarlo, rivolgendosi con fare preoccupato a Kunikida. Non poteva sapere se per il coroner quella fosse una reazione normale,  
- Credo tu l'abbia appena sconvolto - suppose il biondo, trovandosi a fissare a propria volta il volto di Dazai, era la prima volta che gli vedeva fare un'espressione simile.
- Io? E cosa avrei fatto? - si stupì il ragazzo, sbattendo più volte le palpebre dalla meraviglia.
- La tua ingenuità è sconcertante, Atsushi - proclamò a quel punto Dazai, scuotendo un poco il capo prima di prendersi la fronte con una mano, il fare sconsolato e vagamente amareggiato.
- Mi dispiace...- disse lui, - O almeno credo dovrebbe dispiacermi, giusto? - si rivolse di nuovo a Kunikida in cerca di un qualcuno in grado di spiegargli cosa avesse fatto o detto di sbagliato.
- No, non è una cosa per cui scusarsi, Atsushi - lo rincuorò il commissario, trovandosi a sbuffare nel sistemarsi con un gesto nervoso gli occhiali sulla radice del naso, - E' solo che la tua reazione è spiazzante -
- Spiazzante? - ripeté,
- Quando Dazai diceva che probabilmente questi accaduti ti riguardavano, non ti stava chiedendo se tu avessi visto la belva...- cercò di spiegargli la questione con tutta la calma di cui era capace.
- Mi stavo chiedendo se non fossi tu la "bestia" che è stata fiocinata - intervenne ad interromperlo Dazai, ignorando la seguente occhiataccia che l'altro gli riservò,
- Pensate che io possa trasformarmi in un mostro o qualcosa del genere? - Atsushi sembrò trovare la domanda assurda al punto che, dopo aver bevuto un sorso dal boccale di fronte a lui, scoppiò a ridere.
- Puoi farlo? - erano invece rimasti seri Kunikida e Dazai, le espressioni impassibili, abbastanza per far morire il riso sulle sue labbra.
- Me lo state chiedendo davvero? Ma... ma è una cosa assurda! - ne sembrò sconcertato, per lui era una domanda insensata. - No. Non posso trasformarmi in una bestia - si trovò a dover rispondere, avvertendo un senso di irritazione rodergli la gola, se ne sentiva infastidito. - Cosa credete che sia? Un mostro? - sbottò e il silenzio che seguì, l'espressione un poco imbarazzata di Kunikida e lo sguardo freddo di Dazai, furono una risposta piuttosto eloquente per lui, il quale avvertì la pelle come percorsa da un brivido. Doveva forse temere quei due? Se davvero lo consideravano un mostro chissà cosa avrebbero potuto fargli. Quel corpo, il SUO corpo, di cui neppure lui conosceva tutti i segreti, cosa significava per loro?
- Io... io sono umano. Lo sono - si trovò a specificare, lo sguardo a fissarsi sul piatto ormai vuoto, - E' vero che c'è qualcosa di strano in me, ma ciò non fa di me un mostro. Sono solo una persona come molte altre - una piega si formò tra le sue sopracciglia mentre una sottile paura gli faceva tremare le voce.
- Oh, su questo spero tu ti sbagli, Atsushi - si intromise nel suo monologo Dazai, il tono superficiale e finto allegro, trovandosi ad affrontare uno sguardo interdetto da parte sua, il quale per l'ennesima volta non ne comprendeva le reazioni. - Beh, sai che la dottoressa Yosano ha avuto modo di esaminarti a fondo mentre estraeva l'arpione dal tuo corpo. E sai cosa ne è venuto fuori? Fiocina a parte - aveva il tono velenoso e allo stesso tempo seducente di un serpente. Era facile comprendere che stesse per dire qualcosa di terribile, ma era impossibile non ascoltarlo.
- Dazai! - lo ammonì Kunikida, ben consapevole che il suo intervento serviva a poco, lo sguardo con cui Atsushi era rimasto ammaliato dalla voce dell'altro non gli avrebbe permesso di interromperlo.
- Si è scoperto che il tuo corpo è composto dai pezzi di altre sette persone - gli rivelò freddo e brutale, con un sorriso falso cortese ad addolcirgli le labbra. Sembrava quasi divertito nell'aggiungere, trovando nel ragazzo uno sguardo sconvolto, il corpo paralizzato dall'orrore: - Sapendo questo, hai ancora voglia di definirti una persona comune, Atsushi? -


  
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