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Autore: Koa__    09/04/2018    6 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mozart, Fantasie




Alla fine di quel mese di aprile, John Watson decise che era arrivato il momento di spingersi fuori dal letto. Nonostante le sue più segrete intenzioni lasciassero presagire tutt’altro (o almeno, era quello che si poteva dedurre dal gran tubetto di lubrificante intimo che aveva nascosto in valigia) sembrava seriamente desideroso di evadere dalla routine giornaliera fatta di casa e università. Sherlock si ritrovò ad addebitare la colpa di quell’insolita iniziativa alla primavera, ma era quasi sicuro che la costante presenza di Mrs Hudson e Mrs MacGill avesse contribuito in altrettanta buona parte. Quelle due donne erano una manna del cielo, come sosteneva mamma Holmes benedicendo la loro presenza in quell’appartamento. Cucinavano, pulivano, si occupavano della loro salute (a detta di Beatrice erano così che stavano le cose, ma su questo c’era da dubitare) rimpinzandoli di torte e tè, ed erano delle padrone di casa gentili e disponibili. Tuttavia ritenere che fossero innocenti si era rivelata una deprecabile leggerezza. Avevano infatti il terribile viziaccio di spiarli e, di conseguenza, spettegolare su attività che avrebbero dovuto restare una faccenda privata, salvo poi riferire ogni cosa a Mrs Holmes. In una perfetta orchestrazione spionistica, che avrebbe fatto invidia a quei burattini impomatati che rispondevano a Mycroft. Sherlock sapeva molto bene che non c’era nulla di davvero maligno in quel loro annotare gli orari degli amplessi e i minuti trascorsi sotto la doccia, ma la situazione al 2 di Ship Street si era ugualmente fatta tesa. Lui e John avevano finito col guardarsi a malapena e il baciarsi raramente e soltanto a mo’ di saluto, al punto che quel loro delicato equilibrio di giovane coppia andava incrinandosi di giorno in giorno. Persino un neofita dei rapporti amorosi come lui, aveva intuito che tutto non filava perfettamente. Capitava che litigassero e discutessero, ma sempre di sciocchezze; una volta avevano addirittura dormito separati e non si erano parlati per venti intere, terrificanti, ore. Sherlock riteneva la situazione inconcepibile e quella volta, John sembrava d’accordo con lui.

«Dovremmo fare qualcosa.» Una voce calma e decisa, vagamente pacata, spezzò il silenzio del 2 di Ship Street, risvegliando Sherlock Holmes dal lieve torpore nel quale era miseramente caduto. Era un mattino di tarda primavera, faceva già discretamente caldo in quel di Oxford e folate di un venticello fresco agitavano le tende del soggiorno. Al di là di esse, oltre le finestre aperte, un timido sole splendeva e l’azzurro del cielo veniva sporcato da nubi vaporose. John se ne stava affondato nella propria poltrona e sorseggiava quel suo caffè non zuccherato, mangiucchiando uno o due biscotti al cioccolato. Gli aveva parlato senza distogliere lo sguardo da dove lo teneva inchiodato da minuti, ovvero alla pagina sportiva del Guardian. Le labbra che si posavano piuttosto spesso sulla fredda ceramica colorata, avevano ottenuto tutte le invidie del taciturno professor Holmes mentre i capelli, deliziosamente agitati dalla brezza, erano una diabolica distrazione. Osservarlo era un lusso da concedersi di tanto in tanto, al pari di un ottimo vino d’annata.
«Sii più preciso.»
«Una gita, io e te» specificò, distogliendo l’attenzione dai risultati del campionato e alzandosi con un movimento svelto. Soltanto in quel momento i loro sguardi s’incrociarono. Avvenne per pochi e brevi istanti, ma tanti bastarono a caricarli di tensione e di una nervosa frustrazione sessuale. Sherlock era seriamente indaffarato quel giorno, e se avesse cominciato a guardare John avrebbe finito col non far più nulla. Fu così che in risposta alla leggera eccitazione che ora albergava dentro di lui, irrigidì appena la postura, pur ancora ingobbita dal mestiere che andava facendo. Era già vestito in camicia e pantaloni del completo, pronto ad andare in facoltà. Ma ancora tardava a muoversi, al punto che rischiava seriamente di perdere l’inizio della propria lezione. Nascondendo un moto di lieve fastidio nei confronti di se stesso, Sherlock riportò gli occhi al microscopio. Questo occupava gran parte dello spazio, oltre a vetrini e ciotole contenenti quelle che Mrs Hudson definiva come “amenità deprecabili”. Esattamente lì accanto, dell’English Breakfast addolcito da una goccia di latte, ancora fumava. John non amava fare colazione a quel modo, avrebbe preferito commentare insieme le notizie dei giornali del mattino magari facendo dell’ironia sugli annunci della pagina del Times. Però sapeva anche quanto difficile fosse conciliare il mestiere di professore con quello di consulente investigativo, specie perché spesso si ritrovavano a dover colmare le lacune della polizia scientifica inglese, la quale pareva composta da un branco di inetti. Pertanto, il più delle ore di libertà dal lavoro, Sherlock le passava chino sul tavolo della cucina. Quel giorno stava analizzando brandelli di tessuto rivenuti sotto le unghie di un cadavere trovato sulle rive del Tamigi, nei pressi di Chelsea Harbour. Un omicidio complesso e appassionante, che la polizia del luogo gli aveva sottoposto concedendogli di accedere a reperti e informazioni schedate. In pratica, erano disperati. Era infatti un evento raro che lo cercassero apertamente, specie se si considerava che il solo a Scotland Yard a tollerare la sua presenza era Lestrade.
«È che l’università ci impegna già tanto e abbiamo preso molti più casi ultimamente, penso che sarebbe carino andar via per qualche giorno» annuì con convinzione «da soli. Senza studenti, colleghi, Mrs Hudson…»
«Mia madre» lo interruppe, stirando un sorrisino prima di riportare lo sguardo al microscopio.
«O, peggio, Mycroft!» ne rise John, divertito mentre ripiegava giornale e lasciava la tazza dentro al lavello.
«Direi che i primi giorni di maggio sono perfetti per me, dimmi solo dove e quando, Watson e sarò tutto tuo.» Sì, ci aveva messo una punta di malizia. Sebbene la detestasse, di recente si ritrovava a usarla spesso. In verità aveva sempre creduto che fosse un patetico espediente per attirare l’attenzione altrui, ma in quei giorni la loro lontananza fisica lo aveva provato oltre ogni dire. Ed era una sensazione spiacevolmente nuova, perché non credeva che si potesse sentire fisicamente la mancanza di un’altra persona. Non aveva capito del tutto che cosa sarebbero andati a fare, né tanto meno dove. Eppure non gl’importava un bel nulla. A esser sinceri non era particolarmente interessato alle scampagnate culturali o a quelle ridicolaggini che la gente faceva nelle fattorie; pagare così tanti soldi per accarezzare cavalli e mucche era un’assurdità bella e buona. E neppure gli interessava di esplorare la brughiera inglese. Ma il fatto era che per il suo dottore avrebbe fatto qualsiasi cosa, il che era un chiaro sintomo di quanto innamorato fosse. Sebbene non gliel’avesse mai confessato a voce, ma questa era un’altra faccenda. Una di quelle a cui evitava puntualmente di pensare. Quindi sì, lo avrebbe seguito ovunque e poi, quanto orribile avrebbe mai potuto essere? Fare l’amore a casa o altrove poco cambiava, in effetti. Pertanto, fu così che trascorsero quell’inizio maggio nella stupenda Charlbury. * Una ridente cittadina nel cuore della contea dell’Oxfordshire, dove sarebbero stati non più di un paio di giorni. Nulla d’impegnativo e in realtà, essendo a meno di venti chilometri da casa, non era neanche da considerarsi un vera e propria vacanza. Eppure parve bastare, tanto che Sherlock non azzardò alcun tipo di lamentela, né imposizione. Semplicemente lo lasciò fare, senza ostacolare quella sua meticolosa organizzazione da soldato, ma al contrario gustandosi ogni sorpresa come un bambino a Natale. L’amore cambiava le persone, aveva mormorato Beatrice MacGill mentre salutava entrambi con un gran sorriso felice, prima che l’auto lasciasse Ship Street. Sherlock iniziò a credere che avesse ragione.
 
Charlbury non offriva molto in termini di attrattive turistiche o bellezze paesaggistiche. Cinque minuti dopo esser sceso dall’auto presa a noleggio, già si era convinto che l’unico soggetto piacevole su cui posare gli occhi era proprio il suo John. E significativo era il fatto che non fosse originario del luogo, ma questo era un altro discorso. Dieci minuti dopo il loro arrivo aveva definitivamente stilato il proprio programma di attività per l’intero fine settimana. Nessuna comprendeva che avessero abiti addosso.
«Eppure deve pur esserci qualcosa d’interessante da fare» aveva blaterato il suo ottimista compagno, guardandosi attorno mentre imboccavano a piedi il vialone principale. Forse era davvero così e Charlbury nascondeva dei segreti e mirabolanti avventure. Non di certo ai primi di maggio, però. Stando tizio della locanda c’era un festival della birra piuttosto famoso che si teneva verso la fine giugno. A maggio, di birra non ce n’era che l’ombra. Ah, e avevano intravisto una fontanella progettata da un tizio famoso per onorare la visita della regina Vittoria, avvenuta più di un secolo prima. Si trattava una specie di… coso informe e di gusto discutibile, a cui tutti sembravano tenere in maniera spropositata. Secondo un vecchio marinaio ormai in pensione e che se ne stava precariamente appollaiato su uno degli sgabelli del pub, la gente da quelle parti ferveva attorno al club di cricket e alla squadra di calcio, ma John neanche a quello parve essere interessato. Sherlock men che meno. E senza accennare a voler giocare a cricket (a meno che non lo facessero nudi, in quel caso era disposto a parlarne), mano nella mano s’incamminarono lungo le vie del piccolo centro. Lo fecero a lungo, tanto da spingersi oltre i caseggiati del paese. Quasi fin dentro la brughiera dove, nascosta tra gli alberi, trovarono una piccola chiesa. Si trattava di Saint Mary The Virgin e della torre campanaria, che si stagliavano in tutta la loro bellezza proprio a fianco di un antico cimitero. Sherlock si ritrovò più volte a domandarsi per quale assurda ragione fossero andati in vacanza a soli venti chilometri da casa, nella cittadina più noiosa della terra. In meno di un’ora avevano visto tutto quel che c’era da vedere e, presumibilmente, incontrato anche tutti coloro che abitavano lì. Sessanta infiniti minuti trascorsi nell’appiattimento mentale più assoluto. Un’ora intera, alla fine della quale erano capitati dove stavano adesso, sul sagrato della chiesa di Saint Mary. Il naso rivolto all’insù puntato alle ampie vetrate, nelle narici quel fastidioso odore di natura e prati in fiore che era peggio dello smog del centro di Londra. Sopra le loro teste, tratti di cielo s’ingrigivano a ovest, minacciando pioggia. Grazie a Dio, si disse, forse quello strazio sarebbe finito presto.
«John?» pigolò con fare di preghiera, pur senza levare gli occhi dalle grandi lancette dell’orologio della torre che ticchettavano con regolarità. I campanili lo affascinavano fin da bambino, era impressionato da come l’essere umano potesse concepire delle lancette d’orologio di così tanto grandi dimensioni. Quella torre, però, non aveva proprio nulla di stupefacente. «Che diavolo ci facciamo qui?»
«Perché? Non ti piace?» ribatté il suo furbo compagno, accennando a un sorriso fugace prima di levarsi gli occhiali scuri e prendere a guardarlo con una strana espressione addosso. Aveva qualcosa d’insolito e che non andava. Sembrava divertito, stava forse facendo dell’ironia? Eppure avrebbe dovuto sapere che non sempre riusciva ad afferrarla, cavolo avevano fatto quel discorso tante volte oramai. Oppure lo stava semplicemente prendendo in giro, possibile? No, non poteva trattarsi di questo. Quando John Watson lo sfotteva, prima si preoccupava di farglielo sapere altrimenti avrebbero rischiato di litigare (era una lezione che avevano imparato tutti e due). Adesso era qualcos’altro, qualcosa che Sherlock non capiva. Nonostante i mesi trascorsi insieme, c’erano ancora momenti in cui gli riusciva difficile il comprendere quel mistero che era John Watson. Attimi in cui l’uomo che amava era e restava un enigma indecifrabile e quello era decisamente uno di quei momenti. Pareva davvero divertito e infatti stava ridendo; ma perché? E soprattutto per che cosa? Per via del nulla più assoluto che li circondava? Se così era, l’uomo che amava aveva uno strano senso dell’umorismo. Lui avrebbe definito quel posto una sciagura, di certo non aveva niente di comico.
«Dovrebbe? Qui non ci sono altro che mucche. Avevi detto che avremmo fatto una vacanza del sesso» s’imbronciò, incrociando le braccia al petto e rabbuiandosi. «Siamo arrivati da un’ora, tu sei ancora vestito e, cosa peggiore, mi porti in giro per chiese e fontane orribili invece che scoparmi.» Lo disse così, come un bambino che fa i capricci. Lo borbottò con le labbra deformate in una smorfia corrucciata e lo sguardo tenuto altrove, cocciutamente insistente su quelle dannate vetrate. Lo disse senza preoccuparsi di parlar di certe cose in quello che era un luogo sacro. Sapeva quanto il suo compagno poco amasse i capricci e le lamentele, ma ugualmente non era riuscito a trattenersi. Era rimasto zitto fin troppo, ingoiando commenti caustici e battute sarcastiche. Certo, era una forzatura. Una castrazione al proprio carattere e alla propria natura, ma non lo faceva con dispiacere. Da quando aveva un ragazzo aveva capito che vederlo felice valeva sempre un piccolo sacrificio. Sherlock amava sentirlo ridere e lo inorgogliva il pensiero d’esserne l’unico responsabile. Ora, sebbene annoiato a morte, John era felice e a lui stava bene così.
«Prima cosa» lo rimproverò, anche se con ben poca serietà «abbassa la voce perché siamo davanti a una chiesta e poi c’è una ragione se siamo qui.»
«Annoiarmi finché non muoio per poi seppellirmi nel cimitero?» chiese, scherzoso (ma neanche troppo), indicando lapidi e tombe che costellavano il prato tutt’attorno all’edificio ecclesiastico. «Se così è, professore, fatti dire che il tuo piano è geniale. L’arma del delitto è tutta Charlbury, strabiliante davvero. Sono impressionato.»
«Beh, in parte hai ragione» annuì, lasciandosi andare di buon gusto a una dolce risata. Il mistero s’infittiva, con lui s’accentuava la furbizia che traspariva da quelle parole. «Faccio prima a fartelo vedere» aggiunse, prima di prenderlo per mano e incamminarsi lungo il vialetto.
 
La chiesa di Saint Mary The Virgin era immersa nella placida quiete dell’Oxfordshire. Situata a sud del villaggio, era circondata da un verde lussureggiante tipico di quelle zone dell’Inghilterra. Tuttavia non offriva poi molto ai pochi visitatori che passavano da quelle parti. L’edificio era di piccole dimensioni e la torre campanaria non molto alta, anche l’interno era privo di qualsivoglia abbellimento. Sherlock avrebbe detto che la sua insipida sobrietà era perfettamente paragonabile a quella dell’intera Charlbury, tuttavia evitò di sbandierare tanto apertamente i propri pensieri. Ora non c’entrava il trattenersi o meno, anzi John aveva apprezzato tanta sincerità da parte sua. Più che altro era pensieroso, dubbioso riguardo la maniera di comportarsi. Aveva notato un particolare che gli dava da pensare, era quasi sicuro che ci fosse dell’altro dietro alla decisione di venire sin lì, ma ancora non afferrava quelle che erano le reali motivazioni. Sulle prime non aveva neppure lontanamente immaginato che potesse aver scelto quel paesino per una ragione specifica, aveva semplicemente creduto che la scelta fosse finita su un luogo non troppo lontano da casa. A quanto pareva non era così o, meglio, c’era dell’altro insabbiato sotto a quel sorriso furbo e ai modi in apparenza distratti. Avrebbe dovuto capirlo quel giorno a Ship Street, ma di recente le distrazioni erano continue, tanto che spesso lasciava semplicemente perdere. Farsi sorprendere era diventato un delizioso passatempo. Ci rimuginò anche in quei frangenti, mentre lo seguiva, addentrandosi con lui tra le lapidi che costellavano il prato a fianco della chiesa. Man a mano che procedevano, zigzagando tra le tombe, sentì l’eccitazione iniziare a crescere. Era un formicolio piacevole che si ritrovò a coccolare, pur non sapendo spiegarsi propriamente il perché fosse tanto emozionato. Doveva essere il brivido della caccia e di un mistero di cui non vedeva inizio e fine. Era la consapevolezza di quanto John Watson fosse perfetto. Lui, il solo che fosse mai riuscito a fregarlo e l’unico da cui Sherlock Holmes si sarebbe mai lasciato imbrogliare. Sorrise di un divertimento accennato, ma proprio allora le sue profonde elucubrazioni mentali smisero di tormentarlo. Già, perché adesso erano fermi davanti a una tomba. Una certa Mary Elisabeth Lewis giaceva lì sepolta. Il suo nome inciso nella pietra, accanto alle date di nascita e morte.
«Il mistero di Charlbury» annunciò il suo amato professore con voce pacata, ma leggermente divertita. Fu quello l’indizio più importante, realizzò in un barlume di lucidità. Fu quella risata che gli permise di risolvere la propria personalissima indagine. Il chiaro segno che tutto quel che avevano fatto sino ad allora era stato preventivamente programmato: il pub, la fontana terrificante, la chiesa, la passeggiata nella brughiera... Tutto studiato nei minimi dettagli, atto al solo scopo d’ingannarlo e fargli credere avrebbero trascorso l’intero fine settimana ad accarezzare le pecore. Non era così, rifletté accennando un sorriso innamorato. Il suo John era sorprendente, negarlo avrebbe significato mentire in modo spudorato.
«Pensavo di titolare così l’articolo che comparirà sul blog. Una volta che avrai risolto il caso, questo è chiaro.»
«Tu mi hai…»
«Portato sulla scena di un crimine? Sì! O forse credevi che fossimo qui per la natura?» Rideva, il suo John. Il suo amato John. Il John di cui era pazzamente e follemente innamorato. Rideva e lo faceva con tono divertito e leggero. Lo faceva con il cuore, sorridendo persino in quei suoi occhi blu. Tutto il viso gli era esploso per la gioia, e quindi rideva. Rideva e basta. Lo faceva sfiorandogli le labbra, mentre gli accarezzava le guance arrossate. Furono sufficienti le punte delle dita a stuzzicare la pelle rasata del volto, un bacio e quel tocco sottile, a provocare in Sherlock una cascata di brividi lungo la schiena. Da quanto tempo non facevano l’amore? Tanto che sembrava un’eternità.
«Ti amo» lo sentì sussurrare. Dopo lo baciò di nuovo e questa volta ci mise un pizzico in più di vigore, tanta passione che avrebbero potuto anche farlo lì, tra le tombe. Cielo, quelle mani! Cosa non era quel suo tocco lieve ma possessivo, che per tutto il tempo non aveva smesso di sfiorarlo. Quel bacio e la maniera gelosa in cui gli stringeva la vita, ebbe lo straordinario potere di far traballare ogni certezza. Tutti i mezzi pensieri, i ragionamenti logici e perfettamente sensati, quegli abbozzi di risposta che aveva intenzione di dargli, svanirono. Sherlock Holmes si sciolse lì, in un cimiero nel bel mezzo del nulla. Ogni certezza sparì nel suo profumo inebriante, nelle labbra tese in un sorriso. Svanì nella presa salda che ancora non lo lasciava. Svanì tutto, lasciando il posto soltanto ai tormenti. Quelli non se andavano mai davvero. Sì, sapeva dei sentimenti di John. Da che avevano fatto l’amore la prima volta, gliel’aveva detto trentotto volte. Oh, le aveva contate proprio tutte. Anzi, era riuscito a memorizzare ognuna di esse. Sherlock, però, non aveva mai risposto. Non nella maniera in cui ci si aspettava che facesse. Era certo d’essere una delusione sotto quel punto di vista. Insomma se la cavava nel sesso, ma si trattava di una mera casualità. Il non esser riuscito ancora a confessargli che cosa provava, nonostante la vicinanza degli ultimi mesi, gli provocava uno scontento che ormai era diventato quotidiano. Ci pensava ogni giorno, rimuginandoci persino durante la notte. Al mattino si alzava e intanto che si vestiva andava ripetendosi che quello sarebbe stato il giorno giusto. La sera, poi, tornava a letto con la convinzione che avrebbe senz’altro trovato la giusta occasione un’altra volta. Naturalmente succedeva mai, il momento perfetto sembrava non esistere.
«Sia chiaro che intendo fare anche tutto quello che ti avevo propinato: passeggiate, un picnic io e te da soli, tanto sesso… Però sì, ho scelto Charlbury per via di un delitto. Sai, sembra che nessuno sia riuscito a capire com’è morta Mary Elisabeth. Finora. Mh, ti va di provarci?» Il cuore gli batteva talmente in fretta che non riusciva a sentire nient’altro che quello. Aveva le orecchie che fischiavano e il fiato che mancava, le guance arrossate di una timidezza evidente. Un sorrisino gli era nato spontaneo sul viso, spazzando via il broncio che tanto sapientemente aveva saputo indossare sino a quel momento. Un accenno fatto di labbra tese e che subito ricacciò indietro, nascosto dalla fragile maschera che portava. Gli aveva regalato un caso? Certo, uno irrisolto e parecchio datato, ma Dio! Gioì, prendendo a saltellare. Quale altra persona avrebbe avuto una simile idea di vacanza? Nessuno. Ed era questo che rendeva John Watson davvero speciale. Preso dalla foga lo abbracciò di slancio, sollevandolo appena da terra e ridendo per la contentezza. Lo amava, lo amava da matti. Lo amava e doveva dirglielo.
«Sei stupefacente, professore» sussurrò prima di coinvolgerlo in un bacio che riuscì a zittire entrambi. Dopo, fu quella misteriosa morte a ottenere tutte le loro attenzioni.


Mary Elisabeth Lewis, così si chiamava. Nome, data di nascita e morte s’intravedevano a malapena sulla pietra tombale ormai corrosa dall’ingiuria del tempo. Ciononostante erano sopravvissute, quasi a voler ricordare la tragica fine di una sfortunata ragazza la cui vita era stata spezzata ad appena ventitré anni. Una morte della quale Sherlock Holmes non aveva mai saputo niente, perché era raro che si documentasse su casi tanto indietro nel tempo. Secondo le informazioni che John aveva reperito qua e là, Mary Elisabeth era un’istitutrice. Era originaria dell’Herefordshire, ma aveva vissuto a Londra per tutta la vita da una zia benestante che l’aveva formata adeguatamente. Si era trasferita a Charlbury per seguire la famiglia che serviva, ovvero quella di un ricco uomo d’affari che commerciava in lane e filati. Questi aveva spostato gran parte della propria attività lontano dalla capitale per, stando a certi pettegolezzi, tenere la moglie a distanza dalle vivaci compagnie londinesi.
«Mr Barrymore doveva pagarla molto bene» osservò Sherlock, con fare acuto e spezzando a quel modo il preciso racconto che John stava snocciolando. Si trattava di una precisazione non poi così tanto rilevante ai fini dell’indagine, sarebbe più che altro servita a delineare le caratteristiche della ragazza. Tutti particolari che non potevano carpire se non da quelle letture che, ne era certo, erano senz’altro imprecise. Quel che aveva compreso per bene, era che Mr Barrymore doveva essere come molti uomini d’affari dell’epoca, ovvero pratico e svelto nel concludere accordi. Una volta presa la decisione di trasferirsi a Charlbury non aveva perso tempo nel cercare una nuova istitutrice per i figli, doveva aver offerto a Elisabeth una paga più elevata, di modo da convincerla a seguirli. Il che poteva lasciar supporre che era una ragazza affidabile e seria, precisa nel lavoro e senza troppi grilli per la testa. La condizione del lavoro femminile in età vittoriana non era mai stata di suo interesse, tuttavia si ritrovò a domandarsi quante ragazze sposate col proprio lavoro si fossero ritrovate a dedicare l’intera propria vita a un mestiere perché senza altre possibilità. Sedando un brivido, Sherlock non ci volle pensare. Aveva altro a cui badare ora, ed era certo che il delitto in questione non riguardava la sfera sociale e lavorativa, ma che c’entrava con qualcosa d’altro. Non poteva naturalmente avere tutte le certezze, anche perché un dettaglio o due gli sfuggivano di questo mistero. Per questo si ritrovò a rimuginare lì dove stava, già gli ingranaggi dei suoi pensieri vorticavano su Mary Elisabeth Lewis e sulla sua orribile morte. In un palazzo mentale affollato, un preciso scenario iniziava a delinearsi.
«Da cosa l’hai capito?»
«Stiamo parlando dell’ottocento, John. All’epoca scegliere di abbandonare le comodità di una città come Londra per venire a vivere qui non era cosa da tutti. Una donna istruita non decideva di seguire necessariamente il proprio datore di lavoro, a meno che questi non pagasse molto bene. Ergo, Mr Barrymore pagava bene » osservò mentre si lasciava cadere contro lo schienale della panca dov’era seduto. Là, in quel pub deserto e con nessuno a spiarli se non un vecchio marinaio con la barba e il barista, tutto preso dalla televisione e da una partita di rugby. Era trascorsa circa una mezzora dalla loro visita a Saint Mary. Avevano lasciato chiesa e cimitero in fretta e furia dopo che il cielo aveva cominciato seriamente ad annuvolarsi. Secondo il suo noiosissimo compagno, che non gli permetteva di curiosare in chiesa, un temporale sarebbe esploso di lì a poco, il che si era rivelata una deduzione più che corretta. Ma cos’era un po’ di pioggia se paragonata a un così bel delitto? No, neanche questa era servita e le moine avevano solo fatto ingigantire la vena sulla tempia. Mestamente, Sherlock lo aveva seguito in città. Ora entrambi sedevano davanti a un paio di boccali di birra, a far loro compagnia una ciotola di patatine da sgranocchiare. La voce del barista che urlava improperi contro un maciste neozelandese, era un fastidio intollerabile.
«Quindi? Ci hai già capito qualcosa, Mr detective?» si sentì domandare con curiosità mista a una vena di malizia. Ancora una volta c’era quel tono nella sua voce. Stava forse flirtando con lui? Erano tipo preliminari? Magari di un tipo più intellettuale? No, neanche questo sapeva e, a peggiorare le cose, c’era il suo non saper più quale pensiero avallare. Da una parte c’era quel “ti amo” che fremeva dalla voglia di dire, dall’altra invece l’eccitazione cresceva e non era per merito del caso. Non soltanto.
«Ripetimi ancora una volta tutto quello che sappiamo» gli chiese, con fare pacato e cercando disperatamente una tranquillità che non veniva «io ti ascolto.»
«Sei sicuro che non vuoi restare solo? Magari se andiamo in camera puoi…»
«No» lo interruppe, con fermezza. «La tua voce mi aiuta a pensare più velocemente.» E, una volta che ebbe detto questo, si lasciò cadere contro lo schienale della panca che lo ospitava. Gli occhi chiusi. Le dita congiunte sotto al mento e una posa meditativa sul viso. Non avrebbe più riposto, a meno che un qualcosa non gli avesse indicato la via giusta da prendere. Davanti a sé già scenari differenti andavano formandosi mentre le forme aggraziate di Mary Elisabeth assumevano contorni ipotetici, ma affatto reali. La vedeva distintamente, una donna senza volto riversa a terra. Era un omicidio? Di certo, ma per quale ragione un qualcuno avrebbe dovuto assassinare una giovane donna tanto devota al Signore e al proprio lavoro? Domande, tante che nascevano e morivano in quel suo palazzo mentale affollato di dati e questioni. Informazioni carpite dalla visita a Saint Mary, nozioni di medicina dimenticate che riaffioravano. E più rifletteva, più la soluzione a quel mistero sembrava aggrovigliarsi. Adesso, una matassa informe di fili non più tesi andava arricciandosi nel suo cervello mentre una sirena d’allarme gli risuonava ovunque. Ti amo, John. Pensò, allontanando nell’immediato l’immagine di se stesso che urlava quelle parole. Ancora quella faccenda, si disse con stizza. Ancora i dannati sentimenti a offuscargli la mente. Forse era davvero meglio ritirarsi nella propria camera e riflettere da solo. Dopo, però, la voce calma di John arrivò alle sue orecchie. Bastò quella a calmare tutto quanto, e a lenire tormenti e dubbi. La sirena smise di suonare e il palazzo mentale tornò alla quiete. Tuttavia, il cuore continuava a galoppare.

«Le sole notizie che sono riuscito a trovare provengono da un vecchio giornale e da una serie di articoli pubblicati sullo Strand Magazine risalenti al 1899, quando un famoso investigatore di Londra sembrava intenzionato a riaprire il caso. Purtroppo non ebbe fortuna e il mistero rimase irrisolto. Comunque, sappiamo poche cose ma magari potresti riuscire già a capirci qualcosa. Elisabeth era profondamente religiosa, tanto che ebbe degli screzi con Mrs Barrymore riguardo a qualche ritardo. Sembra che la signora Barrymore non ne fosse informata, a Londra non aveva mai fatto un giorno di ritardo. Ma da che viveva a Charlbury la sua fede si era riaccesa, sembrava che tardasse sul lavoro per partecipare alle messe e quando non c’erano funzioni, si confessava. Il che accadeva proprio giù a Saint Mary. A parte questo non ebbe mai litigi con nessuno, né col personale della casa, né con Mr Barrymore (con il quale aveva un rapporto puramente professionale). Teneva contatti epistolari regolari con la propria famiglia ed era benvoluta da tutti in paese. Si occupava dei due figli e nel tempo libero amava fare passeggiate. Secondo le osservazioni del detective che ha riaperto il caso, Elisabeth perdeva spesso il senso del tempo. Per questo motivo, il giorno della sua morte, nessuno a casa Barrymore si allarmò nel non vederla rientrare dopo il tramonto. Passata l’ora di cena pensarono si fosse già ritirata, come faceva ogni tanto. Venne ritrovata il mattino successivo alla sua scomparsa, esattamente sotto alla torre campanaria. Era in posizione riversa a terra e il viso era coperto di fango, forse per via della pioggia e del terreno umido. In un primo momento la polizia pensò che si fosse gettata dal campanile.»
«Impossibile» se ne uscì Sherlock. Aveva parlato a voce non troppo alta, con tono calmo e deciso. Un ghigno furbo a tender le labbra, lo sguardo acceso di furbizia. «Mary Elisabeth non è morta a causa di una caduta e non ho bisogno di vedere il cadavere per affermarlo con certezza. Anzitutto la torre non è tanto alta da provocare una morte e poi il tetto della chiesa avrebbe attutito la caduta.»
«Che è quel che ha ritenuto possibile anche la polizia di allora, però le cose si sono complicate invece che risolversi. L’autopsia rivelò una ferita alla nuca, ma secondo il medico non era mortale e aveva alcuni lividi all’altezza del braccio sinistro. Nessuna traccia di strangolamento e non c’erano altre ferite o ematomi, inoltre il pallore cadaverico non mostrava sintomi di avvelenamento. Per questo pensarono a un malore dovuto a cause sconosciute, come un problema cardiaco o di nervi. Così archiviarono il caso. E questo è tutto, certo non è molto ma...»
«Non lo è» affermò Sherlock, aprendo di scatto gli occhi e puntandoli direttamente su un John che quasi deglutì a fatica. Non era stato dolce, non adesso almeno. E aveva parlato tenendo fisso lo sguardo nel suo. Si era proteso in avanti e ora le dita stringevano con forza i due lati del tavolo, addosso aveva quella frenesia che soltanto un mistero era in grado di dargli. C’era dell’altro, ne era sicuro. Lo sapeva. E doveva essere la prova più importante. Ne era certo perché ormai poteva dire di conoscere John a sufficienza, da sapere quando mentiva su qualcosa. Forse non lo stava neanche facendo apposta, o con cattiveria. Magari pensava che non fosse un dettaglio importante. Però c’era.
«Come fai a…» balbettò. «Anzi, sai che ti dico? Che nemmeno te lo chiedo come hai fatto a capirlo. Sì, hai ragione. C’è dell’altro, ma non pensavo fosse importante.»
«Che cos’è, John? Cosa?» insistette, incalzandolo. Era frenetico e furioso, quasi. Tanto che era balzato in piedi e lo sguardo gli si era acceso di furia. Sherlock Holmes bruciava dalla voglia di sapere, dal desiderio di conoscenza. Aveva capito qualcosa, inconsciamente doveva esser già arrivato alla soluzione ma per colpa di quei dannati sentimenti, ancora tutto faticava a prender forma.
«Un pezzetto di un foglio strappato, nella mano sinistra di Elisabeth» precisò, annuendo piano «la scritta era a penna ed era a malapena leggibile a causa della pioggia che aveva sciolto l’inchiostro, ma fu abbastanza affinché si capisse.»
«E che cos’era? Cosa c’era scritto?» ringhiò e sì, a fronte di tanta durezza lo vide indugiare. Tacere per quello che pareva un secolo. Fu un istante, ma fu eterno. Impossibile afferrare lo scorrere dei secondi. Seppe soltanto che quando parlò, poco più tardi, parve essere trascorso un secolo.

«Mozart, Fantasie» gli disse. Non sembrava troppo convinto, deglutiva imbarazzato e si grattava la nuca. Era evidentemente confuso, ma egoisticamente, Sherlock non si stava più preoccupando per lui. Ottenebrato dalla furia appassionata con la quale si dedicava sempre ai casi si ritrovò a ridere di gusto. E a lasciarsi andare a una sincera felicità. Aveva capito ed era così ovvio… ma invece che dirgli quel che aveva intuito, indossò il cappotto e indietreggiò in direzione della porta, che spalancò con violenza. L’ultima cosa che disse prima di correre sotto la pioggia battente, fu proprio ciò che lo terrorizzava. Quello che temeva e che lo spaventava a morte ormai da mesi. Non voleva, una parte di lui non avrebbe mai voluto provare sentimenti. Eppure c'erano ed erano forti, potenti. E quindi glielo disse allora, seguendo l’istinto. Un moto d’irrazionale passione lo travolse, facendogli mancare il fiato. Una manciata di attimi più tardi, si voltò indietro. Gli occhi posati su di un confuso John, che ancora sedeva al tavolo e che lo fissava in rimando senza capire dove diavolo stesse andando con un temporale del genere.
«Ti amo» urlò, in modo sgraziato «ti amo così tanto, John Watson.» Poi, Sherlock Holmes prese a correre sotto la pioggia battente. Il mondo doveva aver cessato di esistere, così come il suo cuore aveva smesso di battere. E preso com’era da se stesso, neanche si accorse di John che correva appena dietro di lui. John che rideva, ubriaco di felicità.
 
 
 
 
Continua
 
 
 

*Charlbury, cittadina della contea dell’Oxfordshire a pochi chilometri da Oxford. Tutto ciò che Sherlock e John visitano nella cittadina esiste veramente, anche il festival della birra che si tiene a giugno. Mi sono però inventata il delitto di Mary Elisabeth. Tutte le info su Charlbury le ho prese da Wikipedia mentre le informazioni sulla chiesa e sulla torre campanaria le ho reperite qui.

Note: Mozart, Fantasia in re minore. Uno dei componimenti mozartiani più particolari. Pur essendo stata composta nel ‘700, la composizione ha spiccati tratti romantici. Tanto che in alcuni passaggi sembra d’ascoltare Beethoven o Chopin.

E niente. Questa settimana è stata difficilissima, oltre alla febbre ci si è messa pure l’indecisione. Doveva essere un epilogo, ma il capitolo ha preso vie traverse e la nuova piega mi piaceva davvero. Avrei potuto concludere la storia con questo capitolo, aggiungendo alla fine un’ulteriore paragrafo, ma mi sembrava affrettato e poi ho in mente una scena che voglio scrivere. Pertanto la storia finirà col prossimo, mi dispiace per questo disguido.
Koa
   
 
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