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Autore: Mikirise    15/04/2018    1 recensioni
"Appunta sul calendario il giorno dei suoi primi passi. 21 Aprile. I primi passi dell'indipendenza, dice sempre. Un minuto prima camminano incerti per il salotto, il minuto dopo, eccoli con la loro ribellione adolescenziale. Peter riderà della melodrammaticità, poi ribatterà con un non dovrei ribellarmi se le vostre regole non fossero così stupide! Finiva così Le mani di papà. Con un'enorme disegno delle mani del papà che lascia andare il proprio bambino."
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Peter Parker/Spider-Man, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Steve rimane seduto sull'angolo del letto già riordinato, guardando la finestra non ancora illuminata dalla luce del sole. Non ci sono uccellini a cantare, e non c'è il vento che spinge contro le ante. Non c'è nessun albero dall'altra parte del vetro, nessuna radio-sveglia a riempire il silenzio dell'appartamento. Ci sono i rumori della città, però. Macchine, il vociare indistinto di troppe persone che sono sveglie troppo presto. O tropo tardi. Ci sono le sue finestre, delle tende di un azzurro chiaro, un sole che sta iniziando a sorgere. E quindi lui si passa una mano tra i capelli, dedica alla giornata un mezzo sorriso e si alza in piedi, prendendo un respiro profondo, alzando le mani in aria e stirandosi la schiena. È un'altra giornata, si dice spostando le tende e poi piegandosi a prendere un paio di scarpe.

La mattina ha un suo ritmo. Una routine che ha imparato a riconoscere durante il suo addestramento e che anche nella sua vita da civile non riesce a scrollarsi di dosso. Non capisce se questa sia una benedizione o una maledizione. Sa che è passato da un tipo di vita al suo completo opposto e che gli piace sapere che c'è una costante in lui, nelle sue giornate. Lo fa sentire un po' più sicuro. Quindi esce la mattina per correre, quando per le strade di Brooklyn ci sono soltanto i netturbini e poliziotti a fine turno. Non ascolta la musica, non ha cuffiette, non ha walkman, o iPod, o cellulari con musica, quindi si limita ad ascoltare il suono delle persone intorno a lui, e il suo stesso respiro. Corre. Corre tantissimo la mattina, abbastanza da poter ammirare il cambiamento di colori in cielo, da studiare quante sfumature sono cambiate da ieri a oggi, quanto l'inquinamento stia cambiando i colori. E quanto il cielo sia stato colonizzato dall'uomo. Poi, quando sente le prime televisioni accendersi, torna a casa, sempre correndo.

In casa passa la maggior parte delle sue giornate. Si fa la doccia, si prepara la colazione, ascolta i messaggi in segreteria, che sono stati lasciati nei giorni prima, oppure durante la notte, quando non ha voglia di rispondere. Natasha è la persona che più lascia messaggi vocali. Sono brevi, coincisi, finiscono sempre con la stessa domanda, mascherata da comando. Va tutto bene. Il secondo a lasciargli più note vocali è Sam. Sono più lamenti che veri e propri messaggi e si chiede sempre perché li lascia, visto che siamo nel ventunesimo secolo, Steve. Steve ride sempre dopo aver sentito le ultime avventure di Sam e Bucky in giro per New York. E anche oggi ride. Apre gli sportelli della credenza e aggrotta le sopracciglia, perché era sicuro di aver fatto la spesa il giorno prima. Apre il frigo e le sopracciglia le aggrotta un po' di più.

Si gratta la testa e deve dirsi che i giorni gli sembrano tutti uguali, forse è per questo che gli è sembrato di aver appena fatto la spesa, quando non è decisamente così. Davanti al piano di cottura c'è scritto ricorda di comprare il pane, e Steve scuote la testa e sorride a se stesso. Forse è questo il problema.

È passato da uno stile di vita al suo completo opposto. Deve ancora abituarcisi.

Quindi si gratta la nuca, sorride a se stesso, scrolla le spalle e prende la giacca che ha lasciato sulla sedia della cucina. Se la infila e controlla che dentro ci sia ancora il suo portafogli e le chiavi (il che è stupido, perché non vive più con Bucky, nessuno può spostargli le cose). E poi decide di uscire di nuovo di casa.

C'è rumore per le scale condominiali. Questo è insolito, pensa, perché in questo condominio ci sono per lo più aziende, agenzie, studi medici, architettonici e legali, almeno gli hanno detto così. Non ci sono bambini. Non dovrebbero. Chiude la porta dietro le sue spalle, gira due volte le chiavi e scuote leggermente la testa. Deve essere stata la sua immaginazione, oppure un bambino ha un appuntamento con un dentista decisamente troppo presto la mattina. Steve ha sempre odiato gli appuntamenti dentistici. Quindi non ci pensa più. Deve fare la spesa, deve uscire dal condominio. Ma il vociare persiste e non può fare altro se non girare la testa. Non sapeva ci fossero bambini. Di solito è attento a questo tipo di vociare. Non lo sapeva proprio.

“Baba babà baba babà baba” grida un bimbo con uno zainetto colorato di blu e rosso in spalla, un cappuccio in testa, correndo per il corridoio come se non potesse farsi male.

“Sì, sì” mormora un uomo dietro di lui, con le mani in tasca e un mezzo sorriso.

“Guarda!” grida il bambino e salta in aria, cercando di dare un calcio alle sbarre del condominio, e poi tenendosi il piede in mano, perché a quanto pare si è fatto molto male. Ma non piange. Si gira verso il papà, posa il piede dolorante a terra e gli dice, con tutta la solennità che un bambino può averr: “Sono un ninja.” E la cosa fa sorridere il papà, per poi farlo decisamente ridere, e questo semplice sorriso illumina il viso del bambino, che decide di correre avanti, con le mani stese verso dietro, puntando l'ascensore. Il papà sospira.

Steve è ancora in piedi davanti alla sua porta. Il bambino corre verso di lui e si ferma a studiarlo. Sembra molto piccolo. Sembra pieno di energie. Steve gli sorride, ma il bambino non sorride. Lo studia in silenzio, con quello che gli sembra una maschera bianca in mano. Inclina la testa, assottiglia lo sguardo, come se fosse un adulto in una faccenda da adulti. Poi, dopo qualche secondo di intenso studio, gli sorride, mostrando i dentini ancora da latte, tranne uno laterale, che sembra star spuntando a fatica. Il bambino perde interesse in lui e riprende a correre verso l'ascensore.

“Peter” lo chiama dolcemente il papà, ma senza accelerare il passo. Fa un cenno col capo a Steve, Steve lo imita, e poi torna a camminare verso il bambino. Appena davanti all'ascensore che non sembra voler arrivare, gli posa una mano sulla testa e gli dà un buffetto che sembra il gesto d'affetto più intimo che un genitore possa fare. “Li metti gli occhiali da sole?”

“Baba” risponde il bambino, allungando le vocali, come se avessero già affrontato miliardi di volte questo argomento. Si guarda intorno e abbassa la voce. “Io sono un ninja” ripete e continua a cantilenare le vocali. Steve deve nascondere un sorriso, mentre si infila le chiavi in tasca e si muove verso le scale. “Yatta! Yatta! Yatta!” grida il bambino e probabilmente sta mostrando al papà delle mosse da vero ninja che deve aver imparato in televisione. C'è lo sbuffo leggero che sa di risata. “I ninja non si mettono i cappotti!” Inizia a scenderle. Steve odia gli ascensori. Lo fanno sentire in trappola. Non ne prende uno da veramente molto tempo, e preferirebbe non prenderne uno mai più. “Ma così mi rovini lo stile da ninja!”

Dopo le porte dell'ascensore si chiudono e non si sentono più i capricci del bambino. Steve scende le scale in silenzio. Non ha un cellulare, o un walkman, o un iPod. Di solito si concentra sul rumore del suo respiro.







Scott tiene tesi gli indici, che vengono afferrati dalla piccola Cassie, come se questo fosse un riflesso incondizionato, e forse lo è per davvero. Deve segnarselo. Per dopo. Quando avrà tempo di studiare. O di dormire. Tony si è ripromesso di leggere e studiare di più sui libri di Psicologia per essere sicuro che suo figlio faccia il suo percorso evolutivo e che niente vada storto. Sa che rivolgersi alla Psicologia -ugh, anche solo pensarci gli fa venire un dolore assurdo al petto, perché è l'equivalente scientifico di, cosa?, l'astrologia? A questo punto, tanto vale portare Peter sulle rive del mare e aspettare che un'onda gli dica se suo figlio è destinato a grandi cose o no. Magari alla fine scopre che in realtà la madre di Peter è una specie di ninfa. Ah. Arriviamo a questi livelli. Ugh. La bambina, che non riesce nemmeno a tenersi sulle proprie gambe, apre la bocca con due o tre denti e ride, aggrappandosi alle dita del papà, che ride a sua volta, prima di girarsi verso Tony e Janet, alzando le sopracciglia e facendo cenni con la testa, per far capire loro quanto si senta emozionato al vedere sua figlia aggrappata alle sue dita.

Tony sospira e cerca di alzare un lato delle labbra. Abbassa lo sguardo verso Peter, che sta a pancia in giù sbava sulla manina e alza la testa per guardarlo e continuare a vocalizzare. Non è neanche sicuro che sia normale che vocalizzi così tanto e si sente male al pensiero di non aver pensato a questo dettaglio prima. Si china verso di lui, e Peter, vedendolo un pochino più vicino apre la bocca e ride, lanciando un gridolino felice. Tony si inumidisce le labbra e Peter torna a vocalizzare felicemente.

“È un residuo biologico dell'evoluzione” sta dicendo Scott, continuando a tenere Cassie per aria, aggrappata a sole due dita. “Ma lei è la scimmietta più bella del mondo, vero Casseruola? Vero piccola Casseruola?” Prende la bambina da sotto le ascelle e la fa saltellare, prima di farle delle pernacchie sulle guance. Cassie ride. Poi allunga le manine per raggiungere il viso del papà, e Scott l'abbraccia e poi prende a cullarla con una naturalezza che Tony un po' gli invidia. Janet tiene Nadia appoggiata sul suo corpo in un mezzo abbraccio mentre giocano con dei cubi che si sono portati da casa. Ci sono molte lettere e decisamente troppi colori. Janet dice che Nadia le sembra una bambina decisamente precoce. Dice anche che non saprebbe dire se questa sua impressione venga dal fatto che Nadia è figlia di Hank, o perché effettivamente la bambina lo è. Intende molto intelligente. Poi ride nervosamente, portandosi la mano davanti alla bocca e cambia argomento.

Peter rimane sdraiato a pancia ingiù. Tony non lo perde di vista un attimo, è abbastanza vicino da afferrarlo se mai succedesse qualcosa di potenzialmente pericoloso, ma quando si tratta di prenderlo tra le sue braccia senza altro motivo se non che vuole tenere suo figlio in braccio, avere un contatto per creare una relazione, Tony si blocca. Si morde l'interno delle guance e porta la mani sulle caviglie, assottigliando lo sguardo per abituarsi all'improvvisa luce che il sole ha portato con sé. Peter continua a vocalizzare, prendendo in mano il lenzuolo sul quale è sdraiato.

“Come va con la tua ex-moglie?” chiede Janet, posando davanti a Nadia due cubi di due colori contrastanti. Nadia li afferra, studiandoli con un adorabile broncio sulle labbra e la fronte leggermente corrugata.

“Continua a dire che sono un'irresponsabile” risponde Scott tranquillamente, posando Cassie sulle sue ginocchia.

Tony fa una smorfia. “Aiuterebbe smettere di finire in prigione. Non dico di rubare, ma almeno di farti beccare...”

Janet ridacchia, ma scuote la testa, girandosi verso Scott. “Magari trovare un lavoro potrebbe aiutare” commenta, tornando a guardare i cubi davanti a loro e studiando come Nadia continua a sistemarli in fila, come se volesse lasciarle un messaggio segreto. Solo che IOZIK non è una parola, non che Tony sappia. Deve fare altre ricerche.

“Certo che potrebbe aiutare” risponde Scott con uno sbuffo. “Il problema è che appena scoprono che sono un pregiudicato mi tolgono il lavoro. Guardate, ero riuscito a trovare un posto alla gelateria davanti alla casa di -della mia ex-moglie. E non era il massimo, ovviamente non era il massimo, ma mi dava abbastanza tempo per stare con la mia bellissima scimmietta.” Scott abbassa la testa per baciare i capelli della bambina, “e forse non potevo pagare ancora la quota mensile ma...”

Tony sospira e ruota gli occhi. “Se il problema è trovare un lavoro, puoi lavorare con me” propone, lanciando un'occhiata veloce a Peter. Dovrebbe prenderlo in braccio? No? Sì? Il bambino continua a vocalizzare imperterrito. Alza la testa e si ferma per guardare i movimenti delle mani di Tony. “Voglio dire, lo stipendio non sarebbe granché, non ancora. La start-up ha appena un anno, e in questo momento ci lavoriamo solo io e Bruce, e nessuno dei due è un ingegnere informatico. Voglio dire, io sono un genio, ma avere un'altra persona che sa che cosa stiamo facendo non farebbe male, ecco.”

Scott non sta più respirando, quando Tony si gira verso di lui e Janet sta sorridendo, come se fosse fiera di loro, anche se non saprebbe esattamente per quale motivo precisamente. “Stai dicendo sul serio?” gli chiede con la voce leggermente più acuta, stringendo Cassie che inizia a protestare vigorosamente.

Tony sbatte lentamente le palpebre. “Non posso nemmeno prometterti uno stipendio alto, okay?, ma almeno puoi portarti dietro Cassie. Bruce e Clint sono molto bravi coi bambini. Clint ha nel suo appartamento una culla. Mi aiuta con Peter la notte.” Scrolla le spalle. “Quindi forse...”

“Non m'importa dello stipendio” lo interrompe con la voce strozzata.

“Ah, meno male” borbotta Tony. Aggrotta le sopracciglia e continua a guardare intensamente Peter. Stringe le mani in due pugni. Peter lo guarda e ride. Stringe anche lui le manine in due pugni, stringendo il lenzuolo. Ride ancora, aprendo la bocca. Lancia un gridolino. Tony alza un lato delle labbra.

Scott sta abbracciando Cassie, ripetendo qualcosa su come sia eccitato di andare a lavorare con lo zio Tony, cosa che è anche abbastanza dolce e triste, perché Tony non sa veramente quando riuscirà a dare a Scott lo stipendio che si meriterebbe. Janet gli dà una piccola spallata gentile. “Lo puoi anche coccolare un po', sai?” gli chiede scherzosamente.

Tony aggrotta le sopracciglia e continua a guardare Peter. Rimane bloccato. Si morde nervosamente le labbra e cerca di respirare. Solo respirare. “Lo so” mormora, ma rimane bloccato. Janet gli posa la testa sulla spalla. Nadia ha scritto SNEGOVIK. Ancora, non sa se questa è una vera e propria parola. Deve controllare. Studiare alcune lingue in più. Sa che sicuramente non è una parola cinese, di questo ne è sicuro.

Peter rimane sdraiato a pancia ingiù.






C'è una macchia di muffa sul suo soffitto, si rende conto, sdraiandosi sul divano, con le mani dietro la nuca. Sono le tre del pomeriggio. Ha appena finito di mangiare. Potrebbe fare due cose, si dice, chiudendo gli occhi ed espirando profondamente. Potrebbe dormire. Chiudere gli occhi e decidere di addormentarsi. Ed è un buon piano, perché non ha dormito molto negli ultimi -negli ultimi tre anni, probabilmente. E forse è stanco. La copertina del magazine è pronta, basta solo inviarla, un po' di riposo se lo potrebbe anche permettere. Tiene gli occhi chiusi. Aggrotta le sopracciglia. Inspira. Espira. Dormire sembra una buona idea. O potrebbe concentrarsi su qualcos'altro. Fare i pesi. Fare esercizio fisico. Scaricare lo stress. Inspira. Espira.

Potrebbe anche dormire però. C'è una macchia di muffa sul soffitto. Dovrebbe chiamare Clint. Parlare anche con gli inquilini sopra di lui. La macchia potrebbe espandersi. È probabile che si espanda.

C'è un rumore al di là delle mura. Qualcosa che cade. Steve scatta in piedi e la sua testa va qua e poi va là e controlla che niente sia cambiato nel suo appartamento. Solo per poi ricordarsi di essere nel suo appartamento. Al sicuro. Ha mantenuto il respiro, nemmeno se n'era reso conto. Ci sono delle voci soffuse. Riesce a sentire un stai bene? che non viene seguito da risposta. Su su, sente ancora ed è incredibile. Quanto sottili sono queste mura se riesce a sentire così tanto? Anche questa è un'informazione che non gli avevano dato. Ha paura che sia un'informazione vitale, almeno per lui. Ehi, campione, va tutto bene. Forse non può dormire. Forse ha perso la capacità di dormire. Il diritto di dormire.

Dovrebbe parlare con Natasha, chiederle se ha voglia di uscire, o di parlare, o di fare qualsiasi cosa che fanno le persone normali nei giorni d'oggi a Brooklyn. Gli sembra che sia cambiata così tanto la sua Brooklyn. Non gli sembra più di essere nato e cresciuto lì. Perché le cose continuano a cambiare? Si avvicina al comodino e prende in mano il cellulare. Lo rigira un paio di volte. Forse non dovrebbe chiamare Natasha, forse ha da fare coi suoi pazienti. Potrebbe chiamare Sharon. Sam. Bucky.

Bucky.

Rigira il cellulare tra le mani. Potrebbe chiamare Bucky? Si butta di nuovo sul suo divano, sdraiato, cerca di controllare il respiro. Non potrebbe chiamare nessuno di loro, vero? Perché se c'è qualcosa che non va, prima di cercare qualcun altro deve calmarsi. Perché non ha notato quella macchia di muffa prima di prendere la casa? Si stropiccia l'occhio con il palmo della mano.

Non ti preoccupare, va tutto bene, sente dire al di là del muro e sorride. Magari c'è un corso per diventare ninja. Chiude gli occhi. Karate secondo te va bene? Il suo respiro si regolarizza. E io che volevo un figlio che faceva taekwondo. Perché lo sta calmando così tanto? Certo che so fare il taekwondo. È l'ultima frase che riesce a sentire, prima di entrare in un torpore simile al sonno. Un sonno vuoto.






Tony si tiene la testa tra le mani e Peter sta dormendo nella sua culla. È seduto per terra, la schiena poggiata alle sbarre di legno e Bruce è in piedi alla porta, con quelle sue sopracciglia aggrottate e le labbra semi-aperte, come se volesse dire qualcosa, ma non ci riuscisse, il che è un bene. Potrebbe essere un bene.

Tony alza la testa, per guardarlo negli occhi e poi non riesce a guardarlo negli occhi, e quindi li chiude. Prima guarda in basso, poi li chiude. “Bruce” dice a bassa voce, strofinando le mani contro i pantaloni e poi sospirando pesantemente. “Non riesco a tenere in braccio mio figlio” mormora. E questo è veramente patetico, stupido, da persone rotte. “Forse aveva ragione lei” continua dopo qualche secondo, quando si rende conto che Bruce non sa che cosa dire. In un certo senso, beh, Bruce è la persona più appropriata con cui parlare, perché non risponde, non saprebbe come fare e quindi ti lascia parlare. “Forse io non...”

“Davvero?” chiede Bruce, assottigliando lo sguardo. Ha le braccia incrociate davanti al petto e ha anche la voce dura. Tony si tira inconsciamente indietro, sbattendo velocemente le palpebre, come se fosse stato colpito da qualcosa. “Lo pensi davvero?” Non sembra esserci giudizio nella voce di Bruce, non uno diretto a Tony. C'è solo tristezza. Un po' di amarezza. Non era quello che voleva dire.

“No.” Si accarezza il collo, lancia uno sguardo veloce alla culla. “No ma...” Tira indietro la testa. Perché non è rimasto a dormire? Perché non si è addormentato, non ha afferrato l'occasione, non ha deciso di non pensare a Scott che fa le pernacchie a Cassie e che ha quella relazione così naturale con sua figlia, nonostante sia un'idiota che non riesce nemmeno a non farsi beccare per piccoli furtarelli? Ha la gola bloccata. Perché lui non ci riesce? “Non riesco a tenere in braccio mio figlio” ripete e la voce gli si spezza all'ultima sillaba. È quello il problema principale. Perché lui non riesce a cullare suo figlio? Perché ce la fanno tutti e lui no? Perché si deve ritrovare a fallire sempre nelle cose più importanti? Prende un respiro e scuote la testa. Perché non può essere la persona giusta?

Bruce sospira e si accarezza la fronte con due dita.





“Oh” risponde Clint e qualcosa lo colpisce alla nuca, motivo per cui si gira verso il suo appartamento, infastidito. Steve deve resistere all'impulso di lanciare uno sguardo veloce oltre le sue spalle. Abbassa lo sguardo e sospira, cercando di essere il più discreto possibile. “Smettetela” mormora Clint, poi si gira verso di lui. “Quindi la muffa” cerca di riprendere il filo del discorso, cerca anche di sorridere. “Scusami ma -” Viene colpito di nuovo alla nuca, questa volta da una piccola palla rossa, quindi ruota gli occhi e si gira di nuovo, dandogli le spalle. “Kate!” grida entrando nel suo mini-appartamento. “Davvero?”

“Non sono stata io!” grida una bambina, che Steve riesce a guardare soltanto di sfuggita. I capelli le arrivano a malapena alle spalle e c'è un bambino che gli sembra familiare, che gioca seduto sul tappeto. “Non sono stata io!” ripete e Clint sospira, si gratta la nuca, alzando il gomito e girandosi verso di lui.

“Sembra un asilo qui” mormora, alzando un lato delle labbra. “Sì, comunque, non ci vuole nulla, questa sera, o domani mattina passo per il tuo appartamento e sistemo la faccenda. Non dovrebbe essere niente di molto problematico. Gli inquilini di prima, quelli che vivano nel tuo appartamento, non mi hanno mai chiamato, erano tipi abbastanza loschi. Se lo chiedi a me, spacciatori, ma ehi, chi sono io per giudicare? Quindi saranno due... forse tre anni dall'ultima manutenzione.” Scrolla le spalle.

Steve annuisce in risposta e lancia uno sguardo alle sue spalle. “Non sapevo avessi una famiglia.”

“Oh, non ci scherzare neanche” risponde Clint, ridendo. Infila le mani in tasca e questa cosa a Steve non piace, perché lui razionalmente sa che Clint Barton non è armato, che non farebbe male a nessuno, che sta solo parlando con lui, normalmente, come il civile che è, ma il suo corpo non lo sa. La sua reazione fisiologica non è razionale. Sente l'adrenalina. Sente il battito cardiaco accelerare. Sente i muscoli tesi. E si sta ripetendo che non ha problemi, che andrà tutto bene, che non deve attivarsi in questo modo, ma niente sembra funzionare. Trattiene il respiro, studia i movimenti del corpo dell'uomo davanti a lui. “Guarda, io non ho nemmeno i genitori e mio fratello ugh. Questi sono i bambini del condominio.” Clint aggrotta le sopracciglia. Sta pensando. Steve stringe i pugni. “Non tutti. Non penso che potrebbero stare qui tutti quanti. Sono i bambini della 21 e della 18B. Kate, Peter e Cassie. Peter e Cassie però sono qui -” alza la voce, gira la testa verso il suo appartamento “-con il permesso dei loro papà, al contrario di Kate.”

“Ad averlo visto mio papà!” risponde la bambina, gridando.

Clint ruota gli occhi. “Tra poco devi comunque andare a danza, signorina, quindi invece di continuare a giocare...”

“Yada yada” rispondono in coro i bambini e Clint aggrotta le sopracciglia e lancia un'occhiata a Steve, come a chiedergli che lingua i bambini stiano parlando. Steve scuote la testa. A volte non sa nemmeno in che lingua parlano gli adulti. Clint sbuffa una risata e tira fuori le mani dalle tasche. Steve può tirare un sospiro di sollievo e Clint lo studia, arricciando leggermente le labbra.

“Scusa” mormora e sembra essersene reso conto. Delle mani. Del respiro. È veramente imbarazzante. “Non ci avevo pensato. Comunque, se vuoi puoi accompagnarci alla scuola di danza, così finalmente ci liberiamo di Kate e poi porto Peter e Cassie da -che ore sono?” chiede e non aspetta una risposta, torna dentro l'appartamento e sbuffa. “Perché ancora non indossate le giacche?” Appena scompare dal suo campo visivo Steve sembra riuscire a respirare di nuovo, riesce a rilassare i muscoli.

Stava sudando. Non se n'era reso conto prima, ma a quanto pare adesso sì. Ed eppure sa di essere al sicuro. Ed eppure sa che non potrebbe succedergli niente per mano di Clint Barton. “Forse è meglio se io...” inizia a dire e sente qualcosa cadere per terra. Per questo scatta di nuovo sull'attenti e corre dentro la casa, che è piccola, che sembra decisamente piena, messa in disordine. Sbatte le palpebre. “Cosa...?” inizia a chiedere, ma una bambina coi capelli corti lo ferma. Lo ferma fisicamente, posando le mani sulla sua pancia e spingendolo indietro con la forza che una bambina di cinque anni può avere.

“Succede sempre” dice. Lancia uno sguardo dietro di lei e sospira, mentre l'altra bambina, che deve essere la piccola Kate, a questo punto, sistema le sue cose dentro lo zaino.

Anche Clint sospira e sparisce dietro una porta, solo per poi tornare con un kit di pronto soccorso.

Il bambino, Peter, rimane seduto sul tappeto, occhi vuoti e mano sulla testa, mentre un graffio sulla fronte inizia a sanguinare giusto un po'. La cosa che però sembra strana a Steve è il suo non dire niente, non piangere. Si tiene solo la mano sulla fronte, a toccare la sua nuova ferita, e non guarda niente, se non il muro davanti a sé. Clint si inginocchia davanti a lui e gli toglie delicatamente la manina dalla fronte. Steve aggrotta le sopracciglia. Non sembra una cosa normale, un bambino così immobile con un graffio.

“Sta bene?” chiede a Cassie, che sbatte i suoi occhioni e lo guarda con la testa inclinata.

“Oh, sì. Deve solo ricaricare le batterie” spiega, dando un passo indietro e poi sorridendo. “Zio Tony dice sempre così.” Poi si affianca a Kate, che sta sistemando gli zaini di tutti e tre. Clint chiude il kit del pronto soccorso e sospira. Lo sente mormorare qualcosa che non riesce a capire. Poi gli lancia un'occhiata, scrolla le spalle. È una cosa strana da dire, pensa Steve, almeno, per una persona.

Fa pensare a un piccolo robot, una specie di Pinocchio dell'epoca moderna. Un bambino che rimane immobile, a guardare il vuoto, mentre il suo papà macchinista lo ricarica, con un abbraccio, o con una presa elettrica e un filo, nascosto chissà dove.






Tony ha le sopracciglia aggrottate e stringe forte il pomello della porta e il mondo sembra essersi fermato per qualche secondo. Forse si è fermato lui. Jarvis lo osserva con un'ombra di sorriso e si avvicina quel tanto che serve per avvisarlo che lo sta per abbracciare. Tony non si muove, non ha la forza, o abbastanza elementi per capire di non star dormendo. Quindi si ritrova in un abbraccio col suo ex-maggiordomo e poi si rende conto di quanto tempo sia passato senza che lui si facesse una doccia, o da quanto tempo non tocca acqua e un po' si vergogna della sua situazione, ma Jarvis non sembra volersene lamentare.

Lo supera, entra nell'appartamento, studia ogni angolo, ogni mobile e Tony chiude la porta e ancora non hanno parlato. E Jarvis non dovrebbe trovarsi lì. Il primo istinto di Tony, passato il torpore della sorpresa è correre verso Peter, nel suo seggiolino, che allunga le manine per giocare con le stelline sopra di lui, e scappare. Non saprebbe esattamente dove, non saprebbe esattamente come, e non saprebbe nemmeno dire esattamente il perché, ma è anche vero che a questo punto della sua vita ricorda a malapena il suo nome ma che la sua testa continua a correre nello stesso modo in cui ha corso per tutta la sua vita. Quindi quello che pensa, quello che dice, quello che fa, è un agglomerato di tante idee che non pensa abbiano capo o coda. Tutto bene, insomma. Jarvis continua solo a studiare il suo appartamento. Posa una mano sul pianoforte e poi lancia un'occhiata al bambino che ha spostato la sua attenzione verso la mano. La tiene chiusa. Non sa come riaprirla.

“La sua casa è a prova di bambino” commenta e Tony sbatte le palpebre e, certo, verissimo, ha iniziato ad adattare l'appartamento ai tre mesi di gravidanza, quando ha saputo che Peter sarebbe nato. Che sarebbe cresciuto con lui. Ha sistemato la sua cameretta, poi ha fatto in modo che non cadesse per le scale, poi ha coperto ogni spigolo della casa. Clint vole che facesse un baby shower. Quando è stato? La gravidanza era ormai alle trentotto settimane, gli pare, sì, certo. Lo ricorda. T'Challa è entrato nel suo appartamento e lo ha preso in giro per tutto il tempo. Poi gli ha scompigliato i capelli e ha riso e ha detto qualcosa che... Jarvis si piega accanto a Peter, che lo osserva, prima di riaprire la mano. Quando Jarvis gli offre le sue dita, stringe le sue manine intorno all'indice. Tony deglutisce. “Mi chiedevo per quale motivo non tornava.” Evita volutamente la parola casa. Jarvis lo trovi sempre nei dettagli.

Deve guardare verso il basso. Casa è un disastro. Lui stesso è un disastro. Tira su col naso. Sembra una risposta più che sufficiente. Anche Tony lo trovi sempre nei dettagli.

“Questo fino alla visita del signor Banner.”

Quel traditore. Tony si morde nervosamente l'interno delle guance e scrolla le spalle. Deglutisce. “Non è come pensi” riesce a dire. Infila le mani nelle tasche della tuta, prende un respiro profondo e si prepara per essere colpito. Colpito emotivamente. Jarvis lo conosce da quando è piccolo. Lo sa che non può essere capace di crescere un bambino. Lo sa che la sua non è stata la scelta giusta. Sa che aveva ragione lei. E aveva -ha ragione anche suo padre. Quindi aspetta che Jarvis lo ripeta, perché lui può essere gentile e buono e sopportarlo quanto volete, ma anche Jarvis ha un limite. Aspetta che dica: una vita umana, Tony, non puoi permetterti di pensare che questo sia il tuo ennesimo gioco. E gli avrebbe dato del tu, perché quando è arrabbiato Jarvis gli dà del tu e poi gli viene quella ruga in mezzo alle sopracciglia, che ormai deve essere permanente. È invecchiato molto dall'ultima volta che lo ha visto. Quindi aspetta. Lui che si vantava di essere la ragione delle sue rughe.

“Sono venuto ad aiutare, signore” risponde Jarvis, però, e Tony alza lo sguardo, si tira un po' indietro. Jarvis prende in braccio Peter, che ride divertito, dopo aver cercato per la stanza il suo papà. “Sono offeso al pensiero che non sia venuto a chiedere il mio aiuto prima.” Fa una pausa e sembra star annusando l'aria intorno a loro. “Credo sia per lei ora di fare una doccia” mormora. “E per questa casa di prendere aria.”





Steve apre la porta dell'appartamento e, per il corridoio del condominio, riesce a sentire un uomo dire: “Fidati, ho un master in Ingegneria.” E Clint ridacchiare, prima di iniziare a salire le scale, seguito da questo stesso uomo.

Aggrotta le sopracciglia, si guarda intorno e vede quell'uomo di qualche settimana prima -quello con gli occhiali da sole che accompagnava suo figlio probabilmente a scuola. Ah, il papà di Peter, il bambino con le batterie scaricabili. Il papà di Peter, che si sta accarezzando la fronte e sospira, posando le spalle sulla porta. Gira la testa verso Steve e gli sorride, facendo un cenno veloce con la mano. Steve ripete il gesto e la cosa, per qualche motivo, fa sbuffare una leggera risata al papà di Peter.

“Sei il nuovo inquilino” dice, e non sembra una domanda.

Steve aggrotta le sopracciglia e soppesa la frase. Vive nel suo appartamento da due mesi. Quasi due mesi. Non è uscito molto. Non conosce gli altri inquilini. Conosce i nomi di tre dei bambini che vivono lì, anche se gli era stato detto da Natasha che non c'erano bimbi o rumori troppo forti. Natasha dice tante bugie, ha scoperto. E comunque lui non aveva chiesto che non ci fossero bambini perché odia i bambini o i loro giochi. Semplicemente non pensa di essere pronto per nessun rumore forte, ancora. I bambini del condominio non provocano forti rumori, almeno non lo hanno fatto fino ad adesso. “Steve” decide di rispondere. Allunga la mano verso di lui, perché gliela stringa e l'uomo esita per uno, due, tre, quatto secondi prima di afferrargliela velocemente.

“Tony” si presenta, con mezzo sorriso e lasciandogli la mano. “C'è chi mi chiama Anthony” aggiunge soprappensiero, “ma preferisco davvero solo Tony.” Non incrocia le braccia davanti al petto. Le lascia scivolare ai suoi fianchi, non giocherella con le dita. Non sembra sulla difensiva, ma Steve sente che c'è qualcosa di nascosto. Tutto nel suo linguaggio corporeo sembra studiato. Non sembra naturale.

Steve sorride di rimando, poi lancia un'occhiata alle scale. “E va tutto bene?” chiede, perché immagina che non vada esattamente tutto bene se è fermo in mezzo al corridoio e non saprebbe come altro offrire il suo aiuto. In più c'è qualcosa. Non sa come descrivere questa sensazione, ma sente che c'è qualcosa. Corruga un pochino la fronte. Tiene la porta aperta con un piede. Ha l'istinto di tornare in casa. Fare un passo indietro, e chiudere la porta con un solo movimento. C'è veramente qualcosa nell'aria.

“Beh, sì. Solo che si è rotta l'antenna del condominio” risponde Tony, facendo un cenno con la mano e poi indicando il soffitto. “Ed è caduta sui cavi del telefono. La cosa non mi darebbe molto fastidio, se solo in questo condominio telefono e internet non fossero collegati e adesso la mia connessione è molto rallentata.”

“Oh.” È l'unica cosa che gli viene in mente, prima di ridere nervosamente. “Non me n'ero nemmeno accorto.”

“Oh, sì, certo, voglio dire, il fatto è che ci lavoro con internet e quindi...” Scrolla le spalle, fa una smorfia. Lo studia. È bravo a non farlo notare, Steve se ne rende conto soltanto perché nella sua vita da civile si deve afferrare ai dettagli per non impazzire. Si chiede perché lui sia così bravo a nascondersi, invece. Cerca di addolcire il suo sorriso. Non sa se ci riesce. “Tu, invece?” cambia argomento. Potrebbe essere una gaffe, a pensarci. “Tutto bene?”

Steve alza le sopracciglia in sorpresa, poi ridacchia nervosamente, ancora una volta. “Oh.” C'è veramente qualcosa nell'aria. “Oh, no, voglio dire sì, va tutto bene. Benissimo, davvero, solo che...” Sorride e ruota gli occhi. Sospira. “Ho sentito delle voci e...”

“Dormivi?”

“Oh, no. No no. Stavo lavorando a un...” Punta il pollice alle sue spalle e alza un lato delle labbra, in un mezzo sorriso aperto. “Stavo -stavo davvero lavorando.”

“A cosa?”

“Una -” Deve schiarirsi la gola, prendere tempo. “Una copettina non...”

Tony sorride con gli occhi. “Un artista” dice con un tono che si avvicina molto ad una cantilena. “Chi lo avrebbe mai detto.” Sta studiando ancora il suo corpo. Questa volta non si nasconde. Steve aggrotta le sopracciglia. Perché adesso avrebbe smesso di nascondersi?

“Un artista commerciale.” Si schiarisce la gola. Forse è ora che lui decida di nascondersi. Tornare nell'appartamento. “Lo dicono in modo dispregiativo” spiega, alzando una spalla.

“Un graphic designer!” esclama Tony. Unisce le mani e si gira definitivamente verso di lui. Steve sente la base del collo diventare un po' più caldo. Gli sudano le mani. “Un graphic designer che è anche un free-lance. Una mia amica -è divertente, ma questa mia amica, Janet, ha iniziato così la sua carriera da artista. Non voglio dire che -sinceramente a me piaceva molto di più quando faceva la graphic designer. Adesso la vedo a malapena.” Alza una spalla. “Ma i suoi lavori sono -erano incredibili. Mi parlavano. In realtà, penso che parlino proprio alle persone. Il logo della mia start-up lo ha disegnato lei. Scott dice che gli sembra troppo -” fa un gesto con le mani. Steve non capisce quello che vuole dire, ma annuisce, “-ma io lo trovo geniale.”

“Una start-up” ripete lentamente, con la fronte leggermente corrugata.

“Già. È un trampolino di lancio. Ci stiamo concentrando su alcuni ambiti prima.” C'è una pausa, prima che continui a parlare. Guarda dritto davanti a sé, poi lancia uno sguardo fugace all'ascensore e sorride a se stesso. “È per mio figlio” dice alla fine. “Per lasciargli qualcosa per cui essere fiero.” Sbatte le palpebre, poi sorride. “Di me, credo. E per migliorare il mondo. Le solite cose da padre.”

Steve rilassa le spalle. Non sapeva nemmeno di essere così teso. “Le solite cose da padre” ripete a bassa voce. Non ricorda suo padre aver detto o avergli fatto capire una cosa del genere. Forse per questo sorride un po' di più.

Tony fa spallucce e alza lo sguardo, verso le scale. Si deve star chiedendo quanto tempo ci possono mettere ad aggiustare qualcosa che sembra essere abbastanza grave. Steve si asciuga le mani sui pantaloni. Non sa quanto l'uomo che è anche ingegnere possa fare al riguardo. Non sa quanto lui stesso possa fare al riguardo. Ha una copertina da finire e il suo istinto continua a dirgli di scappare via, lontano da Tony, lontano da questa strana sensazione. “Io dovrei...” inizia e Tony gli sorride. Pensa che capisca. Quindi Steve fa questi due passi indietro e torna nel suo appartamento. Chiude la porta con un solo movimento e tira un altro respiro di sollievo.

Deve aspettare che il suo corpo si ricordi di essere in un posto sicuro, che non c'è nessuna minaccia, fisica o emotiva, che tutto va veramente molto bene. Respira profondamente. Espira. Inspira. Espira. Lui è al sicuro. Il suo vicino Tony e suo figlio non sono un pericolo per lui. Inspira. Espira. Inspira. Non fisico. Espira. Non emotivo. Inspira.

Dopo qualche minuto, sente la porta dell'appartamento accanto fare click.








Tony tiene in mano il pezzo di tessuto con dei motivi a cui lui non potrebbe dare un vero e proprio significato, ma è sicuro che T'Challa potrebbe farlo. Prende un respiro profondo e Peter lancia un gridolino felice, con le mani tese verso di lui. Tony gli sorride e stende il telo, per capire come usarlo propriamente. Janet gli lancia uno sguardo e inclina la testa, con un mezzo sorriso. “Se vuoi ti posso aiutare io” offre e gli si avvicina con passi decisi, facendo risuonare i tacchi sul pavimento. Nadia la osserva, seduta sul lenzuolo, con le manine a terra per tenersi in equilibrio. Dopo un po' scivola di lato e perde interesse nei passi della donna, che prende il telo dalle mani di Tony e dispiega davanti a loro, per poi fargli un cenno veloce perché si tolga la giacca. Lui fa senza pensarci due volte, facendo anche una smorfia al bambino, che dire, tenendosi il piede con la manina.

“T'Challa dice che aiuta a creare un rapporto con il proprio figlio” borbotta, alzando le spalle. “ E anche di usarlo quando Peter sarebbe riuscito a tenere su la testa. Le strane regole, eh. Me lo ha detto mesi fa. Ha anche detto che era colpito, perché non si aspettava che io decidessi di avere un bambino. In Wakanda, dice lui, io non lo so, non lo so come sono le cose in Wakanda ma -crescere un bambino è forse più importante di governare l'intero paese. Lo ha detto lui. Ci pensi? È stato così melodrammatico.”

Janet aggrotta le sopracciglia. “Magari stava solo cercando di complimentarsi. Lo sai che T'Challa è un tipo oggettivamente strano.” Gli fa un gesto col dito perché si giri e Tony alza le braccia, mentre lei gli si avvicina col tessuto stirato e sembra prendere le misure del suo busto. La scena fa ridere ancora di più Peter, che si porta il piede alla bocca e lo morde con le gengive. “Un modo per farti capire quanto è importante il compito che stai portando avanti.”

“Forse” concede lui, mentre lei inizia ad avvolgerlo nel telo. Gli fa un piccolo nodo sotto l'ascella e Tony ride al contatto, cosa che fa sorridere anche lei, che gli lancia un'occhiata veloce. “Però io ho pensato al fatto che sicuramente non avrei mai voluto fare il re. Il fratello minore del re? Sì, senza pensarci. Il principe consorte? Tanto avrei dovuto solo sorridere e essere carino per la stampa, vero?”

“No, non credo” risponde Janet, sbuffando una risata e inclina la testa, dando un passo indietro per lasciare la possibilità a Tony di muoversi, cosa che lui, girando su se stesso e poi alzando e abbassando le braccia. Muove anche i fianchi, per vedere se è libero di farlo, poi scrolla le spalle.

“Secondo me, sì” risponde dopo qualche secondo. “Io non ho mai voluto fare il re.” Scuote la testa e prova a sorridere, ma non ci riesce. Scrolla le spalle allora. “E ho perso il primo pianto di Peter perché ero in bagno a vomitare.” Fa una smorfia, prima di mordersi le labbra e scuote impercettibilmente la testa. “E sento tutte queste persone che mi ripetono quanto è incredibile fare il genitore, quanto nessuno vuole perdere alcune fasi, o quanto certe cose siano importanti e io -ero in bagno a vomitare. Nel momento in cui avrei dovuto iniziare a creare quel rapporto con mio figlio, ero in bagno a vomitare. Il primo respiro è importante, vero?” Inclina la testa e Janet aggrotta le sopracciglia, studiandolo in un silenzio grave, forse leggermente offeso. “Sarei dovuto essere lì, vero? Perché lo so quello che dicono tutti, va bene?, che quando guardano i loro figli sembra che tutto il mondo si sistemi, come se finalmente tutto avesse un senso ma -io non provo questa sensazione...? Io ho paura di prendere in braccio Peter. Perché se il posto più sicuro nel mondo per lui sono io -io non credo di esserlo per davvero. E ci sono momenti, sì, certo, ci sono momenti in cui penso che tutto vada bene e che io e Peter stiamo bene. Lui mangia, ride, dorme, non fa molto altro e io le provo queste cose, okay?, provo questa serenità, questa -voglia di creare un mondo migliore, okay? Poi però ci sono momenti in cui guardo Peter e penso...” Si gira verso il bambino, che continua a succhiare il pollice del piedino. Tony sospira, si accarezza la fronte con due dita e guarda in basso. Chiude gli occhi. “Penso: Marianne aveva ragione.” Gli sale un groppo alla gola e riapre gli occhi. Li sbarra, perché lo ha ripetuto una seconda volta, lo ha detto alla luce del sole. Alza lo sguardo e stringe i pugni. “Forse è così.”

Janet apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude e fa un passo in avanti. Tony risponde facendo un passo indietro.

“Lo so che questo -tutto questo è da mostri” dice, incrociando le braccia davanti al petto. Non voleva nemmeno ripeterlo ma va bene, ormai gli è uscito. Non può esserci un ritorno indietro. Si morde le labbra. Non alza la voce. La mantiene in un sussurro. Per ora. “Io adoro Peter, non potrei pensare a un mondo in cui Peter non esiste ma quando lo vedo sono terrorizzato. Non c'è serenità. Non c'è calma. Non c'è nessuna epifania. Non ho nemmeno capito che cosa dovrei fare della mia vita e... c'è questa creaturina che continua a guardarmi come se io fossi il suo sole e -lo sai che è per questo motivo che non ho mai avuto un cane? Non ci riesco. Lo guardo e penso non sento niente. Poi lo guardo di nuovo e penso io non voglio ma lo so, lo so che ti farò così male -e sarà tutta colpa mia. E cosa dovrei fare? Chi dovrei chiamare? Perché sembra che l'unica persona in questo mondo che si sente così sono io? Perché non posso essere come Scott? Perché nel gruppo sembrano tutti così fiduciosi? Perché a me sembra che loro sappiano quello che fanno? Perché mi sembra di star sbagliando tutto? Perché tutti dicono che i tuoi figli ti guariscono quando è ovvio che non è vero?” Deve fermarsi a prendere un respiro. Ha iniziato a perdere il controllo, la voce è salita di un'ottava, il ritmo delle frasi è diventato sempre più incalzante e sa di non poterselo permettere. Deglutisce e si gratta nervosamente la testa, mentre Janet sbatte velocemente le palpebre e prova di nuovo ad avvicinarsi. Nadia li osserva con un dito in bocca. Peter non si è nemmeno reso conto del cambiamento di atmosfera, ha perso interesse nella figura di suo padre. È intento a giocare con delle stelline attaccate al suo seggiolino. Tony si passa una mano sul viso. “O sono io?” sussurra con un sospiro. “Sono io, vero? Perché devo essere sempre la persona sbagliata?” Fa un gesto vago con la mano, come se questo potesse far capire tutte le cose non dette. Poi scrolla le spalle. “Perché, una volta ogni tanto, non posso essere la persona giusta?”

Janet lancia uno sguardo veloce al pavimento, prima di muoversi verso Peter e prenderlo tra le braccia, tra le proteste del bambino, che avrebbe voluto continuare a giocare con le sue stelline. Lei inclina la testa, guardandolo negli occhi e poi gli sorride. Peter non ricambia. Continua ad osservarla in silenzio. “Neanche io ho visto Nadia nascere” risponde dopo qualche secondo, girandosi verso Tony che continua a passarsi la mano sopra il labbro e a tirare su col naso. “Ma non penso di essere meno sua madre solo per questo. E certo, anche io sono terrorizzata dal fatto che ho detto di essere madre di una bambina. E senza padre. Non c'è nessuno che potrà aggiustare il tiro quando la metterò in punizione. Non c'è nessuno che le potrà rispondere sinceramente alla domanda ma da dove vengo? E io vivo con la paura del giorno in cui si rifiuterà di chiamarmi mamma. Del giorno in cui mi chiederà di Hank.” Alza una spalla e gli si avvicina di nuovo. “Essere genitore non è come essere in una canzone. Non ci possono essere solo momenti belli. E tu sei esausto. E tu non chiedi mai aiuto. Un figlio non ti può aggiustare, Tony. Siamo noi che ci aggiustiamo per loro, ci miglioriamo per loro. Non essere troppo duro con te stesso.” Peter allunga le braccia verso di lui e Tony sospira, prendendolo tra le sue braccia. “E chiedi aiuto. Puoi diventare la persona giusta. Io lo so.”

Tony abbassa lo sguardo verso Peter, che giocherella col tessuto, e Janet sorride.

“Ora, papino, mettilo nel tuo canguro wakandiano, così vi faccio una foto e la mettiamo nel vostro album.”

“Mi cala il moccio dal naso” protesta Tony in una lamentela. “E poi non si chiama canguro wakandiano. T'Challa sarebbe così deluso da te.”

“Quando mai T'Challa non è deluso” ribatte prontamente Janet, andando a cercare la sua macchinetta fotografica. O il cellulare, alla meno peggio.





“Non faccio molto” inizia Steve, con le mani intrecciate tra le gambe aperte e uno sguardo non propriamente vuoto. Si guarda intorno, guarda come i suoi stessi occhi siano replicati in ogni persona presente in questa stanza. Sam prova a sorridere, prova ad annuire, fargli capire che può comunque continuare a parlare, e Steve vorrebbe semplicemente rimanere in silenzio, ascoltare gli altri parlare e cercare di capire se per loro c'è salvezza. Finché parla, non riesce a trovarla. Si accarezza il dorso della mano con un pollice e sospira. “Mi sveglio tutti i giorni alle cinque del mattino. Esco a correre. Torno a casa, mi faccio la doccia, faccio colazione. Poi inizio a lavorare sulle commissioni delle riviste, o delle agenzie. Ogni tanto incontro amici.” Fa un gesto con la mano, a mostrare, forse, Sam, poi scrolla le spalle e intreccia di nuovo le dita. “Torno a dormire. È un routine ben consolidata.”

“E, a questi tuoi amici, si sono aggiunte altre persone? Sei riuscito a parlare con qualcuno?” chiede gentilmente Sam, lanciando un'occhiata a Natasha, che ha le gambe accavallate e non sembra nemmeno essere presente nel cerchio di sostegno. Lei dice che sono cazzate, ma che comunque deve farne parte per rimanere iscritta nell'albo da psichiatra. “Coi tuoi nuovi vicini, magari?”

“Ho parlato col proprietario del condominio. C'è una macchia di muffa sul mio soffitto.” Sam inclina la testa come se fosse molto deluso. Steve sbuffa. “Ho parlato anche con il mio vicino. L'uomo che vive sul mio stesso pianerottolo.”

“Quello che senti attraverso i muri.” Sam sorride e Natasha raddrizza la schiena, sospettosamente attenta. “L'uomo con un figlio” prova a far continuare lui.

“Sì, sì, proprio l'uomo col bambino sul mio stesso pianerottolo. Si è rotta un'antenna e sembra che per questo internet fosse più lento. Abbiamo parlato. Sembra un bravo padre.” Non crede di dover dire molto altro. Si ritrova addosso gli occhi penetranti di Natasha per uno, due, tre secondi, prima che la donna torni ad accomodarsi sullo schienale e incroci le braccia sull'addome. “Ma sono scappato” aggiunge, abbassando lo sguardo. “Non mi sentivo al sicuro.”

Sam sa che non avrà altre parole da parte di Steve, che prova a non mordersi le labbra e a non muovere nervosamente il tallone su e giù, quindi annuisce lentamente, si inumidisce le labbra e prova a sorridere. “Bene” dice, girandosi verso la restante parte del gruppo. “Bene, direi che questo ci lascia un ampio spazio per riflettere. Molti di voi, Steve come Luke e come te, Jessica, sono stati bloccati dall'idea di creare dei nuovi rapporti, forse dimenticandosi di un fattore molto importante per tutti quanti noi. Siamo al sicuro.” Fa una micro pausa, per essere sicuro di riuscire a guardare negli occhi ognuno di loro. Steve vede di sfuggita Natasha coprirsi il viso con una mano e alzare gli occhi al soffitto. La cosa lo fa sorridere leggermente. Abbassa lo sguardo per non farlo notare a Sam. “Per molto tempo abbiamo creato rapporti che non sapevamo se sarebbero durati, basati sul bisogno di proteggersi l'un l'altro, perché in guerra ti devi fidare del tuo commilitone. E chissà quanti commilitoni abbiamo lasciato indietro, nonostante loro si fidassero di noi.” Un'altra pausa. Sam è bravo a fare dei discorsi. Sta parlando di Riley. Sta parlando di Bucky, anche se in modo completamente diverso. Steve deve distogliere lo sguardo e cercare di pensare ad altro. “Abbiamo scoperto che esistono dei legami che possono avere una durata breve, ma che sono intensi e pieni di responsabilità. E io sono qui per dirvi, che qui siamo al sicuro e che parlare con una persona non significa condividere con lei gli orrori che abbiamo condiviso in guerra. Qui, a casa, possiamo creare dei rapporti passeggeri, non dobbiamo portarci dietro il peso di una valigia che è stata delusa tante volte. Si parla di rapporti freschi, pensateli come al ghiacciolo, che si mangia d'estate e poi? E poi non tutti lo mangiano d'inverno. Potete creare delle relazioni che sono già pronte a finire. Potete creare anche dei rapporti che invece non devono finire. E potete decidere voi di farlo. Qui, a casa, se decidete di non vedere più una persona, non finisce una vita. E, cosa importante, non dovete affidare la vostra vita a nessun'altro che non siate voi stessi.” Prova a sorridere. “Quindi date una possibilità alle persone intorno a voi.”

C'è il silenzio nella stanza. Per qualche secondo nessuno parla, nessuno si muove. Poi Natasha tira indietro la testa e sbuffa. Sam scuote la testa e sorride.

“Va bene” mormora, accarezzandosi la fronte. “Natasha?” Fa un gesto con la mano per invitarla a parlare e Natasha tira su la testa, dedica a tutti loro un mezzo sorriso e si gira verso Steve.

“Tu non hai amici” commenta lapidaria. Steve alza un sopracciglio e lei alza un sopracciglio solo per non dargliela vinta. Poi lei ride e torna a guardare il nulla, come se avesse già puntato la risposta dell'Universo, come se gli avesse già fatto capire cosa deve fare per migliorare. Steve scrolla le spalle e Sam si accarezza il ponte del naso.

“Okay, allora, lo so che siamo tutti contro i compiti a casa, me compreso, ma perché non facciamo così? Perché non ci diamo un obbiettivo? Proveremo a parlare con una persona. Un persona sola e va bene che poi non le parliate più. Basta che con questa persona ci parliate prima del prossimo incontro e ragioniate su cosa vi è piaciuto e cosa non vi è piaciuto del parlare con questa persona. Cosa vi ha fatto sentire, va bene?” Si guarda intorno, nessuno sembra molto convinto, ma probabilmente lo faranno. Probabilmente cercheranno di parlare con qualcuno. Steve ruota gli occhi e pensa che lui vorrebbe soltanto tornare a dipingere come dipingeva prima. E vorrebbe tornare a parlare con Bucky, come parlavano prima. Si accarezza la fronte e sospira. Sam continua a parlare. Sta ridendo. “Lo farò anche io, sì sì. E, Natasha, Clint non vale come persona.”

“Stai dicendo che Clint non è una persona?” chiede Natasha, con un tono neutro e le spalle tirate leggermente indietro.

Sam fa una smorfia, come se non volesse dire che magari quella è la verità. Quindi Natasha prima assottiglia lo sguardo, poi annuisce, come se lui avesse un punto. Si gira verso Steve, dandogli una gomitata e gli chiede: “Ehi, vuoi berti una birra oggi?”

“Pensavo non avessi amici” ribatte lui divertito.

Lei sbatte semplicemente le palpebre. “Sarebbe un no?” chiede, prima di perdere interesse nella conversazione. “Comunque quest'idea di Sam non è male. Magari ti aiuta a trovare qualcuno che non è perso quanto sei perso tu.”

Steve sbuffa quella che spera sia percepita come una risata. Poi sospira e prende a guardare insistentemente il pavimento.





Lo sguardo negli occhi di Rhodey cambia e cambia più volte. Prima Tony era riuscito a leggere la sua sorpresa quando gli ha presentato Peter, che ormai si tiene seduto e ogni tanto prova a camminare, tenendosi con le sue mani e tirando in avanti i piedini un po' storti che non sembrano ancora riuscire a tenerlo dritto. Subito dopo la sorpresa, c'era stato un dubbio. Ha chiesto: “Questo bambino è tuo?” e Tony ha annuito e Rhodey si è dovuto sedere sul divano, mentre si teneva la testa con una mano. Poi c'è stato disorientamento. Ha chiesto: “Quanti mesi ha?” e Tony ha risposto nove. Poi c'è stato un momento di terrore. Ha chiesto: “E Marianne dov'è?” e Tony ha abbassato lo sguardo e ha scrollato le spalle. E allora nello sguardo di Rhodey c'è stato panico. Ha chiesto: “Cos'è successo, Tony?” e Tony gli ha raccontato tutto, mentre Peter gattonava di qua e di là per l'appartamento, giocando coi cubi di Nadia, vocalizzando ogni tanto. E lo sguardo di Rhodey si è riempito di rabbia. E quando quella rabbia è arrivata alle sue mani, che si sono chiuse in due pugni, il suo sguardo ha già cambiato sfumatura e sembrava preoccupato. Poi era ricaduta nel ferito.

È bravo a leggere Rhodey. Così come Rhodey è bravo a leggere lui.

“Perché non mi hai chiamato?” chiede, ma la risposta vera la sa già, come sa già che non l'avrà mai a voce alta.

Tony alza una spalla. “Eri in missione” risponde e nello sguardo di Rhodey c'è senso di colpa, perché entrambi sanno che non si è preoccupato di chiedere come stava. Perché dava per scontato che stesse bene. Perché pensava che l'allontanamento dalla sua famiglia fosse dovuto forse a un capriccio. In sua difesa, Tony ha fatto di tutto perché chiunque intorno a lui la pensasse in questo modo. Ma Rhodey è il suo migliore amico e lo conosce, ed era lontano a salvare il mondo in una missione importante, e ha dato poco peso agli indizi. E Tony non gliene fa una colpa. Davvero. “Comunque, se vuoi, puoi ancora essere il padrino di Peter. Lo puoi viziare, prendergli dolcetti, insegnargli a giocare a baseball, dargli il buon esempio nell'essere un cittadino americano coi fiocchi e...”

“E stai bene?” lo interrompe Rhodey e insieme alla colpa c'è anche la preoccupazione. Tony arriccia le labbra in una smorfia non proprio sicura. “Sei stato solo?”

Ci mette un po' a rispondere, perché prima deve rimettere in ordine anche i suoi di sentimenti. Non è arrabbiato con Rhodey. Davvero. È felice che sia venuto a trovarlo, che la prima cosa che gli è venuta in mente quando ha saputo di avere una licenza è stata di andare a rintracciare Tony e controllare quello che stava facendo. È felice anche di vederlo sano e salvo e tutto intero. È felice di averlo abbracciato. È felice di riaverlo con lui. Ha paura di farlo preoccupare. Ha paura anche di non potergliene parlare più, di tutto questo, però. “Sono in cura dal professore Xavier” dice e scrolla le spalle. “Riesco a prendere Peter in braccio, prima -qualche mese fa non ci riuscivo. E... e riesco a dormire. Il ritmo di sonno mio e di Peter sembra coincidere e, so che sembra strano, ma Tony Stark ogni tanto fa riposini pomeridiani. Il professore dice che sono gli effetti collaterali dei miei farmaci quindi... sono anche sobrio, ovviamente. Sobrio da... più di un anno. Più o meno. Tranne per... Bruce si è trasferito qui. Per la start-up, dice, ma penso che volesse essere sicuro che non facessi niente di stupido. Clint ha proprio detto che non voleva facessi qualcosa di stupido. Quindi, vedi?, sto bene. Faccio anche parte di -non mi prendere in giro, faccio parte di un gruppo di sostegno per genitori disastrati. Gruppo in cui ho incontrato il mio terzo collaboratore, che guarda caso è un incredibile hacker e anche molto economico.”

“Tutto questo mentre ero in missione” dice Rhodey e continua a lanciare sguardi veloci a Peter, che si è stufato dei cubi e che adesso sembra essere molto interessato a delle paperelle di gomma. “Sei dovuto crescere mentre io ero via.

“Sono felice che tu sia tornato” risponde Tony e intanto annuisce con la testa, come se volesse rafforzare le parole appena dette. “È stato veramente molto difficile. È stato... È stato un incubo... è stato...”

Rhodey gli circonda la testa con un braccio e fa in modo che si appoggi nella sua spalla, come facevano al college quando uno dei due pensava di aver bisogno di sostegno, o almeno di un abbraccio. Quando Rhodey prendeva voti bassi, quando pensava di non riuscire a laurearsi in tempo, quando Tony tornava dalle sue visite a casa a Malibù, quando tutti e due avevano bevuto troppo e si sentivano come se l'unica roccia solida in questo mondo fosse l'altro. “Va tutto bene” mormora Rhodey e posa la guancia sui capelli spettinati di Tony. “Posso aiutarti a viziare questo ragazzino anche per tutta la vita.” Guarda il bambino sbattere le mani sul pavimento, ripetendo un Da Da che non sembra ancora una vera e propria parola e sorride. “Va tutto bene” mormora. “Va tutto bene.”






Steve esce alla solita ora quella mattina, per andare a correre, e quando chiude la porta di casa dietro alle sue spalle, si rende conto che l'ascensore è stato smontato. Non vorrebbe accorgersene ma ci sono veramente molti rumori. C'è del metallo che va contro il metallo e poi qualcosa che sembra girare e qualcuno che borbotta. Steve gira la testa e prova ad aguzzare lo sguardo.

Non che comunque la cosa lo colpisca personalmente, solo che gli sembra strano. Per questo si avvicina, con le sopracciglia aggrottate, guardandosi intorno per riuscire a capire la situazione. E c'è una chiave inglese sul pavimento, la giacca di una tuta e una cassetta degli attrezzi per terra. Posa la mano sul muro, si affaccia, aspettandosi forse Clint, che forse ha finalmente deciso a fare il giro degli appartamenti a sistemare quello che dovrebbe sistemare. Ha anche un mezzo sorriso, è pronto a fare una battuta che nessuno oltre a se stesso capirà, ma si ritrova il papà di Peter, Tony, in canottiera in una tuta da lavoro e degli occhialetti e le mani sporche di olio, gli occhi puntati verso l'alto e in un equilibrio precario dovuto a un piede steso per la scala e un ginocchio piegato sempre su questa. Ha le cuffiette alle orecchie. Non sembra essersi reso conto di Steve. Non canticchia. Ha una rughetta in mezzo alle sopracciglia. Muove le mani velocemente.

Si gira verso di lui solo dopo molti secondi, Steve non sa perché non si è mosso nel frattempo. Forse Tony doveva prendere un attrezzo che gli serviva, ma quando lo vede sbatte velocemente le palpebre, si passa una mano piena d'olio trai capelli e poi gli offre un sorriso a metà. “Steve,” lo saluta, prendendo uno straccio macchiato e cercando di togliersi dalle mani l'unto degli ingranaggi. “L'artista commerciale” continua, scendendo dalle scale. “Mi spiace tantissimo, l'ascensore è -vorrei dire non reperibile, ma non penso che sia l'espressione giusta, vero? Ci metto un -veramente poco a finire.”

“No, io non devo usare l'ascensore” risponde Steve in un fil di voce, muovendo le mani tra loro e Tony aggrotta le sopracciglia e lancia uno sguardo alle sue spalle. Sembra sta calcolando qualcosa, mettendo insieme dei puntini che riesce a vedere solo lui.

“Ti avrei preso in giro se lo avessi usato,” dice, dopo aver rilassato i muscoli facciali e tornare a sorridere. Si sistema lo straccio accanto alla cintura. Adesso è Steve ad aggrottare le sopracciglia. “Sì, perché sembra che tu debba uscire a correre” spiega Tony, venendo in suo soccorso. Il suo sorriso si amplia un po' di più quando si rende conto che lo sta iniziando a capire. “Un corridore che prende l'ascensore? Capirai l'ironia.”

Steve lancia un'occhiata alle sue scarpe e si accarezza il collo, mentre si sforza di ridere. “Sì, sì, immagino che lo potrei capire.” Deglutisce e poi sospira. “Non sapevo aiutassi Clint con questi...” Non trova la parola, motivo per cui non finisce la frase. Fa un gesto vago per indicare la cassetta degli attrezzi. Pensa sia sufficiente, perché l'uomo scrolla le spalle.

“Solo quando non riesco a dormire. O quando ho bisogno di schiarirmi le idee.”

“E quindi oggi non riuscivi a dormire o avevi bisogno di schiarirti le idee?” chiede. In realtà non aveva intenzione di chiedere nulla, semplicemente le parole gli sono scivolate dalla bocca, neanche troppo bruscamente e una parte di lui se n'è pentita, l'altra parte di lui è felice che gli occhi scuri di Tony lo stiano studiando con vivace curiosità. (Gli ricordano quelli del bambino, Peter, ma questo non è un pensiero conscio.)

“Entrambi...?” Tony sospira e scuote la testa. “Invece tu? Ti torturi con jogging alle...” Guarda il suo orologio al polso e corruga la fronte. “Sono le cinque del mattino?” chiede incredulo, tornando a guardare Steve che annuisce in risposta. “Oh, okay.”

“Che ore credevi che fossero?” chiede con un mezzo sorriso divertito, e lo vede scrollare le spalle e poi tornare a calcolare qualcosa, mentre si guarda intorno e sembra notare per la prima volta la luce fievole dell'alba.

“Pensavo fossero le tre o le quattro” risponde distrattamente. “Ho perso la cognizione del tempo. Ma, in mia difesa, mi è venuta un'idea per migliorare quest'ascensore e mi manca solo installarlo.”

“E che cosa avresti...?” inizia a chiedere ma si blocca di nuovo, questa volta non perché non torva le parole ma perché viene colpito dagli occhi di Tony, che torna a concentrarsi su di lui. Gli sorride. Anche Steve allora sorride.

“Ho costruito il quadro di manovra, fatto in modo che entrasse nel vecchio quadro di manovra, sistemato i nuovi bottoni di chiamata nel condominio, tranne che qui, controllato il contrappeso dell'ascensore, che i cavi fossero ben oleati, ripulito alcuni punti oscuri dell'ascensore, spero che non ti tocchi mai farlo, quindi ho tolto il vecchio quadro di manovra e adesso sto parlando con te.”

“A che ore hai detto di aver iniziato?”

Tony assottiglia lo sguardo. “Ti ha mandato Rhodey?” chiede, poi ruota gli occhi e sbuffa una risata. Fa un gesto con la mano, come a voler passare alla prossima pagina della conversazione, la cosa confonde Steve, ma Tony sembra essere completamente a suo agio. “Comunque devo solo sistemare il quadro. La parte faticosa è già passata.” Fa spallucce. “Tu invece? Non riesci a dormire o hai bisogno di schiarirti le idee?”

“Come?”

“Beh, io per tenermi occupato quando non ho sonno sistemo gli ascensori. C'è gente che fa jogging per lo stesso motivo.” Cammina verso la cassetta degli attrezzi, si inginocchia, aprendola e iniziando a cercare Dio sa solo che cosa.

“Schiarirmi le idee” risponde, dopo averci pensato su. Tony ha trovato un cacciavite e torna dentro l'ascensore, osservando il pavimento come se gli avesse fatto attivamente del male.

“E dopo mangi?” chiede senza nemmeno guardarlo in faccia. “Sto -sto cercando delle viti che penso mi siano cadute qualche ora fa, perché lì non ci sono.” Indica con un dito uno spazio abbastanza ampio. Steve si porta la mano sulle labbra per nascondere un sorriso. “Comunque, sì, dopo esserti schiarito le idee, mangi?”

“Credo di sì.”

“Bene, perché, sai?, Peter è con Rhodey e quindi è molto possibile che io mi dimentichi di fare cose abbastanza basilari e-...”

“Come dormire?”

“Sì. Come dormire. E non posso saltare la colazione, altrimenti mi ritroverei veramente tante persone molto arrabbiate. Il fatto è che non mi va di chiederlo a Clint, perché poi Clint si mangia questo mondo e pure quell'altro, e poi si ritrova a vomitare nei bagni pubblici, o nel mio bagno, che è peggio, perché è come il suo cane. Finché gli metti cibo in tavola lui mangia. Non si sa autoregolare, è assurdo.” Alza lo sguardo dal pavimento per guardare Steve, che pensa di aver capito, ma non vorrebbe fare una gaffe. Tony si inumidisce le labbra. “Sì, insomma. Ti sto chiedendo, da bravo vicino di casa, se ti andrebbe di fare colazione con me, dopo esserti schiarito le idee, ovviamente, tra due o tre ore. Giusto il tempo di sistemare le ultime cose qui e... questo ovviamente se vuoi. Posso chiederlo a Clint.”

“Sì, ma poi Clint si ritroverebbe a vomitare nel tuo bagno” risponde scherzosamente, fa anche un mini gesto delle pistole con le dita, per poi ritrovarsi a sorridere divertito, quando Tony sbuffa una risata.

“Finalmente qualcuno che mi capisce” mormora e rimangono a guardarsi negli occhi, entrambi con un mezzo sorriso ed entrambi rimanendo completamente immobili, forse studiandosi a vicenda, forse cercando di capire la situazione. Nel caso di Steve è questo. È esattamente questo che sta succedendo, finché non sente un quantitativo non indifferente di adrenalina farlo entrare in uno stato di allerta. Non capisce se c'è un pericolo. Non capisce se un rumore in sottofondo ha risvegliato qualcosa. Apre la bocca per dire qualcosa e punta con il pollice lo spazio dietro le sue spalle.

“Io...” inizia e Tony scuote la testa poi annuisce.

“Certo!” esclama, forse un po' troppo ad alta voce. “Ci vediamo... ci vediamo dopo. Se non qui -se non sono qui, puoi tranquillamente bussare al mio appartamento. Anche perché penso tu abbia cose da fare, certamente hai cose da fare e certamente non ti voglio trattenere. Non -non è mia intenzione, davvero. Quindi, uh, vai a schiarirti le idee... o a tenerti occupato o a -sto straparlando. Okay.” Preme le labbra una contro l'altra e alza le spalle. “Ci vediamo. Dopo.” Poi chiude gli occhi come se avesse detto la cosa più stupida del mondo e Steve sorride. Sorride perché gli fa tenerezza. Perché in un qualche modo, in questi secondi in cui non riusciva a smettere di parlare, gli ha riscaldato un po' il cuore.

Fa un cenno con la mano, prima di girarsi e muoversi verso le scale e lo sente. Sente fisicamente Tony coprirsi gli occhi con la mano e mormorare un ugh. Questo lo fa sorridere un po' di più.





C'è un libro che Tony ha comprato a Peter. Lo ha comprato prima che lui potesse veramente capire le parole, quando ha iniziato la terapia con il professor Xavier. Si chiama Le mani di papà. Peter lo terrà con sé per tutta la vita.

Rhodey sorride e chiama Peter. Vieni qui, dice, prova a fare questi due passi! Vieni dallo zio!

Inizia elencando tutte le cose che le mani di un padre fanno. Ad esempio, non appena nato -nel caso di Peter e Tony è stato il giorno dopo, ma lo ha preso in braccio perché non piangesse più. E questa è la prima cosa al mondo che le sue mani hanno fatto come mani di un papà. Lo ha cullato. Lo ha tenuto in braccio.

Peter ride e lancia uno sguardo divertito a il suo baba.

Una delle altre cose che fanno le mani del papà è creare tanti oggetti per i propri bambini. O far fare loro vola vola, con la sicurezza che lì riusciranno a riprendere ogni volta. E questo Tony lo ha fatto. Lo continuava a fare.

Con le mani crea anche immagini sulla parete, e quelle ombre fanno ridere il bambino così tanto che non riesce a smettere di farlo.

Vogliamo provare ad andare dallo zio Rhodey? chiede baba, con un sorriso e allora Peter ride un po' di più.

Una delle altre cose che fanno è tenere in piedi il loro bambino, quando lui prova i primi passi per il mondo. E Tony lo ha fatto. Lo continua a fare.

Peter ride e fa un passo incerto avanti e Rhodey continua a chiamarlo dolcemente, con il suo pupazzetto preferito, che continua a fare qua qua. Poi ne fa un altro e Tony inizia ad attenuare il suo appoggio perché cammini. Peter ne fa un altro. Lo fa da solo. Il primo passo è seguito da passi più piccoli e veloci, che terminano quando casca tra le braccia dello zio, che lo prende in braccio e ripete bravo! Quanto sei stato bravo, Peter!

E Tony sorride e si avvicina a loro e anche lui dice bravo il mio campione! Vedi che c'è l'hai fatta? Questo è mio figlio!

Lo appunta sul calendario. 21 Aprile. I primi passi dell'indipendenza, dice sempre. Un minuto prima camminano incerti per il salotto, il minuto dopo, eccoli con la loro ribellione adolescenziale. Peter riderà della melodrammaticità, poi ribatterà con un non dovrei ribellarmi se le vostre regole non fossero così stupide! Finiva così Le mani di papà. Con un'enorme disegno delle mani del papà che lascia andare il proprio bambino.

“Va tutto bene, Tones?” chiede Rhodey, mentre Peter fa le pernacchie.

Tony non ne è molto sicuro, perché come cosa lo fa sentire un po' disperato, un po' felice e orgoglioso e un po' più in ansia. “Lo posso ancora tenere in braccio per un po' di tempo” risponde lui con mezzo sorriso e Rhodey gli scompiglia i capelli e torna a giocare con Peter.







Steve lo aveva ovviamente visto ancora intento a sistemare l'ascensore quando è tornato, ma ha preferito prima andarsi a fare una doccia. Perché la sua routine va in quest'ordine. Deve dire, però, che a questo punto si aspettava di non trovare Tony sul pianerottolo, sulla scala, a controllare le luci che indicano il piano in cui l'ascensore si trova. Allora forse era serio. Forse davvero si dimentica di fare le cose più disparate. E quindi era tornato nel suo appartamento. Ha provato a chiudere la porta con meno rumore possibile. Si era mosso verso la cucina e aveva controllato la credenza, il frigorifero e la frutta sul tavolo che aveva dimenticato di aver usato. Si muove con calma. Con precisione. Tutto questo fa parte della sua routine. E quando aveva finito di cucinare, aveva infilato il tutto in contenitori di plastica, aveva afferrato qualche cuscino, tenendoli sotto le ascelle.

Non ha avuto problemi ad aprire la porta. E non ha avuto nemmeno problemi a ritrovare Tony, che sta sistemando il bottone per chiamare l'ascensore, con il suo straccio. Deve essere stato trasportato da un flusso di coscienza.

Steve sorride.

Gli si avvicina, alza la testa e assottiglia lo sguardo e Tony ha di nuovo le cuffiette alle orecchie e lui non sa come attirare la sua attenzione. Arriccia le labbra e pensa che magari tutto questo è uno sbaglio. Sistema i contenitori sotto il mento e si schiarisce la gola. “Tony?” chiama con un tono incerto e pensa che probabilmente questo non sarebbe bastato per fargli togliere le cuffiette, ma l'uomo si gira velocemente verso di lui e sbatte velocemente le palpebre.

“Cosa?” inizia a mormorare, guardandosi intorno e poi tornando a guardare il cibo tra le mani di Steve e sembra solo molto confuso. “Che -okay, può essere una domanda davvero strana ma... che ore sono?”

Steve non può fare a meno di sorridere un po' di più da un lato. “Forse dovresti chiedere il giorno” risponde divertito e vede come Tony alza le sopracciglia e apre la bocca per dire qualcosa che viene bloccato immediatamente.

“Ah” esclama, sbuffando una risata. “Mi stai prendendo in giro, va bene.” Poi inclina la testa e controlla l'ora sul suo orologio da polso. Questo dettaglio sembra essere così fuori e allo stesso tempo così nel personaggio che Steve preferisce non pensarci troppo su. Sono le cose che ha imparato a ignorare, quelle che sembrano avere troppe risposte. Quando Tony alza di nuovo gli occhi, Steve scrolla le spalle. “Poteva andare peggio” commenta. “Potevo continuare a sistemare l'ascensore per decenni.”

“Costruire un ascensore coi propulsori” scherza Steve, alzando una spalla. Alza i gomiti e lascia che i cuscini cadano per terra.

“O un ascensore senziente!” Lancia un'occhiata al pavimento e sta per dire qualcosa, ma scrolla le spalle.

“E quindi iniziare la rivolta dei robot contro l'umanità.” Steve gli offre mezzo sorriso e qualche contenitore di plastica, che Tony afferra senza pensarci due volte. “Meno male. La stavo aspettando da quando ho visto per la prima volta Io Robot.”

“Anche io.” Schiocca le dita e poi fa un occhiolino. “Ho sempre voluto costruire dei laser per poter combattere i cattivi. E le pistole laser? Pensa poter costruire delle pistole laser? E poterle usare? Uau. E poi, ho sempre pensato, secondo me sarei troppo affascinante -affascinante con una cicatrice qui.” Si indica un punto vicino all'occhio. “Qui? Che dici? Sarei incredibile.”

“Le cicatrici hanno un fascino. Vero.” Indica il pavimento e i cuscini, e poi ci si siede, con le gambe incrociate e alza la testa, per guardare Tony che sbatte le palpebre lentamente, prima di sedersi accanto a lui, sistemandosi sul secondo cuscino.

“Perché?” Alza le sopracciglia. “Tu hai qualche cicatrice?”

“Tu?” chiede Steve, passandogli una forchetta e Tony sorride, gonfiando le guance. “Io parlo solo se tu parli” finisce, ridendo leggermente. Apre il contenitore col bacon e lo poggia tra loro. Alza un sopracciglio quando lo vede infilzare con la forchetta il cibo.

“Davvero?” chiede lui.

“Davvero” conferma Steve.

Allora Tony fa una smorfia e si indica dietro l'orecchio. “Caduto da un albero a sette anni” inizia, ruotando gli occhi. Indica la spalla. “Una volta io e Rhodey abbiamo litigato in un parco e siamo arrivate a darci pugni. Solo che era una lotta impari, no, davvero, perché lui è -Rhodey è sempre stato più forte. Solo che quella volta ho vinto moralmente, perché mi ha buttato giù per il campo da baseball e sono finito contro una trave.” Scrolla le spalle e si riporta in bocca un altro pezzo di bacon. “Non ne mangiavo da un po'. Ultimamente mangio molto tofu. È facile da fare, il tofu. Bruce, poi, ha questa cosa del voler essere vegetariano e Jarvis pensa che io non mangi abbastanza verdure, il che è stupido. Mangio molte patatine fritte.” Sbuffa e una sua mano passa distrattamente sul petto. C'è un momento di silenzio, come se stesse valutando l'idea di continuare a parlare oppure no. “Tocca a te, artista commerciale.”

Steve fa una smorfia con le labbra, spostandole di lato. “Beh, facendo il soldato mi sono guadagnato molte ferite -e cicatrici.”

Tony smette di mangiare e aggrotta le sopracciglia. Mette insieme un altro pezzo di puzzle, poi torna a sorridere. “Davvero?” chiede con un tono leggero. “Sei stato un soldato e adesso fai il graphic designer? Eri un soldato e ti hanno mandato proprio a Brooklyn per…? Cosa ti porta a Brooklyn?”

“Sono nato a Brooklyn” risponde Steve con semplicità e inizia anche lui a mangiare, sotto lo sguardo attento dell'altro. “Penso non possa farmi che bene.”

“Nato e cresciuto a Brooklyn?”

“Sono un ragazzo di Brooklyn DOC.”

“La cosa divertente è che ne sei anche fiero.”

“Cosa? Non dovrei -e da dove vieni tu?”

“Malibù.”

“E Malibù dovrebbe essere meglio di Brooklyn?” chiede Steve, con le sopracciglia alzate e la bocca aperta in un sorriso anche troppo divertito. Tony posa la forchetta sulle labbra e nasconde un sorriso che assomiglia molto a quello di un bambino.

“Malibù è cento volte migliore di Brooklyn. C'è il sole. Fa caldo. C'è il mare. E ci sono sicuramente molti meno pseudo-intellettuali che se ne vanno in giro con gli occhiali da sole quando piove e le maniche corte quando nevica.”

Steve aggrotta le sopracciglia, ma decide di non avere abbastanza elementi per ribattere a questa critica. Quindi scuote la testa e alza le mani in aria, come ad arrendersi. “Allora non capisco cosa tu stia facendo qui” dice però.

E Tony arriccia le sopracciglia e fa un leggero broncio, aprendo un secondo contenitore. Pancake. Ovviamente. Steve gli passa lo sciroppo d'acero e Tony inizia ad affondarli in questo come se non ci fosse un domani. Sbuffa e alza lo sguardo verso di lui. “A Malibù non ci sono gli pseudo-intellettuali” ammette alla fine, e la cosa fa scoppiare Steve in una risata improvvisa. Si posa una mano sul petto e si tira leggermente all'indietro. “Sì, sì, certo. Bravo. Prendi in giro.”

“Non volevo.”

“Nah.” Tony mangia velocemente, come se stesse cercando di non perdere tempo. Parla e mangia. E nel frattempo sembra calcolare. Fa molte cose in contemporanea. Il multitasking, immagina. Muove in continuazione le mani. Gesticola ampiamente. Parla ad alta voce. “Per il mio progetto ho bisogno delle menti più brillanti di questa e della prossima generazione. E purtroppo sembra che il polo culturale statunitense sia questo. Quindi devo sopportare neve e gelo, per il bene di un futuro migliore.”

“La start-up?”

“Sì. Beh, sarà la start-up ancora per poco. Serviva, a me e Bruce, il mio socio, capire in che cosa siamo bravi. Quando Scott si è unito a noi, non ho dormito per una settimana, e non solo perché Peter non faceva altro che svegliarsi e piangere, ma perché avevo bisogno di capire che cosa potesse caratterizzare quest'organizzazione. Bruce è ferrato nelle biotecnologie mediche, io sono un ingegnere meccanico e Scott è un ingegnere informatico. E ci siamo resi conto di essere incredibilmente bravi con le nanotecnologie. Quindi, per prima cosa abbiamo programmato ognuno una app a pagamento, per poterci finanziare l'avvio. Una app per aiutare studenti in matematica, una app per controllare le funzioni biologiche del proprietario dello smartphone attraverso sensori intelligenti, e Scott ha progettato un gioco fantasy che va ancora forte. Partiti da lì, abbiamo iniziato a progettare i nostri prodotti.” Ha smesso lentamente di mangiare. Steve se ne rende conto perché ci sono veramente molti pancake ancora e lui riesce a mangiare al suo quieto ritmo, mentre lo guarda gesticolare e muovere la mano con la forchetta sempre più velocemente. “Sono per lo più prodotti per i servizi pubblici. Macchinari per gli ospedali, ad esempio. Attrezzature per proteggere -E c'è un ente nazionale che le compra. Per ora va bene. Mi fido di quest'ente. Ma non è questo quello che vogliamo fare.”

“No?”

“Vogliamo rendere alcuni settori più consapevoli. Far capire alle industrie che quello che fanno ha un impatto sull'ambiente circostante. E con questo parlo delle emissioni di gas tossico, com'è successo per colpa della Rand, ma anche quello che sta facendo Bishop con il suo doppio gioco politico...”

“O la Stark Industries con la vendita di armi ai nemici.”

Tony si tira indietro come se fosse stato colpito al petto e sbatte velocemente le palpebre, prima di annuire gravemente. “Già” riprende a parlare lentamente, guarda i pancake e ne taglia un pezzettino, di malavoglia. “Un mio amico è -penso che questo lo sappia soltanto chi è stato là, vero?” Lo vede mettere insieme un altro tassello del puzzle. Poi annuisce. “La Stark Industries deve prendersi molte responsabilità.” Sospira, accarezzandosi la fronte con due mani. “Ma non lo farà, come non lo farà nessuna di queste industrie finché qualcuno non le metterà di fronte a quello che stanno facendo.” Ride, forse per sdrammatizzare la situazione. “E il primo passo è detronizzarle dal loro monopolio.”

“Una start-up alla volta?” chiede Steve, con le sopracciglia aggrottate.

“Come hai fatto a scoprirlo?” chiede Tony con un falso sorriso divertito. “Beh, sì, vedi le start-up sono fatte per non durare a lungo in quanto start-up. Quindi fisicamente non possono essere un'eredità. Ma socialmente possono esserlo. Qui non parlo di fare beneficenza a persone che poi non vedrai. Io -non vivo di questo. O almeno, non vivrò di questo per molto. Ma ci sono delle idee là fuori che devono essere portate avanti, credo. Se riuscissi a mettere insieme queste due parti -se potessi finanziare le idee che potrebbero aiutare sotto questo punto di vista, mentre alcune persone di fiducia lavorano per togliere il potere politico dall'altra parte dell'economia...”

Steve sorride. “Lo trovo ammirevole.” Sente di nuovo quel calore nel petto, come se finalmente si fosse smosso qualcosa in lui. Mastica lentamente e annuisce. “E se mai succedesse qualcosa, potrai sempre sistemare ascensori” scherza e Tony ride, scuotendo la testa.

“Bene, ho delirato anche per troppo tempo” decide, battendo le mani sulle cosce. “Tocca a te.”

“Tocca a me?”

“Certo, ovviamente, tocca a te. Mi hai fatto blaterare sul perché sono tornato a Brooklyn e che cosa sto facendo -e spero che tu non mi prenda per un pazzo che sta gridando alla cospirazione e...”

“So quello che vuol dire. Tutto quello che hai detto.” Fa una pausa. Non sa quanto oltre può andare nel parlare. Sa che doveva essere qualcosa di leggero e invece questa conversazione è diventata intensa. Intensa e sicura. Tony si fida facilmente. Anche questo sembra un paradosso. “Ho aspettato per settimane, insieme alla mia squadra che una bomba con sopra il nome Stark ci uccidesse. E pensavo che lo avrebbe fatto. E ci sono persone che lì, in quella buca, ci sono rimaste. Ma quando sono tornato qui, Howard Stark era su tutti i giornali, su tutte le televisioni. Lo acclamano come eroe nazionale. E io invece so qual è la verità. Hanno dato dei pazzi a troppe persone che hanno detto la verità. Non farò la stessa cosa.”

Tony lo guarda con un'espressione addolorata, prima di cercare di forzare un sorriso. Posa delicatamente la forchetta vicino al contenitore e si porta una mano trai capelli. “Bene” riesce a dire dopo un po'. “Sarebbe stato brutto e stigmatizzante essere chiamato pazzo” ride nervosamente, grattandosi dietro l'orecchio. Deglutisce. È nervoso. “La Stark Industries prenderà le sue responsabilità, Steve.” Annuisce più volte, prima di alzarsi in piedi. “Okay, ehm, io penso di dover andare a dormire.” Lancia un'occhiata alle sue spalle all'ascensore che, probabilmente ai suoi occhi è pieno di difetti, ma che Steve trova perfetto. “Prima che torni quel mostriciattolo e mio figlio, sai?, però, è stato un vero piacere parlare con te. Lo dico sul serio. Fai dei pancake strepitosi ed era veramente molto tempo che non mangiavo bacon.” Prende i suoi attrezzi dal pavimento e li butta poco delicatamente nella cassetta degli attrezzi. “Grazie.” Sembra sincero. Si è fermato, lo ha guardato negli occhi e sembra sincero come poche altre persone potrebbero esserlo.

Steve lo osserva, seduto sul cuscino, con la fronte corrugata e sente di non capire la situazione, ma di dover dire: “Mi piace parlare con te.”

Tony alza un lato delle labbra, poi fa un gesto con la mano, che deve essere sicuramente un modo per salutarlo, prima di rientrare nel suo appartamento. Steve non vorrebbe dire che il suo comportamento sembra un modo per scappare via. Ma sembra un modo per scappare via.

Non ne capisce il motivo. Sistema i contenitori di plastica, infilandoli uno dentro l'altro, prende i suoi cuscini e torna verso il suo appartamento. Nel farlo, si ferma a guardare il campanello della casa di Tony. Non lo fa consciamente. Non lo fa perché vuole farlo. Lo fa solo perché è un suo istinto farlo. Perché sono le cose che lui farebbe normalmente.

Legge l'etichetta e apre la bocca in stupore e aggrotta le sopracciglia perché non riesce a capire. Stark. Tony Stark?

Tony. Stark. Tony Stark?

Oh, ora capisce.

 
  
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