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Autore: Piperilla    15/04/2018    2 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Profumo di biscotti.
   Questa fu la prima cosa che sentì Vera quando arrivò a casa di Giulia: l'odore era tanto pe­netrante da permeare persino l'aria del pianerottolo, e una nuvola più intensa di quel profumo stava uscendo dalla porta socchiusa.
   «Ohilà!» chiamò Vera, entrando nell'appartamento. Dopo essersi richiusa la porta alle spalle andò dritta in cucina, sicura di trovare lì l'amica, e non rimase delusa: Giulia stava tirando fuori due teglie dal forno.
   «Che tempismo, arrivare proprio mentre sto sfornando i biscotti!» grugnì Giulia, sarcastica.
   «Non l'ho mica fatto apposta!» si difese Vera; si tolse la giacca e la buttò sulla sedia più vi­cina. «Posso aiutarti in qualche modo?»
   «Nah, questi sono gli ultimi: ormai ho finito» replicò la padrona di casa, sistemando le te­glie perché non cadessero.
   «Tanto meglio» rispose Vera; fece la linguaccia a Giulia, che le aveva appena scoccato uno sguardo esasperato, poi rubò un biscotto dal grosso contenitore poggiato sul tavolo apparec­chiato per il pranzo. «Certo, però, potevi anche fare un altro paio di infornate, perché mi sem­brano un po' pochini, questi biscotti» aggiunse ironica.
   «Ah-ah» replicò Giulia con una smorfia.
   «Sul serio, Giù, quanti biscotti hai preparato? Dieci chili? Undici?» insisté l'altra, decisa a punzecchiare l'amica.
   «Oggi pomeriggio ho due gruppi di ragazzini delle elementari: hai idea di quanto mangino sei bambini?» bofonchiò Giulia.
   «Quanto Tiziano da solo?» sghignazzò Vera.
   «Quasi» sbuffò l'altra. «È felice che io faccia questo servizio di doposcuola quasi solo per la quantità di dolci che cucino: ne avanzano sempre un po' e lui ci si ingozza sia prima che dopo cena».
   «Tipico suo: è senza fondo» commentò Vera. «E Ludovica?»
   «Da mia madre». Giulia mise via le teglie ormai vuote e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia. «Ho il primo gruppo tra un'ora: fammi fare il pieno di chiacchiere tra adulti prima che arrivino». Prese un panino dal piatto che aveva preparato prima dell'arrivo dell'amica, gli die­de un morso e masticò lentamente, scrutando con attenzione Vera; poi deglutì e si sporse ver­so di lei. «Hai riflettuto su quello che è successo ieri sera?»
   Vera appoggiò la fronte al tavolo con troppa forza: si sentì un tonfo, ma entrambe le donne fecero finta di nulla. «Ricordami per quale motivo ieri ti ho chiamata per raccontartelo» gru­gnì.
   «Ah, non lo so: so solo che l'hai fatto, quindi ora ti sorbisci tutte le mie domande» replicò decisa Giulia, posando il panino sul proprio piatto. «Lo sai che dovresti chiamarlo e scusarti per essere scappata, sì?»
   Vera mugugnò qualcosa, ma la sua voce venne soffocata dalla tovaglia.
   «Vè, anche se ti è antipatico, stavolta non ha fatto niente di male» insisté Giulia in tono pa­ziente. «Anzi, è stato carino, e lo sai. Mi spieghi perché sei scappata in quel modo?»
   «Mi ha toccato la protesi» mormorò Vera, rialzando la testa. «E lo so che l'ha fatto sovrappensiero, che non voleva schernirmi né... né altro, ma...» si torse le mani, «ma mi ha... mandata nel panico. Io... io...».
   «Tu non hai mai permesso a nessuno di toccare la tua protesi» concluse Giulia per lei, cal­ma. «Neanche a me. Neanche a tua madre, quando i primi tempi avevi ancora qualche diffi­coltà a prepararti per metterla e voleva aiutarti. Ti sei lasciata toccare solo dai fisioterapisti e dagli ortopedici che ti hanno curata, e lo capisco che per te sia ancora un trauma. Perché ti co­nosco. Perché siamo come sorelle. Perché fin dal primo giorno ti ho vista faticare per accetta­re di avere un pezzo di plastica e metallo a sostituire una parte del tuo corpo. Io lo so – ma Vittorio no, e per quanti difetti abbia, stavolta non è colpa sua».
   «Lo so che non può saperlo né capirlo. Ti giuro che lo so» rispose Vera, senza smettere di torturarsi le dita. «Ma è stato più forte di me. Mi è... mi è come mancata l'aria, quando ha appoggiato la mano sulla protesi, neanche potessi percepire il suo tocco. E forse è proprio quel­lo, che mi ha ferita». Una lacrima solitaria le scivolò lungo la guancia. «Non poter più sentire niente».
   Giulia si alzò e l'abbracciò, chinandosi su di lei.
   «Però questo lo senti» disse incoraggiante, stringendo le braccia intorno al corpo dell'amica. «E questo» aggiunse prima di scoccarle un bacio sulla testa. «E questo» proseguì in tono scherzoso, premendo appena il piede su quello sano di Vera. «Quando ti metti a pensare alla protesi e al fatto che lì non puoi più sentire nulla, ricordati di tutto il resto; ricordati di ogni altra parte del tuo corpo che ancora percepisce il tocco di qualcun altro, le carezze, il caldo e il freddo. Ricordati di questo».
   Vera annuì, tremante; si aggrappò alle spalle di Giulia e pianse.

******

Vittorio correva lungo i viali del parco, lanciando occhiate a destra e a sinistra per controllare ogni panchina sul suo cammino. Era occupato in questo modo già da mezz'ora: la sua fronte era madida di sudore e la maglietta che indossava esibiva una chiazza umida proprio al centro della schiena.
   Il carabiniere iniziò un secondo giro del parco, senza mai smettere di guardarsi intorno: bambini e cani affollavano i prati, mentre gli adulti li tenevano d'occhio dalle panchine e dai viali.
   Fu solo quando sentì un cane abbaiare molto vicino che Vittorio guardò di nuovo avanti a sé: a mezzo metro da lui, Hermes lo fissava e saltava come se avesse avuto le molle sotto le zampe.
   «Era ora» disse burbero Vittorio. Allungò la mano ed Hermes corse da lui per farsi accarez­zare. «Andiamo, grillo peloso: portami dalla tua padrona» aggiunse, dando due pacche sulla schiena del cane.
   Il pastore tedesco abbaiò di nuovo e scattò in avanti; Vittorio gli tenne dietro con una corsa leggera per una quindicina di metri, e finalmente trovò Vera. La ragazza era seduta da sola e stava leggendo alcuni fogli con tanta concentrazione da non accorgersi di Vittorio fino a quando il continuo abbaiare di Hermes non la costrinse ad alzare gli occhi.
   «Valenti» salutò scontenta. «Come fai a essere dappertutto?»
   Vittorio non si lasciò scoraggiare dal tono di lei e le sedette accanto. «Abilità di natura?» propose.
   «E io che speravo fossero solo coincidenze» mugugnò Vera.
   «Non oggi». La ragazza si girò a guardarlo e lui si strinse nelle spalle. «Sapevo che prima o poi saresti arrivata».
   «Quindi mi aspettavi». La voce di Vera suonava rassegnata mentre metteva via i fogli.
   «Sì. Dovevo ridarti questi» replicò Vittorio; frugò nel marsupio che portava in vita e ripescò una banconota da dieci euro che ficcò in mano alla ragazza.
   «Non li rivoglio» protestò Vera; cercò di restituirli a Vittorio, ma lui li afferrò e con un ge­sto fulmineo li infilò nella borsa semiaperta della ragazza per poi afferrarle le mani.
   «Lascia quei soldi dove sono, Gamba Bionica» disse perentorio. «Ieri avevo detto che vole­vo offrirti da bere» spiegò. «Se paghi la tua parte, viene meno lo scopo del mio invito». Le ri­volse uno sguardo provocatorio. «O magari stai tentando di farti invitare di nuovo a uscire?»
   Vera sbuffò. «No di certo, Valenti!»
   L'uomo sorrise dell'espressione indignata di lei; le lasciò le mani e si grattò la nuca. «Senti, la verità è che ti stavo cercando anche per un altro motivo. Io... io voglio chiederti scusa, se ieri sera ho fatto o detto qualcosa che ti ha infastidita».
   Vera batté rapidamente le palpebre, confusa. «Perché pensi che fossi infastidita?»
   Vittorio le rivolse uno sguardo altrettanto confuso. «Sei scappata» rispose semplicemente.
   La ragazza chiuse gli occhi e prese un respiro profondo.
   «Non posso credere a quello che sto per dire, ma tu non hai fatto niente di male, ieri» disse Vera dopo qualche istante di silenzio. «Se fossi stata infastidita o arrabbiata ti avrei mandato al diavolo: dopo tutti gli insulti che ti ho rivolto, ormai dovresti sapere che non ho problemi a dirtene di tutti i colori. È che ieri sera...». Esitò per un istante, poi si fece forza: una vocina, dentro la sua testa, continuava a ripeterle che Vittorio meritava una spiegazione degna di tale nome. «Ieri sera, quando mi hai toccato la protesi, sono andata nel panico. E non credo che sia stata colpa tua» aggiunse in fretta quando lo vide aprire la bocca per replicare. «Ci ho pensato, e credo che avrei reagito allo stesso modo anche se fosse stato qualcun altro, a farlo, perché non... non dipende da te: dipende da me». Si strofinò forte il volto con le mani. «Accidenti, non riesco a spiegarlo!»
   «Penso d'aver capito comunque» disse piano Vittorio. «Mi dispiace di averti toccato proprio quella gamba: l'ho fatto senza pensarci e non immaginavo che avresti reagito così... anche se forse avrei dovuto».
   Vera scosse la testa. «Io stessa non immaginavo che avrei reagito in quel modo: come avre­sti potuto prevederlo tu?»
   «Non lo so» rispose Vittorio con onestà. «So solo che non era quello che volevo: speravo di parlare un po' con te senza saltarci alla gola come facciamo di solito, e invece è andato tutto storto» aggiunse quasi tra sé.
   Vera lo guardò, incuriosita, poi s'infilò le mani in tasca e piegò la testa di lato, senza mai staccare gli occhi da lui. Il carabiniere rischiò di scoppiare a ridere: Vera aveva la stessa espressione di Hermes che, seduto davanti a loro, li scrutava battendo furiosamente la coda.
   «Che c'è di tanto divertente?» chiese la ragazza, interpretando correttamente l'espressione di Vittorio.
   Lui indicò Hermes. «Siete uguali» sghignazzò.
   Vera alzò gli occhi al cielo per un istante prima di tornare a osservare Vittorio con lo stesso sguardo curioso di poco prima.
   «Valenti, se ti faccio una domanda, prometti di rispondere sinceramente?» chiese a brucia­pelo.
   Vittorio le scoccò un'occhiata colma di sospetto. «Non me ne pentirò, vero?»
   Lei incrociò le braccia al petto e lo guardò male. «Certo che no!» rispose piccata. «Uomo di poca fede...» aggiunse in un borbottio ben udibile.
   Il carabiniere sospirò. «Va bene, allora: spara».
   Vera gli lanciò un altro sguardo torvo e per un attimo ebbe la tentazione di cancellargli quell'espressione da martire dalla faccia a suon di schiaffi, ma decise di lasciar perdere. Ri­fletté su come chiedergli cosa avesse voluto dire, affermando che la sera precedente era anda­to tutto storto, ma prima che potesse parlare il cellulare di Vittorio iniziò a squillare. Lui lo prese, lesse il nome di chi lo stava chiamando e fece una smorfia.
   «Scusa, ma a questa devo proprio rispondere».
   «Nessun problema» disse Vera.
   Il carabiniere accettò la chiamata. «Ciao, Emanuela. Come va il lavoro? Soddisfacente come sempre?» chiese pungente. Ascoltò in silenzio sua moglie, e più ascoltava più sul suo volto si dipingeva una rabbiosa incredulità. «Che significa, che non verrai a Roma neanche questo mese? Ma almeno l’hai chiesto, quel dannato trasferimento?». Digrignò i denti alla breve risposta di Emanuela. «Lo sapevo, Cristo! E no, non mi rifilare le solite cazzate su quanto sia importante il tuo lavoro! Sono tuo marito, cazzo!». Tacque, sempre più sconcerta­to. «Che cazzo significa, che ho smesso di essere tuo marito quando mi sono fatto rispedire a Roma? Non l’ho scelto io!». Ascoltò la replica di Emanuela e d'istinto scattò in piedi. «Ma che cazzo dici? Secondo te ho rischiato di farmi cacciare a calci in culo dall’Arma solo per essere degradato e rimandato a Roma? Io a Roma volevo tornarci da un pezzo, e per farlo mi sarebbe bastato chiedere il trasferimento: cosa che non ho mai fatto, e sai perché? Perché tu non volevi lasciare Milano!». Rise amaro, senza alcuna traccia di divertimento. «Ma smettila, Emanuela. Io lo so che non è solo per il lavoro, che non vuoi trasferirti. E visto che la metti così, se io ho smesso di essere tuo marito per essermi fatto spedire a Roma contro la mia vo­lontà, allora tu hai smesso di essere mia moglie già da qualche anno. Ti farò contattare dal mio avvocato per le pratiche della separazione, e non ti illudere di passarla liscia, perché sap­piamo tutti e due che posso ottenerla con l’addebito a tuo carico». Le urla della donna furono tanto alte da uscire dall’altoparlante del cellulare. «Non sprecare energie a urlare, e soprattut­to, non mi rompere più i coglioni. Addio».
   Vittorio chiuse la chiamata con il volto paonazzo e il fiato corto. Alzò lo sguardo, e si ac­corse che Vera la stava fissando con la bocca aperta e gli occhi fuori dalle orbite.
   L’uomo tornò a sedere. Vera fece per toccargli un braccio; si bloccò a metà del gesto, poi prese coraggio e appoggiò le dita sull’avambraccio di Vittorio. Lui non si spostò; con un mo­vimento lento estrasse dal marsupio un pacchetto di sigarette dall’aria frusta e un accendino, si ac­cese una sigaretta e prese una gran boccata.
   «Sto smettendo» spiegò a Vera, «ma aver mandato a fanculo mia moglie mi ha fatto venire voglia di festeggiare». Le allungò la sigaretta. «Vuoi?»
   Lei scosse la testa. «Io non fumo».
   Vittorio rise con un pizzico di sarcasmo. «Già, dimenticavo: la salutista, che non beve, non fuma, mangia sano e si allena tutti i giorni… e nonostante tutto, sta peggio di me!»
   Per una volta, Vera non se la prese: si rendeva conto che, per quanto il matrimonio di Vitto­rio potesse non essere stato ben riuscito, chiuderlo in quel modo l’aveva ferito.
   «Vittorio, stai bene?» gli chiese con dolcezza.
   Lui si alzò di scatto.
   «Sto benissimo, ho solamente bisogno di stare un po’ da solo» rispose brusco.
   «Va bene». Vittorio la guardò sorpreso, e Vera si sforzò di sorridere. «Muoviti, Valenti: va' a sfogarti, ma cerca di non staccare la testa a nessuno, per riuscirci».
   Vittorio annuì, schiacciò la sigaretta sotto la scarpa e dopo aver dato una pacca leggera sulla testa di Hermes a mo' di saluto, ricominciò a correre nella direzione da cui era arrivato. Vera abbracciò Hermes e guardò Vittorio sparire nei viali del parco, fingendo persino con se stessa di non essere delusa.

******

Vittorio rientrò al comando ancora fumante di rabbia, con i vestiti incollati alla pelle sudata e i capelli ritti sulla testa: senza neanche fermarsi dieci minuti per fare una doccia, andò a passo di marcia fino all'ufficio di Luciano e bussò con tanta forza da far tremare il battente.
   Nessuno rispose; in compenso pochi istanti più tardi la porta si spalancò, rivelando la faccia scura del maresciallo.
   «Valenti, pensi che tentare di buttare giù la porta sia una decisione saggia?» abbaiò.
   Vittorio s'insinuò nell'ufficio e prese a misurarlo a lunghi passi, le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati.
   «Mi serve un avvocato» annunciò a Luciano. L'espressione dell'altro passò da torva a mi­nacciosa, e Vittorio fece una smorfia. «Divorzista» precisò.
   Le sopracciglia di Luciano si sollevarono tanto da rischiare di raggiungere l'attaccatura dei capelli. «Addirittura? Ti va di parlarne?»
   Il quarantenne incrociò le braccia al petto. «Non c'è granché da dire. Emanuela non ha nes­suna intenzione di farsi trasferire a Roma, e la capisco: dopo due anni di relazione con il suo capo, non se la sente di lasciarlo» spiegò in tono acido.
   Luciano emise un fischio basso e prolungato, poi indicò a Vittorio una delle sedie di fronte alla scrivania; quando il più giovane si fu seduto, lui tornò alla propria poltrona, prese l'agen­da e la sfogliò per un paio di minuti prima di appuntare un nome e un numero di telefono su un pezzo di carta.
   «Quest'avvocato è molto bravo» commentò Luciano. «Gli basta poco per vincere le cause. Ma tu hai qualche prova che Emanuela ti tradisca?»
   Vittorio rise amaro; prese il foglietto e appoggiò i pugni sulla scrivania. «Lo sanno tutti che mi tradisce col suo capo: i suoi colleghi, la sua famiglia, i nostri amici... è peggio del segreto di Pulcinella».
   Luciano si accarezzò il mento. «Posso chiederti come mai hai deciso solo ora di chiedere la separazione, se hai sempre saputo che aveva una relazione con il suo capo?»
   L'altro si strinse nelle spalle. «Il nostro matrimonio si è rovinato almeno sei anni fa, e a me non interessava davvero quello che faceva: era più semplice ignorarla. E per lei valeva lo stesso: avrei potuto fare sesso con tutte le donne che avessi voluto, ma...». Scosse la testa. «Ci avevo creduto troppo, in quelle promesse, per tradirle. Volevo almeno conservare la dignità».
   «È più di quanto si possa dire di molti altri». Luciano si allungò e batté la mano su quella di Vittorio. «Sei un brav'uomo, Vittò, e qui puoi avere degli amici, se lo vuoi: buttati tutto alle spalle e ricomincia da capo. Ne sei in grado, e se dovessi avere bisogno di aiuto o anche solo di qualcuno che ti ascolti, ricorda che io ci sono».
   Vittorio sorrise debolmente e annuì. «Anche tu sei un brav'uomo, Lucià. Uno dei pochi che rispetto davvero». Alzò appena la mano che stringeva il foglietto e si alzò. «Meglio che vada a fare una doccia: puzzo».
   «Concordo». Luciano ridacchiò. «Cerca di non far impazzire Pastore, stanotte».
   «Farò del mio meglio». Vittorio raggiunse la porta e rivolse un'ultima occhiata all'amico. «Grazie di tutto, Lucià».
   «Quando vuoi» disse quieto l'altro mentre Vittorio lasciava l'ufficio.

******

Vera pestò i tasti del computer con tanta foga da farli scricchiolare.
   A quanto pareva, il professor Maesani aveva procrastinato per l'ennesima volta: quel matti­no si era presentato in ufficio tutto trafelato con la bellezza di tre saggi brevi da tradurre – due in inglese e uno in tedesco – pregandola di finirli il prima possibile, dato che la scadenza imposta dagli editori era fissata per quel pomeriggio. Per quel pomeriggio, si era ripetuta Vera con furia malcelata mentre lavorava a tutta velocità: aveva saltato il pranzo e convinto il suo cervello e la sua vescica che utilizzare il bagno non fosse necessario, ma il punto più alto l'aveva raggiunto cacciando il professore dal suo stesso ufficio per non farsi distrarre. Franco Maesani era di indole troppo pacifica per prendersela; in più aveva già ammesso di aver ri­mandato troppo a lungo la stesura di quei saggi, dunque era stato pronto ad accettare la scor­tesia di Vera senza battere ciglio.
   In quel momento, intenta a dare i tocchi finali all'ultima traduzione, Vera non si sarebbe mossa neanche se le fosse esplosa una bomba davanti al naso; quindi la porta dell'ufficio che si apriva passò completamente inosservata.
   Vera rilesse la frase che aveva appena sistemato, annuì tra sé e salvò il documento; mosse le spalle e il collo irrigiditi per distendere i muscoli, e quando alzò lo sguardo dallo schermo del computer si accorse di avere di fronte uno sconosciuto che la fissava.
   «Oddio!» urlò la ragazza, schiacciandosi contro lo schienale della poltrona. Si portò una mano al petto, il cuore che batteva frenetico, per poi scoccare uno sguardo cauto all'uomo. Doveva avere trent'anni o poco più; la barba e i capelli scuri tagliati corti le ricordarono vaga­mente Vittorio, ma il volto era più pieno e gli occhi più vivaci rispetto al carabiniere. «E lei chi è?»
   Lo sconosciuto non si scompose: le rivolse un sorriso e tese la mano.
   «Sono Fabio, un ex studente del professor Maesani» si presentò.
   Vera prese la mano che lui le offriva e la strinse debolmente. «Vera».
   Fabio si sistemò la giacca. «Il professore non c'è?»
   Vera mosse una mano verso le sedie in un muto invito ad accomodarsi, e l'uomo si lasciò cadere in quella più vicina.
   «Evidentemente no» rispose infine, accennando alla scrivania vuota dall'altro lato della stanza prima di controllare l'orologio: mancavano pochi minuti alle tre. «Dovrebbe tornare tra poco, però, se vuole aspettarlo» aggiunse.
   «Solo se non la disturbo» replicò Fabio. «Lei è un'assistente del professore?»
   La ragazza sbuffò. «No: mi ha assunta per tradurre gli articoli per le riviste internazionali. Sono la traduttrice e oggi sono praticamente Dio, perché ho fatto un miracolo: sono riuscita a rimediare alla pessima abitudine del professore di rimandare sempre tutto all'ultimo momen­to!»
   Senza alcun preavviso, Fabio scoppiò in una gran risata.
   «È bello sapere che certe cose non cambiano mai» commentò tra un singhiozzo di diverti­mento e l'altro. «Ricordo che la metà delle volte che prometteva di portarci delle dispense o qualsiasi altro materiale, finiva per presentarsi a mani vuote perché non aveva preparato nul­la!»
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Sicuramente capitava più della metà delle volte: direi almeno otto volte su dieci, se era già così».
   Fabio rise di nuovo, e stavolta Vera si unì a lui: i due erano ancora intenti a sghignazzare quando Maesani fece capolino nell'ufficio per accertarsi che fosse sicuro tornare lì.
   «Martini!» tuonò gioviale Maesani. Diede una pacca sulla spalla del più giovane e lo scos­se. «Sei passato a salutare il tuo vecchio professore, eh?». Guardò Vera. «Lo sa, signorina, che sono stato il relatore di questo screanzato? Mi ha fatto impazzire con quella tesi, conti­nuava a cambiarla. Alla fine però ne è uscito un gran bel lavoro, uno dei migliori che abbia mai supervisionato!»
   La donna inarcò le sopracciglia. «Ne so qualcosa di uomini che ti fanno impazzire con il loro lavoro» lo punzecchiò. «A proposito, le traduzioni sono pronte».
   «Ottimo, ottimo! Lei è la mia salvezza, signorina Nicolini». Maesani le rivolse un gran sor­riso, che si trasformò subito in un'espressione implorante. «Non è che le invierebbe per email alle redazioni?»
   Vera sbuffò. «Sì, sì, ci penso io – basta che mi dica a chi va inviato cosa».
   «Lei è la mia salvezza» ripeté convinto Maesani prima di dare un'altra pacca sulla spalla di Fabio. «Allora, Martini, andiamo a prenderci un caffè: voglio proprio sapere che stai combi­nando e mi conviene approfittarne, visto che non ti fai vedere quasi mai!»
   Fabio prese una penna, scribacchiò veloce il proprio numero di telefono su un pezzetto di carta abbandonato sulla scrivania e poi si alzò per seguire Maesani, ma non prima di aver ri­volto un piccolo sorriso a Vera. «Credo che passerò più spesso a trovarla, professore».
   Maesani tuonò la propria approvazione e lo trascinò via, e Fabio ebbe appena il tempo di scorgere Vera arrossire e ricambiare il suo sorriso.
   
 
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