Al confronto, dissero, io ero stata fortunato.
Ma all’epoca mi sembrava di avere più cose in comune con la ragazza morta che con quei poliziotti grossi e nerboruti o con i miei amici matricole universitarie, ancora sbigottiti. Io e la morta eravamo finiti nello stesso posto infimo. Stesi tra le foglie secche e i cocci di bottiglie di birra.
Durante lo stupro, mi era caduto l’occhio su un fermacoda rosa che spuntava tra le foglie e i cocci. Quando sentii la storia della ragazza morta, me la immaginai che supplicava come avevo fatto io e mi domandai a che punto il nastro si fosse tolto.
Se a toglierlo fosse stato l’uomo che l’aveva uccisa o se, per risparmiarsi il dolore in quel momento -pensando, senza dubbio sperando che più tardi avrebbe avuto il lusso di riflettere sulle implicazioni del fatto di «aiutare l’aggressore», la ragazza, incalzata da lui, si fosse sciolta i capelli da sola. Non lo saprò mai; come non saprò mai se il fermacoda fosse suo o se, al pari delle foglie, fosse arrivato lì in modo naturale. Ripensando a quel fermacoda rosa, mi verrà sempre in mente lei. Mi verrà in mente una ragazza negli ultimi attimi della sua vita.
Questo è quanto ricordo. Avevo le labbra spaccate. Me le ero morse quando lui mi aveva abbrancato da dietro e tappato la bocca. Poi aveva detto queste parole:
«Se strilli t’ammazzo».
Ero rimasto immobile.
«Hai capito? Se strilli sei morto».
Avevo fatto cenno di sì con la testa. Lui mi teneva le braccia incollate ai fianchi stringendomi col braccio destro e con il sinistro mi tappava la bocca.
Allora aveva tolto la mano dalla bocca.
Strillai. Subito. Di colpo.
Cominciammo a lottare.
Lui mi tappò la bocca di nuovo. Mi diede una ginocchiata dietro le gambe per farmi cadere.
«Stronzo, non hai capito. lo t'ammazzo. C’ho un coltello. T’ammazzo».
Abbandonò la presa e io, gridando, caddi sul vialetto di mattoni. Lui mi fu sopra e mi mollò un calcio su un fianco. Mi sfuggì qualche gemito, ma i miei gemiti non erano niente, erano passi felpati che lo incitavano, che lo giustifrcavano. Brancolai sul vialetto, carponi. Portavo un paio di mocassini dalla suola morbida con cui scalciavo all’impazzata; ma i calci andavano a vuoto o lo sfioravano e basta. Non avevo mai fatto la lotta ed a educazione fisica mi sceglievano sempre per ultimo.
In qualche modo, non ricordo come, riuscii a rialzarmi. Rammento di averlo morso, di avergli dato uno spintone, non so cos’altro. Poi mi misi a correre. Come un gigante onnipotente, lui allungò un braccio e mi riacciuffò per la punta dei miei capelli chiari e lunghi; diede uno strattone forte e mi fece cadere in ginocchio davanti a lui.
Quella fu la mia prima fuga mancata: i capelli, i capelli lunghi da femmina.