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Autore: Melian    02/07/2009    6 recensioni
"-Taci! Io non sono come Filippo! Non sono come quel buffone che non si regge nemmeno in piedi e lascia che insultino suo figlio! –, Alessandro urlava, troneggiava su Efestione e lo spingeva violentemente contro il giaciglio, col viso rosso e stravolto: solo ora, nell’eccesso, riusciva a tirar fuori ciò che veramente provava, la rabbia, la delusione, l’amarezza che lo dilaniavano. – Filippo non è più mio padre! Non sono come lui!"
[Prima classificata al contest "Sesso o amore?" giudicato da DonnieTZ sul forum di EFP]
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
- Questa storia fa parte della serie 'Alexandros'
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L'ESTASI DELL'EBBRO



Epiro, 337 a.C.

Il sole squarciò la coltre di nubi grigie che affollavano il cielo e balenò sugli elmi e le corazze di bronzo della colonna in marcia. Quella che in realtà era solo una sparuta compagnia, avanzava come un drappello compatto di guerrieri: ne avevano tutta la fierezza e il portamento e non sembravano esuli, bensì principi conquistatori; soprattutto Alessandro che, alla testa del piccolo gruppo di cavalieri, reggeva le redini del suo Bucefalo con la sola mano destra e teneva lo sguardo corrucciato fisso davanti a sé.
-Ricordami perché siamo in questo posto dimenticato dagli dèi, amico mio… -, Cassandro spezzò il silenzio quasi religioso.
-Ah! – sospirò Tolomeo in risposta. – Siamo venuti in questo posto sperduto per una bella vacanza, che domande! –, sorrise indulgente e si diede un’aria seria e supponente a cui un estraneo avrebbe indubbiamente creduto. Un estraneo, non certo i suoi amici, che scoppiarono a ridere.
-Ma falla finita, buffone! -, esclamò Leonnato scuotendo il capo bruno e mostrando i denti bianchi in una risata piena e soddisfatta.
L’ilarità e le risa si mescolavano allo sbruffare dei cavalli e al rumore dei loro zoccoli che impattavano sul terreno e si spense man mano che procedevano di buon passo lungo il sentiero in salita.
-Gli dèi solo sanno quanto mi manca la Macedonia! – borbottò Seleuco, sistemandosi una falda del mantello impolverato.
Una risata più sentita e profonda sovrastò le altre e tutti si sporsero per osservare Alessandro, coi capelli biondo miele agitati dal vento e la clamide gettata sulle spalle ampie in molte e scomposte pieghe che spiccava per il suo rosso cupo.
-Amici miei, devo riconoscerlo! -, la voce del giovane macedone era chiara e possente e rimbalzò sulle pareti rocciose della strettoia che attraversavano in fila per uno.– Sì, devo proprio riconoscerlo: senza il vostro solidale appoggio e la vostra resistenza di rudi guerrieri, non saprei proprio come fare! – e riprese a ridere, ovviamente ironico, davanti a quelle lamentele.
-Andiamo, Alessandro, lo sai che ti vogliamo bene! – interloquì immediatamente Nearco, col suo vocione cupo a cui cercò di dare un’inflessione femminile e squillante, quasi fastidiosamente petulante. Come se non bastasse, si atteggiò come un giovinetto dai modi molto affettati, sfarfallando le ciglia e sorridendo in maniera svenevole.
-Attento, Nearco, o potrebbero scambiarti per una delle vergini del tempio di Artemide! – insinuò immediatamente Filota, affiancandosi all’amico e dandogli una gomitata dritto al costato, ben assestata.
-Con tutti quei peli? Al massimo lo possono scambiare per un orso in calore! -. Perdicca non si lasciò sfuggire l’occasione di sfoggiare il suo pungente sarcasmo e far esplodere la sua risata chiassosa.
Quel riso fu contagioso e alimentò l’allegria che accompagnò i giovani fino al piccolo villaggio, una sorta di avamposto geografico della capitale dell’Epiro, dove risiedeva il Re Alessandro e dove aveva trovato asilo Olimpiade. Anche il figlio di Filippo avrebbe potuto alloggiare lì, tra gli agi della corte, ma aveva scelto altrimenti, pur di restare fianco a fianco con i suoi amici: nonostante la collera di Filippo, lo avevano spontaneamente seguito in esilio, avevano fatto cerchio attorno a lui e non lo avevano lasciato solo. Era sempre stato così, fin da quando si erano incontrati a Mieza e avevano studiato sotto la guida attenta di Aristotele.

I cavalli furono lasciati alle cure dei palafrenieri, che li condussero alle stalle, e serviti di avena e fieno.
I giovani, invece, si ritirarono nella casa approntata per loro: una grande costruzione organizzata su due piani, dove la sala principale era adibita a salone per i banchetti e le riunioni, mentre il piano superiore ospitava le camere da letto. L’arredamento era spartano, ma l’ambiente risultava
comunque confortevole per la presenza di camini e finestre che lasciavano trapelare la luce del sole al mattino.
Alessandro aveva appena spalancato della porta della sua stanza, l’unica che fosse riservata totalmente a lui. Fece appena in tempo a spogliarsi della clamide rossa e a gettarla con noncuranza su uno scranno di legno, che Efestione si affacciò oltre lo stipite, bussando lievemente una o due volte.
-Solo una parola prima che servano la cena. – mormorò Efestione, con quella sua voce vibrante e mascolina. Aveva i capelli scuri e fluenti, i lineamenti morbidi e nobili e labbra arcuate come se le avesse scolpite Fidia in persona.
Alessandro voltò il capo, lo inclinò leggermente come era sua inconscia abitudine fare, sporgendo un poco il collo sulla sinistra, in una posizione talmente plastica che pareva di trovarsi davanti a una delle opere di Lisippo che, in effetti, fu l’unico da cui poi il principe macedone si fece ritrarre. I suoi occhi, uno blu come il cielo terso e l’altro scuro come un pozzo di pece, scintillarono di gioia e si posarono sul viso di Efestione.
-Dimmi pure. Sai bene che ti ascolto volentieri.
Efestione entrò e accostò la porta al battente, socchiudendola. Si avvicinò al suo amico e lo squadrò mentre l’altro scioglieva gli schinieri e la corazza, rivelando solo la tunica in lino macchiata di sudore e aderente al torace come una seconda pelle.
-Non farci troppo caso. Alle lamentele, dico. I ragazzi hanno da ridire solo perché fanno gli spiritosi, ma la verità è che sono contenti di essere qui, al tuo fianco.
-No, mio Patroclo. – intervenne Alessandro, chiamandolo con quel soprannome tanto usuale tra loro due. – Non devi giustificarli: li capisco. Sono in esilio, lontani dalla Macedonia tanto quanto lo sono io. Quindi, sì: davvero posso comprendere ciò che provano. Mi manca Pella e mi manca mia sorella. Mi domando sempre come stia Cleopatra… -, si interruppe. Il tono era mesto e pensoso, anche quando riprese: - Sono grato a te e a tutti loro per avermi seguito spontaneamente, ma vi è costato l’esilio. Devo meritare il vostro perdono, per lo scotto che avete pagato.
-Sei un buon amico, Alessandro. E noi ti spalleggeremo. Questo è quanto e ti conviene accettarlo, pur nella tua infinita testardaggine. E’ stato sempre così, fin da quando eravamo al Liceo. – Efestione parve tirare così le somme e non volerne sapere di cambiare idea, si strinse persino nelle spalle a rimarcare quanto fosse ovvio. – Solo…. Beh, magari potevi evitare di tirare quella coppa sul brutto grugno di Attalo! –, diede un’ultima stoccata ironica per terminare degnamente il proprio discorso e scoppiò in una sonora risata.
-Avrei potuto evitarlo, certo, ma non sarei stato Alessandro! Quel porco di Attalo ha osato insultarmi e darmi del bastardo davanti a tutti e ha offeso mia madre. Meritava di peggio…-, e l’espressione di Alessandro ebbe un improvviso mutamento: da gioviale si fece corrucciata, striata di una rabbia latente.
In quei momenti era facile capire che stava andando in collera, perché il viso e il petto diventavano rossi per un’ istantanea affluenza del sangue. Qualcuno riteneva, per quel colorito acceso, che in lui ci fosse uno spirito di fuoco, un demone o un dio dall’energia sensazionale pronto ad esplodere. Tuttavia, quel cavallo indomito e scalpitante nell’animo del giovane venne domato e Alessandro tornò quieto.
-Ma evitiamo di avvelenarci con queste stupide faccende… direi di scendere e mangiare.
-Ah, quanto sei saggio! – ironizzò Efestione, dandogli una pacca vigorosa sulla spalla e avviandosi con lui giù per la scala di legno.

Le ragazze del villaggio erano entusiaste di poter presenziare e servire ai banchetti della schiera dei giovani esuli, soprattutto perché sapevano che tra di essi vi era il nipote del re e perché il loro arrivo aveva portato una ventata di novità e divertimento.
Così, ogni sera le cuoche si adoperavano per preparare i più succulenti dei
cibi, a base di carne, frutta secca e verdure con salse e buon vino di montagna, di quello corposo e rosso che avrebbe fatto invidia alle riserve di Dioniso.
La sala dei banchetti veniva arredata con dei triclini in legno intagliato a mano dai falegnami del
posto, costruiti apposta per gli ospiti e foderati di stoffa pregiata. Sulle tavole larghe e basse venivano servite le pietanze e non mancavano mai i coloratissimi fiori di campo, di cui ci
si serviva anche per intrecciare corone da offrire ai commensali.
Fanciulle brune e alte, snelle e agili come cerve e tuttavia temprate dalla vita
montana, si riversarono nella sala portando i piatti a tavola proprio mentre i macedoni prendevano posto, vestite di leggere tuniche e semplici sandali: erano belle nella loro selvatica semplicità.
Quattro
donne presero i propri strumenti musicali di legno, flauti, cetre e tamburelli, e cominciarono a far musica, per accompagnare il pasto con melodie dolci e struggenti, oppure ben cadenzate e ballabili. Lasciavano fluire la musica in modo da accompagnare le proprie compagne in una delicata e improvvisata danza, una coreografia che non aveva nulla di artificioso, eseguita nel palpitare delle tuniche ondeggianti.
Una tale visione, unita al vino dell’Illiria, scaldava come non mai i giovani macedoni, che si lasciavano volentieri tentare da quelle bellezze straniere, tanto diverse da quelle eteree e troppo delicate delle ateniesi, più conturbanti di quelle spartane nella loro naturalezza.
Ben presto, però, quel banchetto si trasformò in un Baccanale.
Al suono dei tamburelli, danzatrici e giovani guerrieri si lanciarono in un ballo sfrenato, stringendosi, carezzandosi, volteggiando e baciandosi. La musica salì d’intensità man mano che i fumi dell’alcool annebbiavano le menti e risvegliavano i desideri più libidinosi. La sala sembrò trasformarsi in un bosco dove si aggiravano sfrenatamente le Menadi e i loro amanti, fino a che i corpi si avvilupparono e si persero in lubrici giochi, col cibo che veniva voluttuosamente passato di bocca in bocca. Pelle che sfregava contro altra pelle.
La sala si riempì di ansiti ed esclamazioni di piacere: l’orgia prese vita.
La musica cessò di colpo quando le citarede furono strappate dalla loro postazione e ghermite dalle dita di Meleagro e Leonnado, rapite e trascinate al piano superiore, nelle stanze, sui tappeti e i cuscini.
Solo Alessandro pareva impassibile.
Davanti agli eccessi, alle grida, ai giochi, lui aveva un’aria apparentemente morigerata e disinteressata e osservava ciò che accadeva come se non fosse stato nemmeno presente, bevendo il vino speziato col miele in una coppa dorata. Trangugiava fino in fondo la bevanda, la assaporava e se ne faceva versare dell’altra. Era l’effige della calma, in apparenza.
Peccato che chi lo conosceva bene riuscisse a scorgere anche i più minuti mutamenti sul suo volto, quel socchiudersi degli occhi, quella piccola ruga d’espressione al centro della fronte e quell’annebbiarsi della coscienza nelle labbra schiuse.
Efestione se ne accorse: nella sua ubriachezza, attorniato da almeno due ballerine, notò l’appannamento dei sensi del suo amico, quello che non eccedeva mai e che ora aveva assunto le sembianze di una tempesta pronta ad infuriare.
-Alessandro… -, Efestione mugolò quel nome con la voce impastata. Fece per raggiungere l’amico, ma Cratero lo precedette, assieme ad altre tre donne, e raggiunse il triclinio su cui il principe macedone era steso in un molle abbandono che solo Dioniso avrebbe potuto eguagliare.
-Vieni con noi, allora. Le donne ti vogliono. -, dichiarò secco Cratero e sorrise in maniera quasi ebete.
A riprova, comunque, le tre fanciulle che lo avevano seguito fecero in modo che il principe si tirasse in piedi, e si avviarono su per le scale, nella camera di Alessandro. Per inerzia, il principe camminò e li seguì, con l’atteggiamento noncurante di chi è perso in altri pensieri e lasciò che le donne lo facessero distendere sul letto coperto di pelli e cuscini e chiudessero la porta.

Efestione poté seguire la scena solo di sfuggita. Si liberò ben presto delle ragazze che lo attorniavano e lasciò i propri compagni indietro, per raggiungere in fretta il primo piano della costruzione, accostarsi alla porta socchiusa e spiare all’interno della stanza cosa stesse accadendo.
Trovò Alessandro nudo, steso sul letto e preda delle cure delle tre fanciulle, delle loro mani e delle loro labbra, ma senza in realtà esserne veramente coinvolto: fissava semplicemente il soffitto, indolente, anche quando una delle donne gli si sedette a cavalcioni addosso.
Efestione, contrariato, spalancò la porta senza troppe cerimonie.
-Via! Andate via! – scacciò con gesti imperiosi le tre ragazze e raggiunse il giaciglio, dando uno scrollone ad Alessandro e afferrandolo saldamente per le spalle. – Che diamine pensavi di fare? Bere?! Non ti ho mai visto ubriacarti e non azzardarti a rifarlo! -, Efestione pareva davvero furibondo, probabilmente il vino faceva sragionare ed esagerare anche lui.
-Basta! -, fu il comando imperioso di Alessandro. Con uno scatto del braccio cercò di allontanare l’amico, riconoscendolo a malapena. Quelle invettive, quegli strattoni ebbero un effetto diametralmente opposto: invece di calmare e ricondurre alla lucidità, aizzarono Alessandro e fecero traboccare la sua ira latente: - Come osi giudicarmi? Come osi dirmi cosa devo fare? -, cacciò un urlo rabbioso e si alzò di scatto, afferrando Efestione per il colletto della tunica e imponendogli una torsione violenta del busto.
-Lasciami! Sei ubriaco fradicio! Sei come tuo padre! Ridicolo quanto lui! –. Efestione oppose la sua forza a quella dell’altro uomo, ritrovandosi a rotolare sul letto, troppo offuscato dal vino e colto di sorpresa. Quello che era certo, era che non smetteva di sbraitare e lanciare critiche, stringendo i denti e col muso schiacciato contro uno dei cuscini.
-Taci! Io non sono come Filippo! Non sono come quel buffone che non si regge nemmeno in piedi e lascia che insultino suo figlio! –, Alessandro urlava, troneggiava su Efestione e lo spingeva violentemente contro il giaciglio, col viso rosso e stravolto: solo ora, nell’eccesso, riusciva a tirar fuori ciò che veramente provava, la rabbia, la delusione, l’amarezza che lo dilaniavano. – Filippo non è più mio padre! Non sono come lui! – e afferrò l’amico per i capelli, costringendolo a forza a restare prono. E gli si scagliò contro, come in una lotta corpo a corpo nel ginnasio a Mieza, tra la polvere. Solo che ora c’erano cuscini, pelle nuda su cui scorreva il sudore e la rabbia accecante.
Alessandro ed Efestione combatterono, nudi e rabbiosi, cercando di sottomettersi l’un l’altro.
Il principe macedone, tuttavia, risultò più forte e costrinse all’immobilità il proprio avversario.
Efestione offriva una schiena ampia e brunita dal sole, levigata e in cui i muscoli erano tesi, le vertebre un rosario da sgranare in punta di dita e di cui Alessandro s’impadronì, imprimendoci i polpastrelli come a voler lasciare orma indelebile. Nell’ebbrezza, nella follia, morse quella schiena e il collo e le spalle a sangue, come una belva inferocita e lavò via quelle linee cremisi con la lingua, furiosamente.
Eccitato dallo scontro, eccitato da quel sentore mascolino di cui l’aria s’era impregnata, eccitato, infine, dalla vicinanza di colui che più amava e che gli era più affine, Alessandro se ne volle impossessare fino all’ultimo, volle vincerlo e piegarlo ai suoi voleri, alla sua collera. E lo prese, affondò il proprio vigore nel corpo di Efestione e non si fermò all’urlo dell’uomo, consumando il proprio furore su quel corpo contratto, inglobando la rabbia dell’altro e portandola con sé nell’estasi e nell’oblio. Lo cavalcò, lo montò come avrebbe fatto con un cavallo bizzoso, come con Bucefalo qualche anno prima, col medesimo piglio deciso ed entusiasta. Leccò la pelle salata del suo compagno e si fece strada nelle sue carni come un conquistatore, sospingendosi dentro di lui a raccogliere il brivido di piacere lubrico che tanto lo infiammava e che si espandeva come un temporale nella selva di vene e nervi. Colse il fiore del piacere e inondò la cosce di Efestione con la prova certa del suo vigore, incensando in tal modo il tempio profanato.
Alla fine, Alessandro restò immobile, con le mani inerti sulle proprie cosce muscolose, solcate da alcune cicatrici oblique; respirava affannato e teneva gli occhi sbarrati. La rabbia era scomparsa e restava solo il piacere derivato dalla violenza e dall’amplesso.
Erano entrambi troppo stanchi, troppo ubriachi perché ci fosse un vincitore in quella lotta carnale, ma finalmente placati.
-Io non sono come Filippo. -, mugolò Alessandro, mentre fissava con occhi vacui la fiammella di una lucerna su un mobile di cui non riusciva a scorgere i particolari.
-No, non lo sei. Ma evita di sbronzarti per convincerti di questo. -, rispose celere Efestione, toccando il nocciolo della questione che gli stava così a cuore. Accostò il viso a quello dell’altro e gli carezzò i capelli biondi e scarmigliati come se fosse davanti ad un bambino. – Mio Achille, devi smetterla di portarti dietro tutto questo rancore. – e lo baciò, un bacio rude e per niente lascivo, nient’altro che un rinnovamento della fedeltà e dell’affetto che li legava. Si rialzò, s’infilò il perizoma e uscì dalla stanza, lasciando il principe di Macedonia da solo coi suoi pensieri nuvolosi.

Il giorno dopo, di buon mattino, un ragazzetto corse verso la casa che ospitava i guerrieri macedoni. Recava con sé un messaggio firmato da Demarato di Corinto, il quale caldeggiava un incontro al palazzo reale, sì da riunire Alessandro, Olimpiade e l’intera schiera di esuli volontari e invitarli a partire alla volta della Macedonia: Filippo voleva che rientrassero tutti in patria, in vista della nuova spedizione che stava approntando.
Era tempo di tornare a casa.

 


 

 

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Note dell’autrice:

“L’estasi dell’ebbro” è stata scritta per la Bridge Challange di Criticoni feat FanFic Italia e che è la seconda delle due storie imperniate sulla dicotomia het/slash.

(Voglio far notare anche come questo sia il mio primo esperimento di slash! XD Speriamo bene...)

Questa storia – in accordo a quanto raccontato da Plutarco nella sua “Vita di Alessandro” - è ambientata nell’anno 337 a.C. In quel periodo, Filippo prende in sposa Euridice, nipote di Attalo, dopo aver ripudiato Olimpiade. E’ celebre l’episodio che vede Alessandro, nel giorno delle nozze di Filippo con Euridice, scagliarsi contro Attalo, suscitando la rabbia del padre che lo volle disconoscere, ubriaco e fuori di sé com’era.

Quindi, Alessandro e sua madre scelsero l’esilio volontario e si ritirarono in Epiro, ai confini con l’Illiria, alla corte del fratello della stessa Olimpiade. Restarono lìfino a quando Filippo non inviò Demarato di Corinto per invitarli a tornare in patria e ad appianare i dissidi familiari. Nella realtà dei fatti, Filippo voleva evitare che Alessandro aizzasse le tribù illire contro la Macedonia, mentre lui era occupato in una nuova campagna militare.
Secondo alcune versioni, comunque, anche Efestione e il resto dei compagni di Alessandro scelsero la strada dell’esilio ed è questa la variante che ho scelto di fare mia, ispirandomi così anche alla trilogia di Manfredi “Alèxandros”.

 

 

   
 
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