L'ESTASI DELL'EBBRO
Epiro,
337 a.C.
Il sole squarciò la coltre di nubi grigie che affollavano il
cielo e balenò
sugli elmi e le corazze di bronzo della colonna in marcia. Quella che
in realtà
era solo una sparuta compagnia, avanzava come un drappello compatto di
guerrieri: ne avevano tutta la fierezza e il portamento e non
sembravano esuli,
bensì principi conquistatori; soprattutto Alessandro che, alla testa
del
piccolo gruppo di cavalieri, reggeva le redini del suo Bucefalo con la
sola
mano destra e teneva lo sguardo corrucciato fisso davanti a sé.
-Ricordami perché siamo in questo posto dimenticato dagli
dèi, amico mio…
-, Cassandro spezzò il silenzio quasi religioso.
-Ah! – sospirò Tolomeo in risposta. – Siamo venuti in questo
posto sperduto
per una bella vacanza, che domande! –, sorrise indulgente e si diede
un’aria
seria e supponente a cui un estraneo avrebbe indubbiamente creduto. Un
estraneo, non certo i suoi amici, che scoppiarono a ridere.
-Ma falla finita, buffone! -, esclamò Leonnato scuotendo il capo bruno
e
mostrando i denti bianchi in una risata piena e soddisfatta.
L’ilarità e le risa si mescolavano allo sbruffare dei cavalli
e al rumore
dei loro zoccoli che impattavano sul terreno e si spense man mano che
procedevano di buon passo lungo il sentiero in salita.
-Gli dèi solo sanno quanto mi manca la Macedonia! – borbottò
Seleuco,
sistemandosi una falda del mantello impolverato.
Una risata più sentita e profonda sovrastò le altre e tutti
si sporsero per
osservare Alessandro, coi capelli biondo miele agitati dal vento e la
clamide
gettata sulle spalle ampie in molte e scomposte pieghe che spiccava per
il suo
rosso cupo.
-Amici miei, devo riconoscerlo! -, la voce del giovane
macedone era chiara
e possente e rimbalzò sulle pareti rocciose della strettoia che attraversavano
in fila
per uno.– Sì, devo proprio riconoscerlo: senza il vostro solidale
appoggio e la
vostra resistenza di rudi guerrieri, non saprei proprio come fare! – e
riprese
a ridere, ovviamente ironico, davanti a quelle lamentele.
-Andiamo, Alessandro, lo sai che ti vogliamo bene! –
interloquì
immediatamente Nearco, col suo vocione cupo a cui cercò di dare
un’inflessione
femminile e squillante, quasi fastidiosamente petulante. Come se non
bastasse,
si atteggiò come un giovinetto dai modi molto affettati, sfarfallando
le ciglia
e sorridendo in maniera svenevole.
-Attento, Nearco, o potrebbero scambiarti per una delle
vergini del tempio
di Artemide! – insinuò immediatamente Filota, affiancandosi all’amico e
dandogli una gomitata dritto al costato, ben assestata.
-Con tutti quei peli? Al massimo lo possono scambiare per un
orso in
calore! -. Perdicca non si lasciò sfuggire l’occasione di sfoggiare il
suo
pungente sarcasmo e far esplodere la sua risata chiassosa.
Quel riso fu contagioso e alimentò l’allegria che accompagnò
i giovani fino
al piccolo villaggio, una sorta di avamposto geografico della capitale
dell’Epiro, dove risiedeva il Re Alessandro e dove aveva trovato asilo
Olimpiade. Anche il figlio di Filippo avrebbe potuto alloggiare lì, tra
gli agi
della corte, ma aveva scelto altrimenti, pur di restare fianco a fianco
con i
suoi amici: nonostante la collera di Filippo, lo avevano spontaneamente
seguito
in esilio, avevano fatto cerchio attorno a lui e non lo avevano
lasciato solo.
Era sempre stato così, fin da quando si erano incontrati a Mieza e
avevano
studiato sotto la guida attenta di Aristotele.
I cavalli furono lasciati alle cure dei palafrenieri, che li condussero
alle
stalle, e serviti di avena e fieno.
I giovani, invece, si ritirarono nella casa approntata per loro: una
grande
costruzione organizzata su due piani, dove la sala principale era
adibita a salone
per i banchetti e le riunioni, mentre il piano superiore ospitava le
camere da
letto. L’arredamento era spartano, ma l’ambiente risultava
comunque confortevole per la presenza di camini e finestre che
lasciavano
trapelare la luce del sole al mattino.
Alessandro aveva appena spalancato della porta della sua stanza,
l’unica che
fosse riservata totalmente a lui. Fece appena in tempo a spogliarsi
della
clamide rossa e a gettarla con noncuranza su uno scranno di legno, che
Efestione si affacciò oltre lo stipite, bussando lievemente una o due
volte.
-Solo una parola prima che servano la cena. – mormorò Efestione, con
quella sua
voce vibrante e mascolina. Aveva i capelli scuri e fluenti, i
lineamenti
morbidi e nobili e labbra arcuate come se le avesse scolpite Fidia in
persona.
Alessandro voltò il capo, lo inclinò leggermente come era sua inconscia
abitudine fare, sporgendo un poco il collo sulla sinistra, in una
posizione
talmente plastica che pareva di trovarsi davanti a una delle opere di
Lisippo
che, in effetti, fu l’unico da cui poi il principe macedone si fece
ritrarre. I
suoi occhi, uno blu come il cielo terso e l’altro scuro come un pozzo
di pece,
scintillarono di gioia e si posarono sul viso di Efestione.
-Dimmi pure. Sai bene che ti ascolto volentieri.
Efestione entrò e accostò la porta al battente, socchiudendola. Si
avvicinò al
suo amico e lo squadrò mentre l’altro scioglieva gli schinieri e la
corazza,
rivelando solo la tunica in lino macchiata di sudore e aderente al
torace come
una seconda pelle.
-Non farci troppo caso. Alle lamentele, dico. I ragazzi hanno da ridire
solo
perché fanno gli spiritosi, ma la verità è che sono contenti di essere
qui, al
tuo fianco.
-No, mio Patroclo. – intervenne Alessandro, chiamandolo con quel
soprannome
tanto usuale tra loro due. – Non devi giustificarli: li capisco. Sono
in
esilio, lontani dalla Macedonia tanto quanto lo sono io. Quindi, sì:
davvero
posso comprendere ciò che provano. Mi manca Pella e mi manca mia
sorella. Mi
domando sempre come stia Cleopatra… -, si interruppe. Il tono era mesto
e
pensoso, anche quando riprese: - Sono grato a te e a tutti loro per
avermi
seguito spontaneamente, ma vi è costato l’esilio. Devo meritare il
vostro
perdono, per lo scotto che avete pagato.
-Sei un buon amico, Alessandro. E noi ti spalleggeremo. Questo è quanto
e ti
conviene accettarlo, pur nella tua infinita testardaggine. E’ stato
sempre
così, fin da quando eravamo al Liceo. – Efestione parve tirare così le
somme e
non volerne sapere di cambiare idea, si strinse persino nelle spalle a
rimarcare quanto fosse ovvio. – Solo…. Beh, magari potevi evitare di
tirare
quella coppa sul brutto grugno di Attalo! –, diede un’ultima stoccata
ironica
per terminare degnamente il proprio discorso e scoppiò in una sonora
risata.
-Avrei potuto evitarlo, certo, ma non sarei stato
Alessandro! Quel porco di Attalo ha osato insultarmi e darmi del
bastardo
davanti a tutti e ha offeso mia madre. Meritava di peggio…-, e
l’espressione di
Alessandro ebbe un improvviso mutamento: da gioviale si fece
corrucciata,
striata di una rabbia latente.
In quei momenti era facile capire che stava andando in collera, perché
il viso
e il petto diventavano rossi per un’ istantanea affluenza del sangue.
Qualcuno
riteneva, per quel colorito acceso, che in lui ci fosse uno spirito di
fuoco,
un demone o un dio dall’energia sensazionale pronto ad esplodere.
Tuttavia,
quel cavallo indomito e scalpitante nell’animo del giovane venne domato
e
Alessandro tornò quieto.
-Ma evitiamo di avvelenarci
con
queste stupide faccende… direi di scendere e mangiare.
-Ah, quanto sei saggio! – ironizzò Efestione, dandogli una pacca
vigorosa sulla
spalla e avviandosi con lui giù per la scala di legno.
Le ragazze del villaggio erano entusiaste di poter presenziare e
servire ai
banchetti della schiera dei giovani esuli, soprattutto perché sapevano
che tra
di essi vi era il nipote del re e perché il loro arrivo aveva portato
una
ventata di novità e divertimento.
Così, ogni sera le cuoche si adoperavano per preparare i più succulenti
dei cibi,
a base di carne, frutta secca
e verdure con salse e
buon vino di montagna, di quello corposo e rosso che avrebbe fatto
invidia alle
riserve di Dioniso.
La sala dei banchetti veniva arredata con dei triclini in legno
intagliato a
mano dai falegnami del
posto, costruiti apposta per gli ospiti e foderati di stoffa pregiata.
Sulle
tavole larghe e basse venivano servite le pietanze e non mancavano mai
i
coloratissimi fiori di campo, di cui ci si
serviva anche per intrecciare corone da offrire ai commensali.
Fanciulle brune e alte, snelle e agili come cerve e tuttavia temprate
dalla
vita montana, si
riversarono nella sala
portando i piatti a tavola proprio mentre i macedoni prendevano posto,
vestite
di leggere tuniche e semplici sandali: erano belle nella loro selvatica
semplicità.
Quattro donne presero i propri strumenti musicali di
legno, flauti,
cetre e tamburelli, e cominciarono a far musica, per accompagnare il pasto con melodie dolci e struggenti,
oppure ben cadenzate
e ballabili. Lasciavano fluire la musica in modo da accompagnare le
proprie
compagne in una delicata e improvvisata danza, una coreografia che non
aveva nulla
di artificioso, eseguita nel palpitare delle tuniche ondeggianti.
Una tale visione, unita al
vino dell’Illiria, scaldava
come non mai i giovani macedoni, che si lasciavano volentieri
tentare da quelle bellezze straniere, tanto diverse da quelle eteree
e troppo delicate delle
ateniesi, più conturbanti di quelle
spartane nella loro naturalezza.
Ben presto, però, quel
banchetto si trasformò in
un Baccanale.
Al suono dei tamburelli,
danzatrici e giovani
guerrieri si lanciarono in un ballo sfrenato, stringendosi,
carezzandosi,
volteggiando e baciandosi. La musica salì d’intensità man mano che i
fumi
dell’alcool annebbiavano le menti e risvegliavano i desideri più
libidinosi. La
sala sembrò trasformarsi in un bosco dove si aggiravano sfrenatamente
le Menadi
e i loro amanti, fino a che i corpi si avvilupparono e si persero
in lubrici giochi, col cibo
che veniva voluttuosamente
passato di bocca in bocca. Pelle che sfregava contro altra pelle.
La sala si riempì di ansiti ed
esclamazioni di
piacere: l’orgia prese vita.
La musica cessò di colpo
quando le citarede furono
strappate dalla loro postazione e ghermite dalle dita di Meleagro e
Leonnado,
rapite e trascinate al piano superiore, nelle stanze, sui tappeti e i
cuscini.
Solo Alessandro pareva
impassibile.
Davanti agli eccessi, alle
grida, ai giochi, lui
aveva un’aria apparentemente morigerata e disinteressata e osservava
ciò che
accadeva come se non fosse stato nemmeno
presente, bevendo il vino speziato col miele in una coppa dorata.
Trangugiava
fino in fondo la bevanda, la assaporava e se ne faceva versare
dell’altra. Era
l’effige della calma, in apparenza.
Peccato che chi lo conosceva
bene riuscisse a scorgere
anche i più minuti mutamenti sul
suo volto, quel socchiudersi degli occhi, quella piccola ruga
d’espressione al
centro della fronte e quell’annebbiarsi della coscienza nelle labbra
schiuse.
Efestione se ne accorse: nella
sua ubriachezza,
attorniato da almeno due ballerine, notò l’appannamento dei sensi del
suo
amico, quello che non eccedeva mai e che ora aveva assunto le sembianze
di una
tempesta pronta ad infuriare.
-Alessandro… -, Efestione
mugolò quel nome con la
voce impastata. Fece per raggiungere l’amico, ma Cratero lo precedette,
assieme
ad altre tre donne, e raggiunse il triclinio su cui il principe
macedone era
steso in un molle abbandono che solo Dioniso avrebbe potuto eguagliare.
-Vieni con noi, allora. Le
donne ti vogliono. -,
dichiarò secco Cratero e sorrise in maniera
quasi ebete.
A riprova, comunque, le tre
fanciulle che lo avevano
seguito fecero in modo che il principe si tirasse in piedi, e si
avviarono su
per le scale, nella camera di Alessandro. Per inerzia, il principe
camminò e li
seguì, con l’atteggiamento noncurante di chi è perso in altri pensieri
e lasciò
che le donne lo facessero distendere sul letto coperto di pelli e
cuscini e
chiudessero la porta.
Efestione poté seguire la
scena solo di sfuggita. Si
liberò ben presto delle ragazze che lo attorniavano e lasciò i propri
compagni
indietro, per raggiungere in fretta il primo piano della costruzione,
accostarsi alla porta socchiusa e spiare all’interno della stanza cosa
stesse
accadendo.
Trovò Alessandro nudo, steso
sul letto e preda delle
cure delle tre fanciulle, delle loro mani e delle loro labbra, ma senza
in
realtà esserne veramente coinvolto: fissava semplicemente il soffitto,
indolente, anche quando una delle donne gli si sedette a cavalcioni
addosso.
Efestione, contrariato,
spalancò la porta senza
troppe cerimonie.
-Via! Andate via! – scacciò
con gesti imperiosi le
tre ragazze e raggiunse il giaciglio, dando uno scrollone
ad Alessandro
e afferrandolo saldamente per
le spalle. – Che
diamine pensavi di fare? Bere?! Non ti ho mai visto ubriacarti e non
azzardarti
a rifarlo! -, Efestione pareva davvero furibondo, probabilmente il vino
faceva
sragionare ed esagerare anche lui.
-Basta! -, fu il comando
imperioso di Alessandro. Con
uno scatto del braccio cercò di allontanare l’amico, riconoscendolo
a malapena. Quelle invettive,
quegli strattoni ebbero un
effetto diametralmente opposto: invece di calmare e ricondurre alla
lucidità,
aizzarono Alessandro e fecero traboccare la sua ira latente: - Come osi
giudicarmi? Come osi dirmi cosa devo fare? -, cacciò un urlo rabbioso e
si alzò
di scatto, afferrando Efestione per il colletto della tunica e
imponendogli una
torsione violenta del busto.
-Lasciami! Sei ubriaco
fradicio! Sei come tuo padre!
Ridicolo quanto lui! –. Efestione oppose la sua forza a quella
dell’altro uomo,
ritrovandosi a rotolare sul letto, troppo offuscato dal vino e colto di
sorpresa. Quello che era certo, era che non smetteva di sbraitare e
lanciare
critiche, stringendo i denti e col muso schiacciato contro uno dei
cuscini.
-Taci! Io non sono come
Filippo! Non sono come quel
buffone che non si regge nemmeno in piedi e lascia che insultino suo
figlio! –,
Alessandro urlava, troneggiava su Efestione e lo spingeva violentemente
contro
il giaciglio, col viso rosso e stravolto: solo ora, nell’eccesso,
riusciva a
tirar fuori ciò che veramente provava, la rabbia, la delusione,
l’amarezza che
lo dilaniavano. – Filippo non è più mio padre! Non sono come lui! – e
afferrò
l’amico per i capelli, costringendolo a forza a restare
prono. E gli si scagliò
contro, come in una lotta corpo a corpo
nel ginnasio a Mieza, tra la polvere. Solo che ora c’erano cuscini,
pelle nuda
su cui scorreva il sudore e la rabbia accecante.
Alessandro ed Efestione
combatterono, nudi e
rabbiosi, cercando di sottomettersi l’un l’altro.
Il principe macedone,
tuttavia, risultò più forte e
costrinse all’immobilità il proprio avversario.
Efestione offriva una schiena
ampia e brunita dal
sole, levigata e in cui i muscoli erano tesi, le vertebre un rosario da
sgranare in punta di dita e di cui Alessandro s’impadronì, imprimendoci
i
polpastrelli come a voler lasciare orma indelebile. Nell’ebbrezza,
nella
follia, morse quella schiena e il collo e le spalle a sangue, come una
belva
inferocita e lavò via quelle linee cremisi con la lingua, furiosamente.
Eccitato dallo scontro,
eccitato da quel sentore
mascolino di cui l’aria s’era impregnata, eccitato, infine, dalla
vicinanza di
colui che più amava e che gli era più affine, Alessandro se ne volle
impossessare fino all’ultimo, volle vincerlo e piegarlo ai suoi voleri,
alla
sua collera. E lo prese, affondò il proprio vigore nel corpo di
Efestione e non
si fermò all’urlo dell’uomo, consumando il proprio furore su quel corpo
contratto, inglobando la rabbia dell’altro e portandola con sé
nell’estasi e
nell’oblio. Lo cavalcò, lo montò come avrebbe fatto con un cavallo
bizzoso,
come con Bucefalo qualche anno prima, col medesimo piglio deciso ed
entusiasta.
Leccò la pelle salata del suo compagno e si fece strada nelle sue carni
come un
conquistatore, sospingendosi dentro di lui a raccogliere il brivido di
piacere
lubrico che tanto lo infiammava e che si espandeva come un temporale
nella
selva di vene e nervi. Colse il fiore del piacere e inondò la cosce di
Efestione con la prova certa del suo vigore, incensando in tal modo il
tempio
profanato.
Alla fine, Alessandro restò
immobile, con le mani
inerti sulle proprie cosce muscolose, solcate da alcune cicatrici
oblique;
respirava affannato e teneva gli occhi sbarrati. La rabbia era
scomparsa e
restava solo il piacere derivato dalla violenza e dall’amplesso.
Erano entrambi troppo stanchi,
troppo ubriachi perché
ci fosse un vincitore in quella lotta carnale, ma finalmente placati.
-Io non sono come Filippo. -,
mugolò Alessandro,
mentre fissava con occhi vacui la fiammella di una lucerna su un mobile
di cui
non riusciva a scorgere i particolari.
-No, non lo sei. Ma evita di
sbronzarti per
convincerti di questo. -, rispose celere Efestione, toccando il
nocciolo della
questione che gli stava così a cuore. Accostò il viso a quello
dell’altro e gli
carezzò i capelli biondi e scarmigliati come se fosse davanti ad un
bambino. –
Mio Achille, devi smetterla di portarti dietro tutto questo rancore. –
e lo
baciò, un bacio rude e per niente lascivo, nient’altro che un
rinnovamento
della fedeltà e dell’affetto che li legava. Si rialzò, s’infilò il
perizoma e
uscì dalla stanza, lasciando il principe di Macedonia da solo coi suoi
pensieri
nuvolosi.
Il giorno dopo, di buon
mattino, un ragazzetto corse
verso la casa che ospitava i guerrieri macedoni. Recava con sé un
messaggio
firmato da Demarato di Corinto, il quale caldeggiava un incontro al
palazzo
reale, sì da riunire Alessandro, Olimpiade e l’intera schiera di esuli
volontari e invitarli a partire alla volta della Macedonia: Filippo
voleva che
rientrassero tutti in patria, in vista della nuova spedizione che stava
approntando.
Era tempo di tornare a casa.
_______________________________
Note dell’autrice:
“L’estasi dell’ebbro” è stata scritta
per la
Bridge Challange di Criticoni feat FanFic Italia e che è la seconda
delle due
storie imperniate sulla dicotomia het/slash.
(Voglio far notare anche come questo
sia il mio primo esperimento
di slash! XD Speriamo bene...)
Questa storia – in accordo a quanto raccontato da Plutarco nella sua
“Vita di
Alessandro” - è ambientata nell’anno 337 a.C. In quel periodo, Filippo
prende
in sposa Euridice, nipote di Attalo, dopo aver ripudiato Olimpiade. E’
celebre
l’episodio che vede Alessandro, nel giorno delle nozze di Filippo con
Euridice,
scagliarsi contro Attalo, suscitando la rabbia del padre che lo volle
disconoscere, ubriaco e fuori di sé com’era.
Quindi, Alessandro e sua madre
scelsero l’esilio volontario
e si ritirarono in Epiro, ai confini con l’Illiria, alla corte del
fratello
della stessa Olimpiade. Restarono lìfino a quando Filippo non inviò
Demarato di
Corinto per invitarli a tornare in patria e ad appianare i dissidi
familiari.
Nella realtà dei fatti, Filippo voleva evitare che Alessandro aizzasse
le tribù
illire contro la Macedonia, mentre lui era occupato in una nuova
campagna
militare.
Secondo alcune versioni, comunque, anche Efestione e il resto dei
compagni di
Alessandro scelsero la strada dell’esilio ed è questa la variante che
ho scelto
di fare mia, ispirandomi così anche alla trilogia di Manfredi
“Alèxandros”.