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Autore: _petite_poissonne_    22/04/2018    0 recensioni
La vita di Vittoria è sempre stata accompagnata dal gemello Giulio, uniti da un legame esclusivo. Finché non arriva un terzo gemello, Filippo. O Gemello Diverso.
In questa one-shot ci sono scorci di vita della protagonista, raccontata così come si è presentata nella mia mente; semplice, impulsiva e desiderosa di essere scoperta. Come la protagonista.
Dal testo:
“Parlare di me equivale parlare di mio fratello. Un mio passo è il suo passo; la sua prima parola è la mia. Non c’è Giulio senza Vittoria e non c’è Vittoria senza Giulio. È la metà del mio cuore ed io la metà del suo.”
[...]
“«A me piace parlare» se ne uscì Filippo attirando la nostra attenzione. «Credo che attraverso le parole si possa conoscere una persona.»
«Oh, Signore, grazie per aver dispensato questo ragazzo di neuroni funzionanti! Vedi, Giulio? Prendi esempio da lui.»
«Ma Filippo non ha una sorella che parla già abbastanza per tutti.»
«Se è per questo, Filippo non ha nemmeno un fratello testone incapace di dichiarare i propri sentimenti alla sua ragazza.»
«Forse perché sono figlio unico?»”
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una volta ho letto che «l’uomo nasce solo e da solo muore». Ho subito pensato che chi l’ha detto, probabilmente non ha un gemello.
Parlare di me equivale parlare di mio fratello. Un mio passo è il suo passo; la sua prima parola è la mia. Non c’è Giulio senza Vittoria e non c’è Vittoria senza Giulio. È la metà del mio cuore ed io la metà del suo.
Ricordo che quando Giulio ed io eravamo piccoli, alle elementari, se uno dei due non aveva fatto i compiti, parlavamo nella nostra lingua suggerendoci le risposte. I nostri compagni si divertivano ogni volta che ci sentivano, le maestre sempre meno, soprattutto quando scoprirono il nostro asso nella manica. Così, i nostri genitori decisero di farci seguire da uno psicoterapeuta comportamentale infantile. Un supplizio che durò un’ora di ogni giorno per quasi un anno. Ho ricordi molto vividi e dolorosi di quando ci portavano in stanze diverse per osservare la nostra individualità personale, così la chiamavano. Non eravamo mai stati divisi per più di qualche minuto da quando eravamo nati, che io ricordi, e quella situazione ci faceva stare male fisicamente. Di conseguenza, non riuscivamo nemmeno a concentrarci sugli esercizi che ci sottoponevano gli educatori.
Alla fine, alla bastarda età dei sette anni, decidemmo di ammorbidire il nostro atteggiamento con gli estranei, genitori compresi, per stemperare gli animi ed evitando di sfuggita la minaccia di metterci in classi diverse. Ovviamente, all’oscuro di tutti, mettevamo in pratica la MO – Missione Ombra –, in altre parole nuove tattiche meno appariscenti ma efficaci per la conquista del mondo. Avevamo già molti seguaci, di cui il CP – Commilitoni Pupazzi –, il CM – Commilitoni Macchinine – e l’Agente Speciale Rosso, il pesciolino rosso di gomma che galleggiava nell’ampolla dell’acqua. Alla nostra ascesa io sarei stata la regina, giammai principessa, perché avevo già capito che è lei che conta veramente nella gerarchia reale, e Giulio il re.
Obiettivo primario: annientare il Nemico Numero Uno che tutte le mattine invadeva la nostra Sede Segretissima a scuoterci dai nostri sonni; la mamma. Ovviamente, era molto astuta e sapeva come ottenere una resa momentanea da parte nostra. Per ogni minuto che ritardavamo ad alzarci, sottraeva un biscotto al cioccolato dalla colazione, e ne avevamo tre a testa a disposizione. Sadica, altro che astuta. Ci alzavamo sostenendoci letteralmente a vicenda per non crollare di fronte ai tiri mancini del Nemico, in una ferrea lotta contro il tempo. Complici fino alla morte; una cosa che non ci siamo mai detti ad alta voce, nemmeno nella nostra lingua segreta, ma che di sicuro abbiamo entrambi pensato.
Col tempo, i nostri piani di conquista si sono coperti di polvere, mentre noi ci affacciavamo alla preadolescenza. Discoli al punto giusto ma studiosi, personalità individuali ma affini; dove andava uno, andava l’altro.
In seconda media, però, accadde qualcosa al nostro duo infrangibile e inavvicinabile che mai avrei creduto potesse realizzarsi: Filippo. È stato l'unico, in dodici anni di vita, che sia mai stato capace di insinuarsi tra me e Giulio. Ricordo di averlo odiato con tutta me stessa, un sentimento che non avevo mai provato con tanto rigore prima di allora. Oltre alle questioni tecniche di genere ad accomunarli (il compagno dei piani bassi, per intenderci, e che irrazionalmente invidiavo), entrambi collezionavano le carte di Yu-Gi-Oh!, unico hobby che non condividevo con lo stesso entusiasmo di Giulio. Avevo come l’impressione di essere stata derubata. Non avevo più la totale attenzione di mio fratello.
Fu davvero dura da digerire, mi sentivo rimpiazzata nonostante l’attaccamento di Giulio nei miei confronti non fosse mai cambiato e anzi cercasse sempre di coinvolgermi nei loro giochi pomeridiani. Ma il contatto forzato col mondo esterno mi destabilizzò, tale da prendere in considerazione di aprirmi anche io a nuovi orizzonti, le femmine: petulanti alieni dai pendenti scintillanti alle orecchie, unghie fucsia e un’immotivata adorazione per i Blue, un quartetto di bellocci che facevano finta di saper cantare e che andava molto di moda ai miei tempi.
Ma un approccio con una civiltà aliena è sempre rischioso, perché non si conoscono i reciproci usi e costumi, o anche solo la lingua. Difatti, al mio primo pigiama party di sole femmine della nostra classe, mi sono fatta venire a prendere di corsa dai miei genitori la sera stessa. Il giorno dopo ero ancora terrorizzata e quasi in lacrime, perché le mie cosiddette Amiche dello Sleepover mi avevano costretto a un’agghiacciante prova trucco che mi aveva reso un orrido pagliaccio (e io odio i pagliacci).
A quel punto ero di fronte a un problema, se non volevo rimanere sola, dovevo decidere: combattere per non farmi soffiare la mia metà da un novellino o farsi spaccare i timpani dall’ennesima canzone struggente di amori che a quell’età non avrei mai potuto capire – e nemmeno ne avevo l’intenzione.
Non fu una scelta sofferta, primo tra tutti perché non avrei mai permesso a nessuno di rubarmi mio fratello. Piuttosto scoprii di saper parlare meglio la lingua dei maschi, che quella delle mie coetanee. Così, snobbata da queste ultime che da quell’episodio mi soprannominarono la Strana, mi riavvicinai a Giulio e all’Intruso, decisa al colpo di stato.
La sete di vendetta straripava da ogni poro e devo dire che dalla mia avevo un’innata capacità di far scappare le persone con un solo sguardo già a dodici anni; ero fiduciosa che entro un mese avrei fatto rimpiangere a quel ragazzino occhialuto e pelle e ossa di aver invaso il mio territorio. Ricordo che elaborai per iscritto un piano per debellare quell’intrusione in una notte.
L’idea era di riuscire a superarlo in qualsiasi cosa facessimo, per scoraggiarlo: voti a scuola, nei provini della squadra di calcio e così in tutte le attività che ci venivano in mente di fare a quell’età. Ma come con mia madre quando ero piccola, non avevo imparato che i nemici non devono mai essere sottovalutati: se io prendevo un ottimo in matematica o in qualsiasi altra materia, lui mi raggiungeva nell’interrogazione successiva; se ottenevo il ruolo di primo attaccante, lui otteneva quello del portiere. L’Intruso doveva aver capito le mie ostilità nei suoi confronti, non c’erano altre spiegazioni.
Tutta la seconda media è stata una continua e caparbia lotta a fare sempre meglio e più dell’altro. Premio: il mio ignaro fratello.
A discapito di tutti i miei pronostici, era passato un anno senza che riuscissi a scalfirlo nemmeno un pochino ed ero davvero stremata, ma quel bamboccio non mi avrebbe mai avuta vinta. Mai.
Sorpresa delle sorprese, tutto cambiò in terza media. Martino, il bulletto della classe, mi aveva presa di mira da qualche settimana, precisamente da quando iniziai a portare l’apparecchio dei denti. Erede del soprannome dell’anno precedente aveva iniziato a chiamarmi Strana Ferraglia. Io lo ignoravo, così come avevo fatto con le mie compagne prima di lui; per me era solo uno stronzetto vigliacco che non si azzardava nemmeno a incrociare il mio sguardo quando Giulio era nei paraggi.
Una mattina, durante la ricreazione, la professoressa di scienze si allontanò per qualche minuto dalla classe e mio fratello andò in bagno. Martino, ghiotto dell’occasione, si avvicinò al nostro banco con fare intimidatorio e fece cadere il mio portacolori che avevo lasciato aperto, con risultati disastrosi.
«Scusa, Strana Ferraglia. Non l’avevo visto» disse con un ghigno malefico incrociando le braccia al petto e beandosi le risate dei nostri compagni.
Io sbuffai e mi apprestai a raccogliere un’elevata quantità di penne colorate dal pavimento. Filippo mi fu subito vicino ad aiutarmi passandomi gli oggetti che erano rotolati fino ai piedi del suo banco, affianco a quello mio e di Giulio. Il gesto non mi sorprese, perché in quell’ultimo anno avevo imparato a conoscere anche il suo lato educato e gentile, oltre a quello invadente e competitivo. Motivo in più per odiarlo, ovviamente.
Raddrizzai la schiena con posa da regina qual ero e guardai Martino con un finto sorriso benevolo. Questa volta non l’avrei ignorato.
«Dovresti iniziare a portare gli occhiali, allora. Non sia mai che un giorno ti capiti di sbattere la testa contro un ramo del tuo albero-casa, Martino Babbuino.»
La reazione della classe fu esplosiva, tutti si sbellicarono dalle risate; chi era quasi caduto dalla sedia per le convulsioni, chi si asciugava le lacrime sulla felpa del compagno vicino e alcuni avevano già iniziato a fare versi scimmieschi in direzione di un imbarazzato Martino che mi guardava con sguardo assatanato quasi mostrandomi i denti. A differenza sua, non mi era mai interessata l’approvazione dei miei compagni, li reputavo tutti un branco di pecore, perciò mi appagò parecchio la sua espressione di vergogna di fronte al repentino spodestamento sociale.
Adocchiò sul mio banco il quaderno su cui c’era il tema di scienze e lo prese sventolandomelo sotto il naso, trionfante. Cercai di riprenderlo con la forza, ma lui fu più veloce e lo allontanò.
«Restituiscimelo, adesso.»
«Sennò?» sogghignò antipatico. La persona più inconcludente e infantile che abbia mai conosciuto, signore e signori.
«Non ti consiglio di farmi nemica, Martino Babbuino.»
«Smettila di chiamarmi in quel modo!»
«Lo farò quando tu mi avrai restituito il mio quaderno, Martino Babbuino!»
«Ah, sì? Allora tieni!» strappò con forza il quaderno a metà e me le lanciò violentemente in faccia.
Non ebbi il tempo di caricarlo come un toro imbufalito, che Martino era già a terra frignante mentre si manteneva il naso che aveva preso a sanguinare. Per un momento, alle 10:23 del 5 novembre 2006, in tutta la scuola si senti solo l’urlo agghiacciante della professoressa che era appena rientrata in classe: «Fiiiliiippooo!»
Già, anche io ero scioccata dal suo intervento. Sono rimasta muta con gli occhi sgranati per tutte le ore successive, rispondevo a monosillabi o alzavo le spalle all’interrogatorio del preside, dei professori, di mia madre, di mio padre e di mio fratello. E anche dei paramedici. Già, perché gli aveva veramente rotto il setto nasale. Martino è stato portato subito in ospedale, mentre Filippo, dopo l’arrivo tempestivo e furibondo dei suoi genitori, fu portato a casa dopo il verdetto: un mese di sospensione, di cui una settimana a riflettere sulle proprie azioni e tre con obbligo di frequenza. Più un altro mese di servizi socialmente utili alla classe, ovvero fare il lavoro dei bidelli al termine delle lezioni sotto la supervisione del preside in persona, per la gioia di Filippo e Martino.
Sì, alla fine anche lui si è beccato la stessa punizione oltre il naso ingessato. Come c’era da aspettarselo; sapevo che prima o poi quel bulletto babbuino si sarebbe messo nei guai con le sue stesse mani, o che io gli avrei dato un sonoro scrollone, per usare eufemismi. Ma mai, mai, mai avrei creduto alla scena che si era presentata ai miei occhi quando Filippo si è avventato su Martino nell’esatto istante in cui il quaderno in brandelli mi è arrivato in faccia. Non aveva fatto nemmeno male, forse lo shock doveva aver alterato le mie percezioni.
Sono rimasta chiusa nella mia camera per tutto il resto della giornata dopo aver lasciato la scuola e anche il giorno dopo, sotto suggerimento del preside, comprensivo, visto il modo in cui reagivo agli impulsi esterni. Nemmeno Giulio riuscì a scuotermi. Distesa nel letto, fissavo il soffitto puntellato di stelle finte, totalmente immersa nei miei pensieri.
Perché l’aveva fatto? Non aveva alcun senso. Era da un più di un anno che tramavo subdolamente alle sue spalle ed io sapevo che Filippo sapesse. Forse, questa era una sua tattica per ingraziarsi definitivamente mio fratello, non c’era altra spiegazione.
Ero sicura di liberarmi di lui il giorno del nostro tredicesimo compleanno grazie al mio regalo personale per Giulio: la carta Ultra Rara del Drago Bianco Occhi Blu introvabile nelle bustine e costosissima negli annunci privati. L’unico che la possedeva tra le mie conoscenze, era un ragazzino di undici anni che era nella squadra di calcio tra le riserve. L’ho persuaso a cedermela in cambio di una partita intera come titolare al posto mio, evento più unico che raro per la sua età concessogli dal Mister, in debito per le ultime due stagioni di campionato che avevo portato a casa.
Prevedevo di essere eletta Paladina dei Fratelli di Tutto il Mondo con conseguente disfatta dell’Intruso. Ma Filippo aveva scoperto il punto debole di mio fratello, ovvero me.
Dopo aver ascoltato le testimonianze del tutto ingigantite dei nostri compagni di classe, Giulio era tornato a casa pronto a erigere una statua in onore del Migliore Amico di Sempre! Una litania che ha risuonato per casa come un coro ultrà per tutto il mio primo giorno di clausura. Scacco Matto. Mi aveva preceduto di soli dieci giorni con una mossa a sorpresa. Machiavellico e subdolo, come me.
La prima vera emozione arrivò al secondo giorno di contemplazione mistica; fu per lo più un fastidioso crampo allo stomaco che sembrava divorarmi dall’interno. Pensai e ripensai alle nostre mosse passate, ai rispettivi caratteri, e sentivo che ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Perché Filippo era intervenuto con quel gesto estremo, in una situazione che avrei saputo gestire benissimo da sola?
Bugiarda.
Per un attimo, avevo temuto che quel troglodita di Martino non si sarebbe fermato a lanciarmi il quaderno e che mi avrebbe aggredita. Io dico e faccio, ma non avrei avuto alcuna possibilità in un eventuale a corpo a corpo contro di lui già entrato l’anno scorso nella fase dello sviluppo, in altezza e ciccia, essendo ripetente.
Filippo non aveva nemmeno agito di astuzia, perché mi aveva difesa in un momento in cui non c’era mio fratello e che invece avrebbe potuto sfruttare meglio a suo vantaggio.
Più le ore passavano, più sentivo il disagio perforarmi la pancia come una voragine. Perché quel ragazzino testardo e gentile si era messo in mezzo compromettendo il suo stesso rendimento scolastico per difendere me?
Poi, l’illuminazione, tanto semplice quanto destabilizzante: Filippo mi ha difesa. Si è messo nei casini per me.
Mi misi a sedere di scatto e allungai il braccio sotto il letto cercando tentoni. Dopo poco, tra le mani avevo una scatolina incartata e abbellita di una coccarda verde più grande il doppio della stessa scatolina. Senza pensarci, stracciai il rivestimento decorato e scoprii il contenuto mettendomelo velocemente nella tasca dei pantaloni della tuta. Indossai la felpa e quando chiusi la cerniera al mento, mia madre entrò in camera.
«Finalmente ti sei alzata da quel letto» mi osservò soddisfatta, la mano posata sulla maniglia. «Vostra Altezza ci fa l’onore della sua presenza, stasera a cena?»
Sorrisi di sfuggita e indossai anche gli stivali. «Solo se mi dai il permesso di uscire.»
«Ora? Ma sta diluviando, dove credi di voler andare con questo tempo?»
«Mamma, ti prometto che entro mezz’ora starò seduta al tavolo della sala da pranzo a mangiare con voi.»
«Tesoro, stai bene?»
«Mai stata meglio. Allora, quest’accordo?»
Mia madre mi osservò a lungo, alternando ripetutamente lo sguardo dalla finestra, il letto e me. Alla fine sospirò e alzò un sopracciglio. «Hai venticinque minuti.»
Sorrisi soddisfatta. «Mi basteranno. Grazie, mamma» le diedi un bacio volante sulla guancia e non fece in tempo a urlarmi di portare con me l’ombrello, che già ero fuori la porta di casa a correre sotto la pioggia, cappuccio calato sugli occhi.
Un minuto dopo ero in fondo alla strada a scavalcare il muretto dell’ultima casa gialla del nostro viale. Favorevole il buio e la pioggia fitta, mi confusi tra le aiuole e gli arbusti del giardino. Per fortuna, qualche settimana fa Giulio mi aveva spiegato la disposizione delle camere nella villetta su un unico piano, quindi raggiunsi con facilità la mia meta.
La luce era accesa e filtrava attraverso le tende interne, così, dopo un attimo di panico, bussai piano alla finestra, sperando che il suono non si confondesse con quello della pioggia.
Dieci secondi dopo, le tende si scostarono e mi trovai la faccia sorpresa di Filippo scrutarmi dall’altra parte del vetro. Lo salutai timidamente con la mano, la sicurezza del momento era andata scemando man mano che il tempo passava e la felpa s’inzuppava tanto da bagnare anche i capelli. Ma lui si riscosse e aprì la finestra.
«Cosa ci fai qui?» sussurrò.
«Sono venuta a trovarti» feci spallucce.
Perplesso, Filippo sbatté le palpebre e lanciò un’occhiata verso la porta.
«Vuoi lasciarmi qui fuori a prendere una polmonite o aspetti che i tuoi genitori mi scoprano?» lo incalzai notando la sua indecisione.
Lui sbuffò e scosse la testa. «Entra.»
Tirai un sospiro di sollievo e scavalcai il davanzale stando attenta a non toccare il parquet prima di togliere gli stivali infangati. Sadica sì, ma fino a un certo punto.
Rabbrividii immediatamente per lo sbalzo di temperatura rispetto all’esterno. Non mi ero accorta di essere diventata un ghiacciolo colante. Io e la mia impulsività avremmo dovuto fare un discorso serio, una volta tornata a casa.
«Aspettami qui ferma e muta» disse sottovoce con espressione imperturbabile. Non capivo se fosse infastidito o stanco. Forse entrambe.
Uscì dalla stanza richiudendo silenziosamente la porta. Come mi aveva detto, rimasi impalata a fissare il poster di Fabio Grosso esultante attaccato dietro la porta, attenta a non fare rumore col mio stesso respiro.
«Filippo, cosa stai facendo?» all’improvviso sentii la voce inquisitoria di sua madre e dei frettolosi passi attraversare il corridoio dall’altra parte della porta.
Oh, no. Feci un rapido calcolo di quanto ci avrei messo a lanciarmi fuori la finestra, che Filippo mi anticipò: «Io... avevo freddo, sono venuto a prendere la stufa.»
«Ti avevamo detto di andare a letto alle otto.»
«Lo so, mamma, ma non riuscivo a dormire e ho ripreso a studiare. Almeno, mi tengo in pari con la scuola.»
Ci fu qualche secondo di silenzio in cui anche il mio cuore smise di battere in attesa della sentenza.
«Va bene, massimo un’ora e poi voglio vedere le luci spente» e se ne andò, ripercorrendo il corridoio in senso opposto.
Ritornai a respirare solo quando Filippo rientrò in camera un minuto dopo con una stufa elettrica da bagno, come aveva detto, e un accappatoio giallo che mi porse.
Imbarazzata come mai mi ero sentita prima di allora, mi sfilai lo straccio che era diventata la felpa e mi strinsi velocemente nell’accappatoio. Filippo inserì la spina vicino al comodino e mi prese la felpa dalle mani senza troppe cerimonie a farla asciugare vicino allo scaldino. Ora sì, che sembrava infastidito ed io mi sentii ancora peggio.
«Non ti sopporto» disse infine stravaccandosi sul letto.
«Cosa?» chiesi sconvolta. Non eravamo mai stati diretti sui reciproci sentimenti, per preservare le apparenze davanti a Giulio; ma dopotutto dovevo aspettarmelo per quello che era successo il giorno prima. Filippo si era messo nei guai per me ed io mi sentivo in colpa. Tremendamente in colpa.
«Mia madre. Non la sopporto.»
Ah... ‘la’, non ti. Non ce l’aveva con me. Sospirai sollevata e mi sedetti anch’io sul letto di fronte a Filippo.
«Ti sorveglia molto, eh?»
«Sì e come avrai sentito letto alle otto. Per non parlare della punizione del secolo:» si mise a elencare con le dita «niente uscite, niente calcio, niente paghetta, niente tv, telefonino e figurine di Yu-Gi-Ho! per tre mesi. Solo scuola, casa e compiti» terminò scuotendo la testa.
La voragine del senso di colpa si allargò e a stento riuscii a trattenere un gemito. «Mi dispiace così tanto... non avresti dovuto metterti in mezzo.»
«Cosa? A me non dispiace di aver colpito quell’idiota, se lo merita. Lo farei altre cento volte.»
«Perché?»
«Se ti avesse toccato un solo capello, tuo fratello non me l’avrebbe mai perdonato, mi sembra ovvio.»
Annuii, l’avevo pensato anch’io. Ma mi sentivo ugualmente in colpa e in imbarazzo per quell’intrusione e grata per i suoi modi gentili – il pugno, la felpa, l’accappatoio, le sue parole – nonostante le mie ostilità. Poi ricordai il motivo che mi aveva spinto ad andare a casa di Filippo e tirai fuori dalla tasca della tuta il simbolo della mia gratitudine che fortunatamente non si era bagnato.
«Questa è per te» allungai il braccio con sguardo basso. Non potevo credere a quello che stavo facendo. La morsa si fece più intensa.
Filippo trattenne violentemente il fiato e mi azzardai a lanciargli un’occhiata: occhi sbarrati, occhiali scivolati sulla punta del naso e sopracciglia che sfioravano l’attaccatura dei capelli.
«Il Drago Bianco Occhi Blu! Ma come fai ad averlo?»
«Ho le mie fonti.»
«Ma è una carta Ultra Rara!»
«Lo so.»
«Ma sono anni che Giulio la cerca.»
«Lo so.»
«Ma la stai dando a me...»
«Già. È che mi sento in debito» mi strinsi nelle spalle e stanca di quell’assurda conversazione e di tutti quei ‘ma’, lo spronai a modo mio: «Se non la vuoi basta che lo dici» finsi di riprendere la carta dalle sue mani, ma Filippo abboccò e lesto la allontanò.
«No, grazie... cioè, la voglio, grazie.» Il gesto mi fece sorridere trionfante.
La contemplò adorante per qualche minuto, mimando «wow» di tanto in tanto. Io lo osservavo in silenzio e la morsa allo stomaco si fece talmente intensa da produrre un sonoro brontolio.
Ah, ecco, era fame; stavo iniziando a preoccuparmi.
«Vuoi una goleador?»
«I tuoi genitori ti permettono di mangiare caramelle quando sei in punizione?»
«Certo che no. Ma loro non sanno che ho la mia scorta segreta» sorrise angelico.
Questo ragazzino è una sorpresa dopo l’altra.
«Allora la accetto, grazie.»
Si sporse sul comodino prendendo il salvadanaio giallo a forma di Sfera del Drago a cinque stelle e svelò il contenuto.
«Ha il doppio fondo» me lo mostrò. «Così, se mia madre dovesse spostare il salvadanaio, sentirebbe comunque il tintinnio delle monete» prese un pacchettino dal mucchio e me lo porse. «Tieni, so che ti piace quella alla liquirizia.»
E così anche lui mi aveva studiata...
«Furbo; è alla vista di tutti e perciò meno sospettabile. Davvero furbo, Filippo.»
Lui fece spallucce e addentò una goleador alla Coca Cola, soddisfatto. Lo imitai mangiando la liquirizia.
Mi guardai intorno, rendendomi conto di star chiacchierando amichevolmente per la prima volta (da parte mia) con l’Intruso in camera sua, un luogo che non avrei mai visitato nemmeno se mi avessero offerto mille penne colorate. La stanza era molto ordinata e accogliente: gran parte delle pareti erano tappezzate da poster di calciatori e fotografie di vacanze all’estero, c’erano modellini di automobili da corsa sparsi sulla libreria e ai piedi del letto, giaceva un grosso e sgargiante puff giallo di Pacman. Poi lo sguardo mi cadde sugli scaffali sopra la scrivania colmi di coppe dorate e premi di vario genere. Ne contai almeno una quindicina.
«Sono tue?»
Filippo seguì il mio sguardo e scosse la testa. «Solo le due coppe argentate. Il resto sono di papà. È un ex-campione di motociclismo su asfalto.»
Wow.
«Ti ha mai portato in moto con lui?»
Lui rise della mia curiosità e annuì fiero. «Tutti i sabati da quando avevo otto anni.»
«Deve essere bello. Mi piace quando con la bicicletta prendo una discesa ripida e corro veloce. È una sensazione elettrizzante» mormorai pescando un’altra liquirizia nella Sfera del Drago. «Ti ha già insegnato a guidarla?»
«Ci abbiamo provato, ma purtroppo non arrivo ancora a terra con tutti e due i piedi» disse con un leggero rossore sulle guance e si aggiustò imbarazzato gli occhiali sul naso. «Però papà dice che entro uno o due anni sarò capace di cavalcarla. E porterò te e Giulio a fare un giro» continuò più sicuro.
«Davvero? Anch’io?»
«Certo! Siamo amici.» 
Amici... masticai questa parola insieme all’ennesima liquirizia. Com’eravamo arrivati a questo? Ma stranamente, senza rifletterci troppo, scrollai le spalle e annuii convinta.
Dopo la sesta goleador decisi di andarmene, anche perché ero fuori di quindici minuti dei venticinque concessomi da mia madre. Sfortunatamente non aveva smesso di piovere, per cui mi toccava fare un altro bagno. Ma Filippo mi sorprese ancora con la sua gentilezza cedendomi il suo impermeabile giallo di Gardaland. In seguito scoprii che il giallo era il suo colore preferito.
«Grazie per l’ospitalità e per l’impermeabile. Te lo riporto quando torni a scuola» dissi seduta cavalcioni sul davanzale, rivestita e pronta a uscire.
«Prego. Grazie a te per la Carta del Drago.»
«Figurati, era il minimo che potessi fare. Ciao» lo salutai con la mano e m’immersi di nuovo nella tempesta.
«Vittoria...» mi richiamò quando stavo per voltarmi. «Sei stata forte con la battuta del babbuino.»
Sorrisi divertita e ripensai al nuovo nomignolo che la classe aveva dato a Martino dopo l’episodio. «Giulio mi ha detto che a scuola hanno iniziato a chiamarlo Martino Il Piccino Si È Fatto Male Il Nasino, dopo i suoi pianti isterici.»
«Ben gli sta» sorrise sghembo.
«Allora ci vediamo la settimana prossima» lo salutai ancora, ma dopo tre passi Filippo mi richiamò.
«Vittoria, aspetta!»
«Cosa c’è?» chiesi scostandomi il cappuccio di plastica dagli occhi per vedere meglio.
Dopo qualche secondo d’indecisione, parlò: «Abbiamo fatto pace?»
L’avevo detto che Filippo sapeva.
«Avevamo litigato?» chiesi a mia volta con un sorriso serafico.
«No, no» disse immediatamente sorridendo di nuovo.
«Buona notte, Filippo.»
Fortunatamente, mamma non fece storie sul ritardo, e nemmeno domande sullo stravagante accessorio. Forse, le bastava che fossi ritornata a casa incolume e soprattutto asciutta.
Quella notte, ero di nuovo distesa nel mio letto sotto le stelle fluorescenti, ma diversamente dalle ore passate, nessun pensiero vorticava nella mia testa. Ero serena e sorridevo ancora a quella parola per me totalmente estranea. Amici. Non avevo mai avuto un amico prima di allora.
Alla fine, non ci volle molto ad affezionarmi anch’io a quel ragazzino. D'altronde Giulio ed io avevamo sempre condiviso tutto, perciò fu naturale condividere anche il migliore amico. Fu sorprendente scoprire che anche se Filippo non aveva il mio stesso sangue, mi era tanto affine quanto lo era il mio gemello. Dopo le medie, scegliemmo lo stesso liceo scientifico, ovviamente stessa classe. Più trascorrevamo il tempo insieme, più forte si consolidò la nostra amicizia e da un duo, diventammo un trio che Giulio soprannominò i Gemelli Diversi.
Il passaggio dall’apparecchio fisso a quello mobile anticipò un evento del tutto straordinario e inaspettato, sancendo l’inizio di una nuova era.
La prima mestruazione.
Fu scioccante ed estremamente umiliante, soprattutto per le circostanze.
Avevo compiuto quattordici anni da qualche mese e stavamo giocando la semifinale di campionato. Al venticinquesimo minuto, durante uno scarto audace contro l’attaccante della squadra rivale, inciampai sui suoi piedi e ruzzolai a terra. Abituata, attutii la caduta con una capriola e non mi feci male. Non mi arrabbiai nemmeno con il ragazzo, sapevo che non l’aveva fatto apposta. E poi Mirko mi piaceva, frequentavamo la stessa scuola, quindi fui ben felice quando mi porse, sportivo, la mano per aiutarmi ad alzarmi.
«Vittoria, tutto bene?» urlò il Mister dall’altra parte della recisione.
Io lo ignorai, come tutto l’ambiente circostante. Ero totalmente rapita dal sorriso di Mirko e in più non aveva ancora lasciato la mia mano. Ero ascesa in paradiso, finché non atterrai bruscamente di testa quando m’indicò i miei pantaloncini. «Stai sanguinando. Dove ti sei tagliata?»
Abbassai subito lo sguardo sulle gambe e m’impietrii sul posto osservando quella macchia scura sul lato interno dei pantaloni. Consapevole, ripresi fiato sconvolta e a pieni polmoni gridai: «Giulioooo!»
«Voglio morire...» piagnucolai seduta sul gabinetto chiusa nel bagno degli spogliatoi dopo che Giulio e Filippo mi avevano scortato in formazione di testuggine nel bel mezzo della partita per celare al pubblico quello scempio.
«Dài, non devi nemmeno dirlo» disse mio fratello dall’altra parte della porta a soffietto. «Lo sapevi che prima o poi sarebbe successo.»
«Ma non così! Sarò lo zimbello del campionato.»
«Ti sbagli. Gianpaolo ha ancora tutte le attenzioni su di sé dopo l’incidente della scorreggia» disse Filippo.
«Già, ha ragione. Ricordi che si sentì la puzza fino agli spalti?» intervenne Giulio ridacchiando e dando un colpetto alla porta.
«Per non parlare di quella volta in cui Giulio fu scoperto a scaccolarsi durante l’inno. Il Mister era imbarazzatissimo quando lo sostituì» continuò Filippo.
«Ehi! Vi ho già detto che non mi stavo scaccolando. Mi prudeva semplicemente il naso.»
«Sì, certo. Tu continua a dirlo, forse un giorno ci crederai.»
Sorrisi di quel momento spensierato, estremamente grata ai miei ragazzi. Ma poi ricordai la faccia sorpresa di Mirko alla vista del sangue e mi rabbuiai di nuovo.
«Tess?» Giulio mi chiamò col mio nomignolo, bussando alla porta. «Ci sei?»
«Non avrò più il coraggio di guardare in faccia Mirko...» mormorai tirando su col naso. Dall’altra parte qualcuno sbuffò, ma non me ne curai. «O il Mister, o chiunque altro abbia assistito al mio tracollo sociale. Voglio emigrare in Iran per passare il resto della mia vita a lavorare in una piantagione di zafferano. Almeno così potrò imparare il persiano» ragionai ad alta voce in totale delirio. «Dov’è mamma?»
«È andata al minimarket di fronte a comprare i cosi
Lasciai sfuggire l’ennesimo lamento, prendendomi la testa tra le mani. Una cosa era certa: non avrei messo mai più piede in campo. L’umiliazione era stata troppo grande da poter facilmente accantonare.
«Ti prego, Tess, non fare così. Vieni fuori» disse Giulio con lo stesso tono sofferente.
«Mi vergogno.»
«Ma siamo noi. Non devi vergognarti dei tuoi fratelli.»
«Mi dispiace Toby, vi voglio bene, ma non ce la faccio. Tornate in campo. Il Mister sarà inferocito per aver abbandonato la partita in quel modo.»
«Ma chi se ne importa della partita! La mia sorellina aveva bisogno di me e non ti lascerò mai a piangere da sola in un bagno.»
«Concordo, Vitto» s’inserì Filippo bussando alla porta.
Me li immaginai fuori nello spogliatoio poggiati ai due lati della porta a supportare mesti ma risoluti i miei sproloqui da adolescente instabile. Provai un appagante sfarfallio allo stomaco che mi riscaldò tutto il corpo. Capii che con loro al mio fianco, avrei potuto scalare una parete di ghiaccio anche a mani nude. Erano le due metà del mio cuore.
Ricacciai indietro le lacrime e mi asciugai le guance col dorso della mano. Scaricai e uscii sotto lo sguardo soddisfatto di mio fratello.
«Ecco la mia Tess. Stai bene?»
«Così, così. Ma non ho voglia di ritornare lì fuori.»
«Allora aspettiamo mamma e poi andiamo a mangiare una brioche al gelato del Nettuno. Al diavolo la partita!»
Annuii e guardai Filippo. «Tu vieni?»
«Ovvio» mi sorrise sfilandosi i guanti da portiere e li lanciò vicino alla sua borsa, dando incisività alla risposta con quel gesto.
«Siete i migliori. Non vi sostituirei con nessun altro, davvero.»
«A proposito, cos’è quella storia su Mirko?» mi chiese Giulio inquisitorio incrociando le braccia al petto. Lanciai uno sguardo a Filippo in cerca di aiuto, ma sollevò le sopracciglia, anche lui in attesa della risposta.
«Ma niente. Solo qualche sorriso alle partite e nei corridoi a scuola durante la ricreazione. Stai tranquillo che dopo oggi, non sarò più capace di rivolgergli la parola.»
«Lo spero» rispose accigliato.
Sbuffai seccata. «Sei il solito impiccione. Tu la ragazza ce l’hai, ma io non mi sono mai intromessa, nonostante penso sia un’oca che non ti merita.»
«Rossella non è un’oca. Solo un po’ frivola.»
«È più stupida di Mr. Bean» aggiunsi facendo ridere Filippo.
Giulio sospirò e contro ogni aspettativa, annuì sconsolato: «Prima della partita mi ha chiesto di dedicarle un canestro in segno del mio amore. Un canestro...»
«Ecco perché l’espressione funebre quando sei entrato in campo» disse Filippo ridendo più forte.
«L’ho detto: è stupida e poi è volgare. Si veste come se avesse venticinque anni e non quindici.»
«Ho capito. Non ti sta simpatica» disse Giulio guardandoci pensieroso, aggiungendo: «Credete davvero che debba lasciarla?»
Filippo ed io ci lanciammo un’occhiata esasperata e all’unisono rispondemmo: «Sì!»
Anche se avevo valicato una nuova fase, il rito di passaggio di tutte le ragazze del pianeta, continuai a preferire la compagnia di Giulio e di Filippo a quella delle femmine (sì, continuavo a chiamarle in quel modo), che con la pubertà da alieni si erano trasformate in avvoltoi, soprattutto da quando anche i ragazzi crebbero in altezza e con i primi muscoli. Quelle rapaci mi odiavano, lo capivo da come mi guardavano ogni volta che ero vicina a Giulio, Filippo o qualsiasi altro ragazzo della classe, l’unica che non si faceva problemi a parlare con loro in atteggiamento intimo. O forse era la mia schiettezza nel definirle insulse che le allontanava... Ma non m’importava, perché nonostante le delusioni amorose o scolastiche, oppure qualsiasi granello di polvere potesse incrociare il mio cammino, mi bastava volgere lo sguardo intorno a me e capire che con i miei fratelli al mio fianco, tutto il resto diventava un nebuloso contorno.
Ma poi arrivò la stagione dell’amore. Ero sempre sovrappensiero, facevo le ore piccole e cosa sorprendente, era un segreto. Nessuno sapeva nulla, solo mamma è stata testimone e sostegno della novità. Inevitabilmente, il mio empatico fratello capì che qualcosa era cambiato, così una sera chiamò a rapporto me e Filippo a casa di quest’ultimo.
Entrai in camera un po’ agitata, ma avevo deciso di non nascondermi più. I ragazzi mi stavano aspettando seduti sul letto e c’era una chiara tensione che proveniva principalmente da mio fratello che mi fissava con la tipica postura da interrogatorio: accigliato con le braccia conserte. Filippo, invece, guardava il pavimento, anche lui rigido. Presi il puff di Pacman e mi sedetti di fronte a loro al vertice di un triangolo immaginario. Guardai Giulio, in attesa.
«Sei silenziosa. E nelle ultime settimane non ti sei fatta vedere a parte a scuola e anche lì sei scostante e sempre sulle nuvole. Sputa il nome. E fa che non si tratti di quel Mirko.»
«È da quasi due anni che non ci parliamo. Ancora con questa storia?»
«Allora chi è?»
Ingoiai il groppo e mi decisi: «Edward Cullen.»
Inevitabilmente, scoppiarono a ridere ed io mi vergognai sul posto. Lo sapevo che avrebbero reagito in questo modo.
«No, anche tu!» mi prese in giro Giulio.
«Dopotutto è una ragazza» disse Filippo scuotendo la testa.
«Ma avevi detto che non t’interessavano le storie sui vampiri» aggiunse Giulio.
«È così e mi sono ricreduta. Capita anche ai migliori.»
«Cosa ci troviate di straordinario in quella storia insulsa, io davvero non lo capisco. Giulio, facciamo tanto per essere bravi ragazzi, ma alla fine loro preferiscono sempre quelli con un lato oscuro.»
«Amen, fratello.»
«Come siete superficiali. Non è quello che mi ha colpito, ma l’istinto protettivo che ha avuto dal primo momento nei confronti di Bella. Certo, all’inizio voleva succhiarle il sangue, ma qualcosa l’ha trattenuto e anche se l'allontanava, era solo per proteggerla. Non ha fatto altro per quattro libri, a volte nel modo sbagliato, ma sempre perché voleva tenerla al sicuro e perché la amava.»
«Sto per vomitare» disse Giulio con una smorfia.
Lo spinsi con un piede sul petto, ma lui rise ugualmente. «Sei un cretino. Stavo tentando di fare un discorso serio.»
«Ma cos’è questa mania di fare discorsi seri? Anche Valeria non vuole fare altro che parlare, discutere e condividere i nostri sentimenti. È stressante e faticoso. Non vi basta sapere che ci piacete e che se vi stiamo appresso, è perché siamo veramente interessati a voi?»
«Questo perché noi ragazze siamo cresciute e abbiamo iniziato a usare il cervello – quale sconosciuto! –, mentre voi siete involuti a Homo Erectus con la sensibilità di un facocero. Poi, lo sai che Valeria è una persona sensibile. Cerca di essere più... meno te, possibilmente. Forse quella ragazza non la meriti.»
«Ehi, non è carino da dire.»
«A me piace parlare» se ne uscì Filippo attirando la nostra attenzione. «Credo che attraverso le parole si possa conoscere una persona.»
«Oh, Signore, grazie per aver dispensato questo ragazzo di neuroni funzionanti! Vedi, Giulio? Prendi esempio da lui.»
«Ma Filippo non ha una sorella che parla già abbastanza per tutti.»
«Se è per questo, Filippo non ha nemmeno un fratello testone incapace di dichiarare i propri sentimenti alla sua ragazza.»
«Forse perché sono figlio unico?»
«Ragazzi, sono arrivate le pizze!» ci interruppe il papà di Filippo chiamandoci dalla cucina. «Mangiate in camera o in salotto?»
«In camera!» urlammo all’unisono senza indugio.
Cinque minuti dopo eravamo tutti e tre seduti a gambe incrociate sul pavimento, e al centro tre cartoni delle pizze. Io e mio fratello, come sempre, avevamo diviso le nostre: crema di carciofi, speck e mozzarella per Giulio e stracciatella, pesto di basilico, pomodorini e granella di pistacchi per me. Invece, Filippo prese una margherita con provola e peperoncino.
«Ritornando al discorso di prima» iniziò Filippo addentando una fetta e stando attento a non far colare il pomodoro dalla parte del cornicione, ma invano e si sporcò ugualmente la mano, il polso e i pantaloni.
«A proposito della tua eleganza da ippopotamo?» lo sbeffeggiai passandogli ugualmente un fazzoletto.
«No» disse Filippo fintamente offeso, ma senza riuscire a trattenersi dal sorridere mentre si ripuliva. «A proposito di cosa cercate voi ragazze da un ragazzo.»
«Ma Vittoria non è una ragazza.»
«Oh, quanto sei spiritoso» lanciai un pezzo di cornicione addosso a Giulio.
«Vedi? Non sei per nulla signorile.»
Gli feci la linguaccia e mi rivolsi di nuovo a Filippo. «C’è una ragazza su cui vuoi fare colpo?»
«No! È una semplice indagine di mercato» rispose con sguardo basso e un evidente rossore su tutto il viso e sul collo.
«Disse il semaforo ambulante...» strinsi gli occhi su di lui smettendo di mangiare. «Forza, dicci chi è la fortunata donzella.»
«Ma nessuno in particolare, davvero.»
Scossi la testa per nulla convinta. Filippo aveva la particolarità di essere un metaforico libro aperto, specialmente da quando a quindici anni aveva scoperto le lenti a contatto, mettendo in risalto lo sguardo sincero e sereno. In quel momento era davvero imbarazzato e non si azzardava nemmeno a incrociare il nostro sguardo curioso.
«Non è giusto» dissi attirando la sua attenzione. «Mi fate sempre il terzo grado quando sono interessata a un ragazzo – e stasera ne è l’esempio lampante. Perché non vuoi dircelo?»
«Perché non c’è nulla da dire. E poi Edward Cullen è un personaggio immaginario.»
Sbuffai indispettita e interpellai mio fratello: «Tu sai qualcosa?»
«No, è una novità anche per me» guardò anche lui sospettoso il nostro amico. «È della nostra classe?»
«Vi odio quando mi mettete in bocca parole che non ho detto. La mia era una semplice domanda.»
«Sì, è della nostra classe» annuii in direzione di Giulio e Filippo sbuffò riprendendo a mangiare per tenersi occupato.
«Comunque, non lo so cosa cercano le ragazze» aggiunsi. «Vogliamo tutto e niente. Valeria, per esempio, è molto insicura per il suo fisico, anche se non lo dà a vedere, e ha bisogno di sentirsi dire che è bella. Tu, intanto, prendi appunti» puntai l’indice su Giulio che annuì pensieroso. «Dipende dal carattere e dalle esperienze personali, credo.»
«Tu cosa cerchi?» chiese Filippo.
«Edward Cullen» sorrisi da un orecchio all’altro quando alzarono gli occhi al cielo. «Scherzo: quello che prima stavo tentando di dirvi con quel discorso serio...» e lanciai un’occhiataccia a mio fratello «è che ho rivisto in lui lo stesso comportamento che voi avete nei miei confronti.»
«Ma noi non vogliamo succhiarti il sangue» m’interruppe Giulio.
«Se non la pianti, giuro che sarò io a morderti. La protezione, Giulio. Protezione. Non ve l’ho mai detto, ma quando guardo gli altri ragazzi, cerco quelle qualità che mi trasmettete voi da sempre: amore e protezione. Mi fate sentire speciale. E un giorno spero di trovare un ragazzo che sia come voi. Siete il mio metro di paragone.»
«Oh, Tess» mi sorrise intenerito mio fratello prendendomi la mano. «Succederà, un giorno. Molto lontano. Possibilmente dopo gli ottantacinque anni. Ma succederà» annuì e riprese a mangiare soddisfatto.
«Che cosa? Non voglio rimanere vergine fino agli ottantacinque anni!»
«Vittoria!» sputò furibondo un pomodorino addosso a Filippo che aveva invece preso a tossire, sconvolto anche lui dalla mia uscita.
«Vittoria, un corno. Voglio fare sesso e non ho alcuna intenzione di far prendere le ragnatele alla mia vagina.»
«Oh, mio Dio» si lamentò Giulio coprendosi le orecchie e scuotendo la testa. «No, no e no. Porca puttana, sei mia sorella!»
«E credi che tutte le sorelle del mondo rimangano illibate fino alla morte?»
«Come siamo passati dalla protezione al sesso?»
«Un’altra cosa da imparare sulle ragazze, Filippo: noi vogliamo fare sesso. Solo che molte non lo dicono per preservare quel minimo d’immotivata timidezza. Ma fidati, tutte lo pensiamo e tutte non vediamo l’ora di scoprirlo.»
«Vi prego, basta. E tu, Gemello Diverso, dovresti supportarmi.»
«Oh, non osare mettermi in mezzo e poi ti ho già detto di non chiamarmi in quel modo: non voglio avere nulla a che fare con i vostri pazzi geni» disse Filippo guardandoci male e prendendo a ripulirsi anche la maglietta sporca di pesto e saliva di Giulio.
«E comunque sei ancora troppo piccola, hai solo sedici anni» continuò quest’ultimo.
«Siete ingiusti! Tu hai perso la verginità l’anno scorso e tu solo due mesi fa in gita» puntai il dito prima contro Giulio e poi contro Filippo che si girò con sguardo omicida verso mio fratello.
«Gliel’hai detto?»
«Non c’è stato bisogno che lo facesse, Sherlock. Bastava guardarti in faccia dopo che sei uscito dalla camera di Fiona la Tettona» alzai il sopracciglio e chiusi stizzita il cartone della pizza quasi intatta. «Che vi piaccia o no, io farò sesso.»
«Ma sei mia sorella...»
«Hai il disco rotto, Giulio? Siete solo degli ipocriti» mi alzai frettolosa. «Tanto per la cronaca, se è così che stanno le cose, non vi dirò mai quando farò sesso. Anzi, non vi rivolgerò mai più la parola» e col naso all’insù, me ne andai impettita portando con me la pizza da vera regina del dramma.
«Quanto sei melodrammatica!» mi urlò Giulio dalla stanza, ma lo ignorai e mi diressi in salotto a guardare la televisione insieme ai genitori di Filippo.
La separazione durò circa un’ora: Giulio e Filippo arrivarono con sguardo basso e pentito da bravi cagnolini che non avevano ascoltato le raccomandazioni della padrona. Mi chiesero scusa in coro e tentarono di contrattare l’età della mia illibatezza. Io dissi diciassette e loro rilanciarono cinquanta, salii a venti e loro sostennero di non poter scendere oltre i trentacinque anni. Alla fine li assecondai, ma più per disperazione. Capii che per quanto fossimo legati, per quanto tra di noi non ci fosse nessun filtro, dovevo imparare a omettere alcuni dettagli sulla mia femminilità, perché loro mi avrebbero sempre vista come la sorellina da difendere dai lupi cattivi. Sì, li avevano chiamati proprio così “gli altri ragazzi” quando mi esposero le loro motivazioni citando anche il mio discorso sulla protezione (ero sicura che lì ci fosse lo zampino di Filippo, un maestro della manipolazione delle parole degli altri).
Privatamente, lo chiesi a sua madre che aveva assistito divertita il nostro dibattito, confermato anche da mia mamma quando ritornai a casa.
I fratelli non devono mai sapere che la propria sorella ha detto addio all’età dell’innocenza. Mai. Pena: il convento.
I fidanzati vennero e poi se ne andarono, stessa cosa le fidanzate. Continuammo a essere noi: sempre tre, sempre connessi e più uniti che mai. Mi sembrava di essere la persona più ricca al mondo, ma quando tutto andava per il meglio, la vita ci riportò bruscamente alla realtà.
Eravamo in vacanza a Bilbao dopo esserci finalmente diplomati, la prima da soli senza professori o genitori. Ricordo che ero in acqua a fare le capriole cercando di attirare l’attenzione di un aitante bagnino spagnolo e quando riemersi vidi mio fratello abbracciare Filippo. Lui si scostò sgarbatamente e iniziò a spintonarlo a più riprese ma Giulio non reagiva.
Mi precipitai immediatamente a riva. «Filippo? Che cosa sta succedendo?»
Lui si voltò senza vedermi realmente, ma io vidi lui e mi si spezzò il cuore quando sbatté le palpebre e due lacrime rigarono le guance paonazze. Filippo non piangeva mai.
«Cosa...?» guardai Giulio terrorizzata anch’io sull’orlo delle lacrime e capii tutto quando incrociai il suo sguardo addolorato. Scosse la testa e guardò il suo cellulare.
Non dissi nulla, dopotutto cosa avrei potuto dire. Feci due passi e strinsi forte a me Filippo, avvolgendo le sue spalle come se volessi assorbirlo per poterlo tenere per sempre al sicuro. Lui si lasciò cullare stringendomi a sua volta. Sentirlo singhiozzare sul mio collo fu il momento più devastante della mia esistenza.
Incidente a catena in galleria. Cinque morti, sette feriti.
La vita è bastarda. È vile. Non fa sconti. Oltre ai genitori di Filippo morirono un’altra coppia con una bambina di tre anni.
Tre. Anni.
Che cosa aveva fatto quella bambina per meritarsi un destino così ingiusto? Non aveva ancora imparato a vivere che tutto le era stato tolto senza alcuno scrupolo. Per un attimo mi sono sentita egoisticamente come quella bambina: spezzata e delusa dalla vita.
Erano i miei secondi genitori. Mi avevano insegnato tanto. Mi fecero appassionare al mondo con le loro storie di viaggi. Perché la morte aveva scelto proprio loro come vittime sacrificali? Era tutto ingiusto.
Tornammo in Italia col primo volo serale. Due giorni dopo ci furono i funerali. Filippo venne da noi la prima settimana. Ci accampavamo nella stanza di Giulio, ma nessuno chiudeva occhio o parlava. Eravamo semplicemente lì, per lui. Poi, Filippo andò dai nonni materni, gli unici ancora in vita della ristretta famiglia che gli era rimasta. Non volevo che rimanesse solo, ma accettai il suo bisogno di ritrovarsi in quel surrogato di famiglia. Ma nemmeno quello bastò. Tre settimane dopo ci chiamò per incontrarci al nostro posto, al parco giochi sul Monte Tubenna. Ero così sollevata di rivederlo, che stava bene, che era in forma, che aveva ripreso a sorridere, che non mi accorsi dell’enorme borsone giallo ai suoi piedi. Me lo fece notare mio fratello e lì credetti di morire. Ma era una decisione già presa, nessuna possibilità di appello. Ci chiese solo di accompagnarlo in aeroporto.
Quando lui partì, metà del mio cuore partì con lui. Mi odiavo per non essere riuscita a cancellare il suo tremendo dolore. Eravamo solo ragazzi. Con quella tragedia, la vita mi aveva portato via il mio migliore amico, il mio confidente, il mio gemello diverso.
Fu una dura e lenta risalita, come ritornare a camminare dopo averti amputato una gamba: sei instabile, traballante, ma alla fine ritrovi il tuo equilibrio anche sulla nuova protesi. Ma un’amputazione ha le sue conseguenze e Filippo divenne il mio arto fantasma. Ci sentivamo, mandava cartoline da tutto il mondo e grazie alla tecnologia potevamo fare qualche videochiamata, linea permettendo. C’era, ma non c’era. Lo sentivo, ma non potevo toccarlo. Un fantasma.
E così ritornammo in due. Mi attaccai a mio fratello ancor più di prima. Se avessi perso anche l’ultima parte di quel cuore malconcio, sarei morta definitivamente. Eravamo di nuovo il duo e come prima di Filippo, ci saremmo stati l’uno per l’altra. Giulio e Vittoria, Vittoria e Giulio; noi due, più maturi, più consapevoli, più uniti da un legame indissolubile.


 

È la prima one-shot che pubblico. In passato (almeno sette anni fa) ho tentato di pubblicare una long ma non l'ho mai terminata e anzi, l'ho cancellata dal sito e dal pc. Era illeggibile e soprattutto immatura. Perciò, a distanza di millenni, vorrei ritornare a essere attiva su EFP come autrice, per quanto possa essere definita tale. Fatto sta, grazie se siete arrivati fino al punto finale, se ne avete letto metà o solo il primo rigo. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, anche un insulto per non essere riusciti a proseguire nella lettura, ma che sia costruttivo! ;)

Bisous

  
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