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Autore: Mikirise    24/04/2018    1 recensioni
“Cosa?” chiede una volta che pensa di avere di nuovo il controllo della situazione.
“Avrò un bambino” ripete Keith, alzandosi a sedere. Si gratta la testa, fa una smorfia. “Con Lance McClain.” Riesce a vedere come gli ingranaggi dell'altro riprendano lentamente a funzionare. Cerca di mettere insieme i puntini, raccogliere le informazioni che per lui sono importanti. Fa sempre così.
“Per il corso di Educazione Domestica!”
[Iniziativa: Questa storia partecipa al “Parents Checkmate” a cura di Writer’s Wing e Fanwriter.it! ]
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Kogane Keith, McClain Lance, Takashi Shirogane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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  • Sii presente e partecipe nella vita di tuo figlio! Loro ricorderanno questi momenti per il resto della loro vita!

Si era alzato in punta di piedi e aveva preso la sua chiave, appesa al collo, per poi infilarla nella serratura e girare il polso. La casa era buia. Puzzava di chiuso. E quindi aveva sbuffato, si era sistemato di nuovo la chiave al collo ed era entrato, chiudendo dietro di sé la porta, e il buio lo aveva ingoiato nella sua interezza.

Quando era piccolo, Keith non ricorda che ci fossero molte persone intorno a lui. Shiro - Shiro c'è sempre nei suoi ricordi e non sa quando di preciso è entrato nella sua vita, o quando ha iniziato a considerarlo un fratello maggiore, o quando di preciso, da fratello ha iniziato a dover fare anche le veci del padre, sa solo che è successo, a un certo punto della sua vita e che lui era piccolo, e che Shiro era decisamente troppo giovane.

C'era un biglietto, attaccato al frigorifero; Keith aveva semplicemente alzato lo sguardo e lo aveva ignorato, facendo cadere lo zaino sul pavimento, girandosi per andare verso la finestra e aprire le serrande. Si era aggrappato alla corda, aveva allungato le braccia e l'aveva portata giù con il suo peso. La serranda si era aperta, ma solo di poco ed era entrata quella luce che serve soltanto per non sbattere contro i mobili. Keith poteva considerarsi soddisfatto, quindi si era tolto le chiavi dal collo e aveva girato i tacchi, per muoversi verso la cucina. Ma si era bloccato, guardando verso il basso e sentendosi decisamente molto stanco.

Intorno a lui non c'era nessuno. Non doveva fare nulla. Nessuno voleva che lui facesse qualcosa. Non aveva regole. Nessuna restrizione. Quindi poteva fare tutto quello che voleva fare. E lui non voleva fare niente.

I bambini a scuola erano rumorosi, gli insegnanti gli facevano continue domande, e lui non se la sentiva di rispondere a domande, e non aveva le forze di fare lo stesso rumore che facevano i suoi compagni di scuola. Non voleva giocare con loro. Non voleva parlare di se stesso. Rispondere a domande troppo curiose. Sorridere quando non se la sentiva di sorridere. Per questo si era girato verso il divano e ci si era sdraiato sopra, con le guance schiacciate contro i cuscini e una mano tra i capelli. Aveva preso un respiro profondo, poi il respiro lo aveva trattenuto e aveva chiuso gli occhi.

C'era un po' di luce che entrava dalla finestra, non troppa, perché lui da solo non riusciva ad aprire le serrande, ma almeno c'era. Decide comunque di chiudere gli occhi e studiare il buio dietro le sue palpebre, che invece è un buio leggermente rosato. Non è un vero buio. Per questo strizza un altro po' gli occhi finché non c'è il completo buio nel silenzio dell'appartamento, interrotto dal ronzio del vecchio frigorifero. Continuava a trattenere il respiro e magari il suo viso era diventato blu, o viola o verdognolo; magari se tratteneva il respiro per il giusto periodo di tempo, sarebbe diventato un mobile anche lui. Avrebbe smesso di fare rumore e di sprecare soldi, cibo e ossigeno e sarebbe stato il figlio giusto. Il figlio che avrebbe fatto rimanere sua mamma. Il figlio che non avrebbe fatto lavorare suo padre fino allo sfinimento. Il figlio che poteva sorridere quando non se la sentiva di sorridere. Cercava di trattenere il respiro, ancora un po', un altro po'. E poi apre la bocca e riprende aria. Aveva aperto gli occhi e si era girato lentamente sul fianco. Il suo respiro faceva rumore.







Lance è seduto accanto a lui, con le caviglie incrociate e i gomiti sul banco. Si gratta la guancia, sospira e poi tira la testa indietro. Poi la raddrizza, torna a guardarlo negli occhi e scuote impercettibilmente la testa, ora li ruota, gli occhi. E sorride. Keith lo osserva in silenzio e si rende conto, forse per la prima volta da quando hanno deciso di essere amici, quanto questo ragazzo si muova, quanto gesticoli, quanto sembri vivo. Keith assottiglia lo sguardo e continua ad osservarlo. “Io mi sono iscritto per Hunk” gli dice, prendendo a dondolarsi sulla sedia. Deve non essersi reso conto di questi suoi movimenti perché sono così naturali e fluidi da sembrare invisibili. Sono così parte di Lance, che è così parte dell'ambiente intorno a loro, che si perde, diventando solo un dettaglio. Almeno, era così prima. “Hunk ha detto: sì, lo facciamo, tanto quanto potrebbe mai essere difficile Educazione Domestica? La cosa non divertente è che io, a casa, faccio già tutte le faccende che devo fare.” Prende a contare sulle dita delle mani. “Spazzo, passo lo straccio, lavo i piatti, so anche cucinare. So come portare avanti una casa. Ma no, mi faccio convincere da Hunk.”

“Hunk è convincente” gli risponde, scrollando le spalle.

“È la faccia, vero?” chiede, indicandosi il viso. “Deve essere il viso da bonaccione. Uno lo vede così, dolce e gentile e dice: ma sì, certo, non mi potrà mai ingannare. E poi, una volta che ha la tua fiducia...” Fa un gesto con la mano, come se stesse colpendo qualcosa con il suo pugno. Sospira. È un sospiro spezzato.

Keith non risponde. Aggrotta le sopracciglia e continua a osservarlo. Lance si muove normalmente come se fosse parte dell'ambiente. Per questo non si nota. È invisibile come lui una volta voleva diventare, e invece adesso lo vede. Quindi deve esserci qualcosa che non va. Perché se non è fluido, se non è impossibile da prendere con le mani, se ha colore e odore, se non è acqua, non è Lance. È qualcosa che gli ha detto Veronica, l'ultima volta che è andato a trovarlo a casa, con le braccia incrociate e lo sguardo preoccupato. Poi gli aveva chiesto: cosa c'è che non va? E Keith era caduto dalle nuvole. Aveva sbattuto le palpebre e si era tirato indietro e aveva detto: Lance sta bene. Forse, però, non è così vero. E la cosa assurda è che lui in quel momento ci credeva anche. E adesso lo guarda e ha la sensazione di aver mentito alla sorella di Lance. E sbatte lentamente le palpebre.

“E sai lui che cosa ha scelto di fare per i crediti?” continua il ragazzo, appoggiando il mento sul dorso delle mani e con una smorfia sulle labbra. “Prova a immaginare” cerca di incalzarlo con un gesto dell'altra mano.

Keith si inumidisce le labbra e scrolla le spalle. Riesce a capire che c'è qualcosa che non va, ma non riesce a capire che cosa. Annuisce lentamente. “Il club di cinematografia?” chiede, e solo perché è l'unico che gli viene in mente.

Lance prende un respiro e fa un mezzo sorriso. “No...?” gli risponde e poi si tira in avanti con le spalle. “Falegnameria” dice, alzando le mani in aria e stringendo le labbra una contro l'altra, facendo in modo che le guance si gonfino un po'.

Keith alza un sopracciglio. “Falegnameria?” chiede.

“Falegnameria!” risponde Lance, gridando e tirandosi indietro. Ha smesso di dondolarsi sulla sedia, gioca nervosamente con le dita e scuote la testa. “Chi mai farebbe il corso di falegnameria? Almeno, non lo so, un corso di Meccanica, quello lo avrei anche capito. Ma Falegnameria! Pidge dice che aiuta con la manualità. Tu ci credi?” Ride piano, scuote di nuovo la testa. “Papà dice la stessa cosa della manualità ma con la macchina.” Si morde il labbro destro e distoglie lo sguardo per qualche secondo, poi scrolla le spalle. “E quindi dobbiamo scegliere un nome per nostro figlio, figlia, persona a cui abbiamo dato la vita.” Torna a sorridere, e si guarda intorno per vedere come tutti i loro compagni di corso siano alla ricerca di un qualche equilibrio. Chi tiene il bambino mercoledì? Con chi dorme i fine settimana? Dove incontrarsi la mattina? Dove prendere le cose giuste per accudire un bambino? Nessuno sembra interessato al nome. Non da quello che ha sentito.

Il bambolotto di plastica è disgustoso. Keith gli lancia a malapena un'occhiata e poi preferisce tornare a guardare Lance che continua a muoversi sul posto. Fa un gesto con la mano, come se volesse sistemarsi i capelli dietro l'orecchio, ma i suoi capelli sono troppo corti perché lui lo possa fare e Keith non sa come interpretare questo suo sembrare così nervoso. Inizia a far sentire a disagio anche lui. Incrocia le braccia. “Potremmo dargli, o darle, o...” Sbuffa. “Dare. Potremmo scegliere il nome dei nonni.”

“Quindi dei miei genitori” dice Lance e si tira un po' indietro, prima di aggrottare le sopracciglia e tornare a mordersi le labbra. “Carmen. O James.” Guarda il bambolotto per una frazione di secondo, poi espira. “Nah, non ha la faccia di una Carmen. Che ne dici se dessimo il nome di Shiro? Sarebbe un nonno onorario, no?, se tu avessi della prole.”

“Hai davvero detto prole?”

“È l'unico termine neutro che mi è venuto in mente” spiega con un mezzo sorriso. Si gratta la testa. A Keith sta venendo mal di testa. “Potremmo chiamarlo Takashi. Per fare prima potremmo chiamarlo Tak, così sembra grazie in norvegese, e quando ci chiederanno il perché di questo nome, potremmo dire che il bambolotto ci ricorda Shiro. Per questo lo abbiamo chiamato Grazie. Per ringraziare qualche divinità di averci dato un figlio bello.”

“O potremmo non dare nessun nome” propone Keith, alzando una spalla. “Potremmo chiamarlo Bambolotto e trattarlo come quello che è. Un bambolotto.”

“Sono due settimane.” Lance fa una smorfia. “Non puoi trattare nostro figlio come un bambolotto, Keith” gli dice, con la testa leggermente inclinata. “Taki” ripropone, indicandolo con il dito, a volergli ripassare la palla e Keith sospira. “Mini Shiro. Shiro-Shiro. Taka. Ashi.”

“Ashi?”

“Davvero? Ashi?”

Keith ruota gli occhi e si passa entrambe le mani sul viso, “Va bene, okay” borbotta. “Chiamiamolo Takashi, allora.”

“Per fare presto Tak, o Taki. E il suo soprannome può essere anche Taco!” Muove le mani come se volesse mostrare delle scritte al neon davanti a loro, inclina la testa verso di lui e sorride con la bocca aperta. “Takashi McClain-Kogane.”

“Kogane-McClain” ribatte Keith con un sopracciglio alzato e con le braccia incrociate. “Vanno in ordine alfabetico.”

“Nemmeno ti interessava dare un nome a nostro figlio, cinque secondi fa e adesso vuoi anche la precedenza del tuo cognome? McClain-Kogane. Non puoi dire di no.”

“Posso dire di no, invece. È questione di principio. Poi l'Anagrafe verrà a farci storie.” Alza un lato delle labbra e alza una spalla. “Mi hai detto tu di comportarmi come se fosse un bambino vero.”

Lance assottiglia lo sguardo e Keith aspetta che si butti in una delle sue battaglie a senso unico, in cui si attacca a una faccenda inutile solo per poter brontolare. È pronto. È quello che vuole che faccia. Invece, il ragazzo prende un respiro nervoso e guarda il vuoto, prima di espirare. E scuote la testa. “Come ti pare” mormora e la frase quasi non si sente, persa nel rumore di tutto quel vociare intorno a loro. Deglutisce. “Ho sempre voluto una figlia” cambia argomento, con un sorriso forzato. “Dici che è una femminuccia?” Prende in braccio il bambolotto, fasciato da una coperta bianca e lo rigira, facendo in modo che una voce registrata di un neonato ridesse da qualche parte lì dentro. Lance sbarra gli occhi, prima di abbracciarlo a sé, portare una mano sulla testolina di plastica e girarsi verso il suo compagno di sventura. Boccheggia, prima di dire a bassa voce: “È già attivo.”

“Magari non ha genere” risponde Keith, tirandosi in avanti, per studiarlo e poi, ricordandosi che la cosa non gli interessa più di tanto, si ritira indietro.

Lance arriccia le labbra e posa la guancia sulla testa di plastica. Il bambolotto continua a fare dei versi. “Sta vocalizzando” dice col labiale e lancia uno sguardo al professore, che gira tra i banchi, per sapere come si stiano organizzando gli pseudo-genitori. “Forse dovremmo chiedere a Coran” dice, prendendo a cullare il bambolotto.

Keith sospira. “O potremmo tranquillamente decidere che hai tra le braccia una bambina che vuoi chiamare Taco” propone con un tono di voce neutro. Voleva evidenziare quanto fosse ridicola la situazione che stanno portando avanti, ma gli occhi di Lance brillano all'idea e gli scalda il cuore. Deve distogliere lo sguardo, mentre un calore alla base del collo inizia a farsi sentire violentemente, e accarezzarsi la fronte con due dita, per non dover guadare Lance neanche per sbaglio. “Ora dovremmo scegliere i turni.”

Lance inclina la testa. “Sta con me i giorni pari e con te i dispari” scherza. Al suo ridere, il bambolotto, questo Taco, ride. “Le sto simpatico” sussurra, lanciandole uno sguardo veloce. “Stiamo praticamente sempre insieme” riprende poi, ruotando gli occhi, con un mezzo sorriso. Poi lo studia, velocemente, e annuisce. Deve aver visto il disagio sul suo volto. O deve aver notato che non vuole guardarlo negli occhi. O il suo stuzzicarlo di proposito perché si arrabbi con lui. L'espressione di Lance si indurisce un po' e deglutisce. “Se vuoi, può dormire da me, eh, ma quando esco la devi tenere tu.”

“Non è quello che...”

“Senti” lo interrompe Lance, con una mezza smorfia, cullando Taco. “Io la voglio questa A. E se tu non mi vuoi aiutare, sinceramente amen. Io” evidenzia il pronome, si stringe un po' di più il bambolotto al petto. “Io non mi posso permettere di rovinarmi la media nell'ultimo corso dell'ultimo semestre del liceo.” Alza una spalla e torna a guardare il bambolotto che si è zittito, per qualche motivo. “Chi è il tuo papà preferito?” le chiede con quel tipico tono che tutti gli adulti hanno quando parlano con un bambino al di sotto dei due anni. “Chi è il tuo papà preferito?” chiede di nuovo.

Il bambolotto alza meccanicamente le mani verso il viso di Lance, che sbarra di nuovo gli occhi, mentre questo continua a ridere.

“È inquietante” sussurra Keith, con un sopracciglio alzato.

“Non ti permettere mai più di dire a mia figlia che è inquietante” lo avvisa, con mezzo sorriso. “Lei è perfetta. E non verrà bocciata all'asilo come il suo altro papà, vero?” continua con le sue smorfie e le labbra a formare un cuoricino perfetto.

Keith ruota gli occhi e, sai che c'è?, chi se ne frega.







Quando aveva riaperto gli occhi, c'era Shiro, inginocchiato accanto a lui, che gli sorrideva e gli mostrava questo sacchetto di plastica che agitava come se all'interno non ci fosse nulla. Keith si era girato sul fianco, aveva sistemato la testa sul braccio e aveva sospirato. “Ti sei addormentato” aveva detto Shiro, passandogli una mano sulla fronte. “Tutto bene?”

Keith non aveva risposto. Aveva allontanato malamente la mano di Shiro per poi sbuffare e alzarsi a sedere sul divano. Sentiva la testa vuota e gli occhi ancora più pesanti. Aveva incrociato le gambe sui cuscini e si era stropicciato un occhio con molta convinzione, prima di lanciare un'occhiata all'orologio nella stanza. Era tardi.

“Ho pensato di passare da quel ristorante che ti piace tanto” aveva preso a parlare di nuovo Shiro. “Quello che hai detto che ti piaceva. E visto che oggi è stata una giornata importante...”

Keith aveva sbuffato e si era buttato di faccia sul divano, prima di lamentarsi e grugnire contro i cuscini. Shiro lo aveva guardato, sbattendo lentamente le palpebre, ma non aveva più detto nulla sul giorno che sarebbe dovuto essere importante. Forse avrebbe voluto. Keith si era di nuovo alzato a sedere, prima di scivolare sul tappeto, davanti al tavolino e allungare le mani verso le buste di plastica.

Riusciva a sentire l'odore di zenzero e ginseng. Non aveva mangiato nulla da quando era uscito di casa quella mattina, con la sua chiave al collo e la raccomandazione di comportarsi bene. Poi papà non lo aveva potuto accompagnare. Doveva partire prima, perché il traffico del mattino, diceva sempre, era l'unica cosa che non sarebbe mai stato in grado di affrontare. Era una battuta. Keith aveva cercato di muoversi verso il cibo, ma era stato fermato da una mano di Shiro, che lo aveva spinto all'indietro, prima di sedersi accanto a lui.

“Ti devi lavare le mani” gli aveva detto e Keith aveva alzato lo sguardo verso di lui e si era morso l'interno delle guance, con le sopracciglia aggrottate e un broncio. Non era molto sicuro di quello che avrebbe voluto fare. Quindi aveva abbassato gli occhi e si era guardato le mani. Non aveva nemmeno giocato con la terra, a scuola, quindi perché farlo? Sicuramente non erano sporche.

“Dobbiamo aspettare papà?” aveva chiesto, continuando a mordersi le guance, coi molari ancora da latte.

Shiro aveva sospirato e si era guardato intorno. “Possiamo mangiare anche solo noi due” gli aveva risposto il più dolcemente possibile, e Keith aveva assottigliato lo sguardo e sapeva che cosa voleva dire quando Shiro parlava in quel modo. Doveva aver a che fare con quel biglietto che non aveva voluto leggere quando era tornato a casa. “Penso che tuo papà farà un po' tardi. Lui non...”

“Lo so” lo aveva interrotto, prima di inclinare la testa e tornare a guardare le buste di plastica. L'odore di zenzero stava iniziando a dargli alla testa e lo stomaco iniziava a sembrargli sempre più vuoto, un po' come la testa qualche secondo fa. “Hai preso il samgyetang.” E non era una domanda. Era il suo olfatto a dirlo.

“E il janchi guksu” aveva aggiunto Shiro, con mezzo sorriso e la testa inclinata per poterlo guardare negli occhi. Keith aveva serrato la mascella e si era guardato intorno, un'ultima volta, per studiare la situazione. Doveva decidere per cosa valeva la pena cedere. “Perché è un giorno speciale, poi” aveva continuato Shiro, con il ginocchio alzato. “Ho preso gli yakgwa” aveva cercato di tentarlo.

Keith aveva fatto un broncio. Un dolce. No. Il dolce. Aveva sorriso. Un sorriso piccolo, non così evidente. Si era alzato in piedi, per andare verso il bagno. “Ma non perché è un giorno speciale” aveva lagnato e Shiro aveva tirato un sospiro di sollievo. “Solo...” Aveva scrollato le spalle. “Lasciamone un po' per papà.”





“È disgustoso” commenta Pidge, con le mani sotto il mento e i gomiti sono poggiati sul tavolo, mentre Lance continua a cullare Taco. Keith fa una smorfia, scrolla le spalle e riprende a mangiare il suo panino, come se l'intera faccenda non lo riguardasse. E negli ultimi due giorni è stato effettivamente così. Non ci deve essere un vero motivo perché questa cosa cambi. “Ha i rotolini alle braccia?” chiede ancora la ragazza con una smorfia di disgusto sulle labbra. Lo indica con un dito. Lance alza lo sguardo verso di lei e ruota gli occhi.

“Non ascoltarla” dice al bambolotto. “Zia Pidge è soltanto una misantropa, invidiosa della nostra felicità. E poi,” aggiunge girandosi verso Hunk, che sta prendendo un biberon. “Zio Hunk dice che sei la bambina più bella del mondo. Vero Hunk.”

“Ovviamente” risponde lui, senza nemmeno pensare. E Keith alza un sopracciglio e preferisce riempirsi la bocca con un altro morso, piuttosto che commentare. Hunk passa il biberon a Lance, che inizia a dare da mangiare al bambolotto, che fa dei versi. Sì. Fa dei versi. All'inizio, sembra che stia soffocando. Keith deve lasciare il panino che ha in mano, per essere sicuro che Lance non stia uccidendo un bambolotto. Poi Taco ride, e lui ruota gli occhi.

“Non rispetta nemmeno le etnie!” protesta ancora Pidge, sbuffando. Scuote anche la testa, si gira verso Keith, come a voler dimostrare il suo punto. “Quel ragazzino è caucasico. È bianco.”

“Non ascoltare tua zia razzista, Taco” dice Lance al bambolotto, con la testa inclinata. Poi si gira verso di lei e con una piccola smorfia dice: “Esiste l'adozione. E poi, Keith è mezzo texano.” Sospira e ruota gli occhi. “Mettiamola così: io e Keith ci siamo incontrati e lui aveva una bambina da una sua precedente relazione, decidiamo di metterci insieme, io ho adottato sua figlia, quindi adesso è anche mia figlia e lui non vuole prendersi le responsabilità delle sue azioni e io mi ritrovo a crescere da solo la nostra bambina. Che dici?”

Keith alza lo sguardo verso di lui, con una chiara espressione tradita che gli fa sbuffare una risata. “Cosa?”

“Mi ricorda una vecchia telenovela” commenta Hunk, sistemando la borsa sulla panca. “Come si chiamava?” chiede a Lance, che è tornato a guardare il bambolotto. “Las penas del alma? Una cosa del genere? Mi pare fosse messicana.”

“Nah, non potevo vederla quando ero piccolo” risponde lui, togliendo il biberon dalla fessura che dovrebbe fungere da bocca del bambolotto. “Mama diceva che parlava di cose troppo spinte per me. Ai tempi poi, io e Veronica abbiamo passato la fase delle telenovelas brasiliane. Tipo, Terra nostra, La forza del desiderio, roba così.”

“Ma dai!” esclama Hunk, girando il busto verso di lui e scuotendo la testa. Keith condivide uno sguardo con Pidge, che scuote la testa a sua volta. “Aveva anche una bellissima sigla. Ella era sin mieeeedo... davvero? Spero che Taco tu la cresca a suon di Ugly Betty e Jane the Virgin, perché accetti le due anime della sua cultura.”

Lance ride e si porta una mano sul petto. “Perché così, anche se papà Keith ci ha abbandonati, lei porterà sempre nel cuore una parte di lui. Un quarto di lui? Un sedicesimo...? Una certa frazione di lui.”

Hunk sorride tristemente, ma solo per un millesimo di secondo, poi ride nervosamente, e Lance scrolla le spalle. “E in questa vostra telenovela malata,” riprende la parola Pidge. “Io e Hunk cosa saremmo?”

“I padrini!”

Keith si passa una mano sul viso e sospira. “Lance” lo richiama, lasciando il panino sul fazzoletto. Lance alza gli occhi verso di lui e inclina la testa e sembra soltanto confuso dal suo modo di fare.

“Okay” risponde la ragazza, dopo aver sospirato, attirando l'attenzione del ragazzo, prima che Keith possa aggiungere altro. Tira su la gamba e poggia la guancia sul ginocchio. “Ma non faccio da baby-sitter.”

“Nessuno ti ha chiesto di fare da baby-sitter.”

“Beh, Hunk sembra essere pronto per essere il baby-sitter di quel mostriciattolo.”

Hunk e Lance si lanciano un'occhiata, prima di tornare a guardarla. E Lance sorride, scrolla le spalle, guarda verso il basso. “Sì, beh, perché noi due siamo due anime gemelle e Hunk ha percepito il mio stress.”

“Il tuo stress” ripete lentamente Keith. “Posso tenerlo questa sera, se ti stressa così tanto, quel bambolotto.”

“Oh, vuoi dire nostro figlio?”

“Non farò questo gioco, Lance” ribatte Keith, alzando gli occhi al cielo. Sul loro tavolo, per un momento, cala il silenzio e sente come tutti gli sguardi vadano su di lui. Anche quelli di Pidge, che è rimasta con la bocca semi-aperta, in attesa di qualche altra parola, di una frase in più. Hunk si inumidisce le labbra e torna a sistemare lo zaino in cui Lance ha infilato tutte le cose che pensa siano importanti per il bambolotto. Ha rotto l'immobilità. Pidge sbatte gli occhi e prende a giocherellare coi lati di un libro scolastico. Keith sospira e si stropiccia un occhio. “Non doveva uscire fuori così.”

Lance assottiglia lo sguardo e scrolla le spalle. Lo vede, mentre serra la mascella, ma non dice niente, infila solo il bambolotto in quel vecchio marsupio, che si vede quanto sia stato usato e riusato nel corso degli anni, prende un respiro profondo e dice: “Come vuoi.” Ed è perchè è qualcosa che ha già detto per la seconda volta in meno di una settimana che decide di non litigare.

Keith aggrotta le sopracciglia e apre la bocca, perché, beh, sì, magari può litigare con lui in un altro modo, farlo arrabbiare, farlo aprire, fare in modo che dica qualcosa, perché, lo ha capito, è questo quello che riesce a fare per Lance quando le cose vanno male, ma Hunk scuote impercettibilmente la testa e questo deve voler dire qualcosa.

Pidge torna ai suoi libri e Hunk alza una spalla. Fingono che non sia successo niente e quindi forse loro sanno qualcosa, ma non glielo vogliono dire. È una situazione che sa un po' di tradimento.

“Tieni tu, però, Taco questa sera” mormora dopo un po'. “Io e Hunk abbiamo da fare, vero?” gira la testa verso il ragazzo, che si affretta ad annuire. “Per te non è un problema, no?”

Keith ruota gli occhi. “Certamente” risponde, con il tono di voce più acido che ha nel repertorio. Lance annuisce, Pidge non li guarda nemmeno più.





Shiro lo aveva messo a letto, ma non gli aveva chiesto di dormire. Quando Keith ha parlato di Shiro a Pidge, lei ha detto: Ah, come un baby-sitter. E poi aveva aggiunto: Non farei mai la baby-sitter. Ma Shiro non era esattamente un baby-sitter perché, beh, non veniva pagato. Era il suo vicino di casa. O almeno, lui pensava fosse un suo vicino di casa.

“Se succede qualcosa” gli aveva detto quella sera, “sono sempre nella porta davanti alla tua, va bene? Apri la porta e io sono qui, nella stanza degli ospiti.”

Keith aveva annuito, giocando con un aeroplanino di plastica, con le gambe coperte dalle lenzuola e le sopracciglia aggrottate. “Va bene” aveva detto in automatico, quando Shiro non si era mosso dalla soglia. E quando ha persistito, rimanendo lì anche dopo che lui aveva parlato, aveva alzato lo sguardo verso di lui e inclinato la testa. “Cosa?”

“Niente.” Continuava a non muoversi. Keith aveva abbassato l'aeroplanino e lo guardava, con la fronte corrugata. “Non c'è niente che non va, okay?” Era una di quelle cosa che diceva sempre e a cui Keith non ha mai creduto. Comunque, non importava ai tempi, non importa nemmeno adesso. Basta che Shiro pensi che lui pensa che vada tutto bene. È più tranquillo, in questo modo.

“Tu sei il mio baby-sitter?” gli aveva chiesto, per dargli una ragione per rimanere qualche secondo in più nella stanza. “Non sei vecchio per fare il baby-sitter?”

Shiro aveva sorriso. “Non posso essere il tuo baby-sitter” gli aveva risposto, “se facciamo parte della stessa famiglia.”

Keith aveva inclinato la testa e tirato su le ginocchia. “I baby-sitter non possono essere di famiglia?” Si era allungato per accendere la lampadina accanto al letto e poi aveva fatto un segno a Shiro perché spegnesse la luce. Shiro lo aveva fatto senza fare domande e si erano formate delle figure di stelle e astronauti che ballavano sulle pareti intorno a lui. “Papà andrà presto sullo spazio?”

“Penso di sì.”

Keith aveva annuito lentamente e si era sdraiato, continuando a guardare le figure che giravano e giravano intorno alla stanza e forse in quel momento gli erano iniziate a venire le vertigini, ma doveva continuare a guardarle. “Un giorno andrò anche io nello spazio, sai?” aveva detto e non era riuscito a vedere l'espressione che stava facendo Shiro, ma continuava a guardare verso l'alto e si stava chiedendo cosa ci fosse di così bello, così fantastico, nello spazio. Cosa c'è di così speciale che attira a sé tutte le persone importanti. Forse un giorno lo avrebbe potuto scoprire. Perché tutti adorano il cielo così tanto, cosa c'è di così incredibile che chiama le persona a cui vuole più bene non guardino mai lui, ma qualcosa lassù. “Lascerò un'orma sulla Luna.”

“Ne sono sicuro.”

Le forme degli astronauti avevano un braccio verso l'alto e sembravano voler raggiungere le stelle più vicine. Keith avrebbe voluto vomitare, quindi aveva chiuso gli occhi. Si era chiesto se erano le stelle a fargli venire da vomitare.

“Buonanotte, Keith” gli aveva augurato Shiro, prima di uscire dalla stanza. Keith non gli aveva nemmeno dedicato uno sguardo. Aveva grugnito. Aveva trattenuto il respiro e intrecciato le dita delle mani. Chissà cosa c'è tra le stelle, che attira tutte le persone importanti della sua vita.






Keith guarda il pannolino come se fosse il suo peggior nemico, poi gira la testa verso il bambolotto, che continua a fare questi strani versi che non sembrano essere molto felici e si muove. Si muove e rotola e questa cosa è inquietante e nauseante allo stesso tempo. “Cosa devo fare?” chiede per l'ennesima volta al telefono, mentre Shiro ride sul divano, col suo piatto di noodles e la televisione accesa. Lance sospira dall'altra parte, per qualche secondo non risponde nemmeno più, e Keith ha questa brutta sensazione che stia parlando di lui con Hunk, quindi si morde il labbro inferiore e continua a guardare male i pannolini. “Guarda, cerco su internet” cerca di dire dopo qualche secondo in cui lui non lo sente parlare.

“Aspetta” lo ferma Lance. “Aspetta, nella borsa che ti ho dato c'è tutto. Sulla scheda di Tak non c'è scritto che è allergica a nulla, quindi basta che tu gli passi la salviettina e starai andando alla grande, okay?” C'è una pausa in cui Keith sbatte le palpebre e guarda il bambolotto, sdraiato sul tavolo della cucina e il pannolino sporco che tiene in mano. “Non c'è Shiro, con te?” chiede Lance e il suo tono è meno nervoso di quanto lo fosse qualche secondo prima. C'è anche meno rumore che arriva alle sue orecchie. Deve essere uscito di casa.

Keith butta il pannolino nella spazzatura e torna a tenere il broncio al bambolotto, incastrando il cellulare tra l'orecchio e la spalla. “Sta mangiando” risponde cercando di aprire le linguette del pannolino. Sospira, continuando a grattare con le unghie. “E comunque questo è il mio corso di Educazione Domestica” borbotta, riuscendo finalmente ad aprirle e quindi sbuffando mezza risata, che si spegne nello stesso momento in cui il bambolotto fa un verso di disagio.

“Le hai dato da mangiare?” chiede Lance. La sua voce è soffice e Keith si chiede se si sta muovendo eccessivamente anche in questo momento. Se è salito sul tetto, quello davanti alla finestra di camera sua, per parlare solo con lui. A questo punto, si chiede se Hunk stia da lui per davvero. “Adora la frutta.”

“Perché è importante?” chiede, stendendo il pannolino e facendo una smorfia non molto convinta. Prende in braccio il bambolotto, che muove braccia e gambe. Il paese è in rovina, ma che le scuole dell'Ohio abbiano dei bambolotti inquietanti per far capire alle prossime generazioni quando brutto può essere un bambino. Ugh.

“Perché altrimenti vomita tutto” risponde Lance come se la cosa fosse ovvia.

“Va bene” mormora Keith, sdraiando il bambolotto sul pannolino, per chiuderlo in più in fretta possibile. Il bambolotto muove le gambe, divertito e si porta un piede in bocca. È la scena più brutta a cui Keith ha dovuto assistere e, davvero, lui di cose ne ha viste. Prova a chiudere il pannolino dall'altra parte, ma il bambolotto prova a rotolare verso di lui. Sospira, passandosi due dita sulla fronte. “E a che ore si addormenta?”

“Non si addormenta. In realtà, penso sia calcolato per piangere ogni due o tre ore, buona fortuna.” Lance ride. “Puoi provare a rinchiuderlo in una stanza e fingere che non esiste. Ho sentito che Nyma e Rolo fanno così e che ha qualche base teorica. Ma non ti lascerò crescere così una bambina.” Ride ancora e Keith fa una smorfia.

Sente Shiro posare il contenitore vuoto sul tavolino davanti alla televisione. Decide di non commentare le parole di Lance. Chiude il pannolino e riprende il bambolotto in braccio, per essere sicuro che non gli si sfili. “Potrei togliergli le batterie” dice invece.

“Sì, immagino che sia una soluzione” è la risposta che gli arriva. Lance sospira e rimane in silenzio per qualche secondo, mentre Keith infila il bambolotto nel suo pigiama blu, che immagina fosse di Lance quando era piccolo. È assurdo che la sua famiglia si sia portata tutte queste cose nel loro trasferimento da Cuba. Lance dice sempre che sua nonna è una donna nostalgica e che ci sono cose che è sicura non possano rimanere indietro, mai. Dice anche che probabilmente è un suo modo non solo per dire che i vecchi oggetti possono sempre servire, ma che lei, in quanto custode di questi, ha una funzione in questa famiglia, che piano piano va crescendo. “Tu non la vuoi una famiglia, vero?” gli chiede a un certo punto Lance.

Keith ci deve pensare. C'è sua madre, che da qualche parte deve pur stare, ma che non sta lì con lui. C'è suo padre, che finché c'è stato, è stato un po' tutto quello che aveva e che per questo motivo gli era bastato. C'è Shiro, che chissà che parentela hanno, chissà se è vero che sono cugini alla lontana, ma che comunque sta lì, e che un po' gli basta. Quindi, una famiglia ce l'ha. Più o meno. Non sa se riesce a reggere una famiglia che non sia composta solo da lui e Shiro. Non pensa di esserne capace. Non pensa nemmeno di voler esserne capace. E forse, una famiglia tradizionale non riuscirebbe a reggere lui. Forse, per questo, la risposta è no. Passa un dito tra le mani di plastica del bambolotto, che ride e gli fa venire i brividi. A quanto pare questi bambolotti hanno lo stesso effetto dei corsi in cui dicono agli adolescenti di non fare sesso non protetto. “Ho diciotto anni” dice, e usa l'età come una scusa, perché pensa che sia più facile in questo modo.

“Io ne ho diciassette” ribatte Lance e ride. “Ma penso che un giorno avrei voluto avere una famiglia. Una mia. Vedere delle persone che prima non esistevano, diventare sempre più grandi, sempre più consapevoli e dire, uao, sono stato io a renderlo possibile. E il pensiero che, non lo so, qualcuno starà sempre lì ad aspettare che torni a casa. Deve essere bello. Averlo da adulto, okay. Ma…” Fa una pausa e non sembra voler continuare. Ride piano. “Non penso che l'avrò.”

Keith aggrotta le sopracciglia e sistema il bambolotto su una specie di carrozzina che avrebbe usato come culla. Riprende in mano il cellulare. “Per la questione del pilota?” chiede, sedendosi su una sedia e continuando a guardare il bambolotto.

“Non è un lavoro da padre di famiglia.” Sta probabilmente scrollando le spalle. “Non potrei fare la stessa cosa che fa papà, capisci?, esserci, poi non esserci, poi perdermi anni e anni della vita della mia famiglia per lavoro, e poi stare lì e dovermene andare. Io vorrei -non riuscirei a farlo.” Ne sta parlando con un tono leggero, qualcosa che lui ha accettato, qualcosa di cui non ti devi preoccupare.

Keith assottiglia lo sguardo. “Un bambolotto rimane un bambolotto” dice, lentamente, scandendo le sillabe. “Un bambolotto non diventa adulto. Rimane sempre un bambolotto.”

“Ma puoi fare finta.”

“L'ho detto perché è una cosa positiva” dice Keith, sospirando. Si accarezza il ponte del naso, chiude gli occhi. “Taco non se ne andrà mai di casa.” Non può andare a cercare qualcosa che lui non ha nello spazio. Ed è un bene. E non è nemmeno una persona vera alla quale può veramente affezionarsi. Può valerne la pena. Fare finta. Se è per questo. “Va tutto bene?”

“Uhm? Sì, sì, certo. Papà è tornato e… Sai com'è quando torna.” Fa una pausa. Schiocca la lingua contro il palato. “Hai chiamato il bambolotto Taco.” Sente il sorriso di Lance, dall'altra parte, e anche solo per lui avrebbe potuto far finta di far parte di una famigliola felice. Solo perché l'altro genitore sarebbe Lance. Solo perché dall'altra parte c'è qualcuno che ama per davvero. Solo per questo. Ma è anche lo stesso motivo per cui tutta questa faccenda è un problema. Gli dà modo di pensare, immaginare, sognare, un futuro che comunque non potrà avere. Con Lance. Quindi sospira. “Domani facciamo colazione insieme?” sente che gli chiede, e si dimentica che sono al telefono e annuisce.







Suo papà era arrivato quando Keith aveva gli occhi mezzi chiusi e non sapeva se stava dormendo, o se era sveglio. Non aveva spento la lampadina, gli astronauti continuavano a volteggiare e aveva lasciato le braccia fuori dalle lenzuola, ed erano fredde. Fredde fredde. Papà si era seduto accanto a lui, sul letto, e Keith si era chiesto se era un sogno, girando la testa verso di lui. “Ciao papà” aveva comunque salutato, con la voce impastata e gli occhi a mezz'asta. E papà gli aveva spostato i capelli da sopra la fronte e gli aveva sorriso stancamente.

“Mi spiace non esserci stato per il tuo giorno speciale” gli aveva detto, posando la fronte sulla fronte di lui. Keith aveva alzato gli occhi e gli era sembrato difficile riuscire a guardarlo negli occhi. Aveva sbattuto lentamente le palpebre, e si era reso conto di quanto stanco fosse. “So quanto sia importante il primo giorno di scuola elementare” aveva continuato.

“Non importa.”

Suo papà non sembrava essere d'accordo. Aveva sospirato e poi era tornato a posare la testa sul cuscino. “Hai conosciuto qualcuno? Hai fatto amichetti?”

“Sono tutti più piccoli” aveva risposto Keith. “Ma c'è sempre Pidge. E c'è questo bambino, Hunk. Credo che si chiami Hunk. Si fa chiamare così. Penso che mi piace.”

“Ti piace?”

Keith aveva annuito lentamente. E papà aveva sorriso. “Hai mangiato la cena?” aveva chiesto, chiudendo lentamente gli occhi. Ricorda di aver sbadigliato. “Abbiamo mangiato la zuppa buona, quella che mangiamo ai compleanni.”

“Sì, ho visto.”

“Dobbiamo mangiarla insieme.”

“Va benissimo.”

Keith non vedeva l'espressione del papà. Vedeva solo quel buio dietro le palpebre e quell'immagine che gli è rimasta registrata degli astronauti. “Chissà se anche mamma riuscirà a venire a mangiarla” aveva detto. E c'era stata una pausa. Una pausa lunghissima. Non si sentiva nemmeno il frigorifero in cucina, nemmeno le persone che parlano per le strade e nemmeno le macchine che corrono per strada. C'era solo il buio e il silenzio. Di nuovo.

Papà gli aveva accarezzato la fronte e aveva sospirato. “Vedrai che verrà” aveva mentito. E Keith aveva chiuso gli occhi e tutto sembrava andare bene.

 
  
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