Videogiochi > The Elder Scroll Series
Segui la storia  |       
Autore: _Polx_    26/04/2018    2 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
-
“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
Il buio era ormai calato sul Nirn e non vi erano che le maestose luci dell'aurora boreale a rischiarare l'orizzonte. Prima che la sera scemasse nella notte, tuttavia, ecco la grande tenuta stagliarsi nelle tenebre della selva e molte erano le lucerne a indicare la strada.
Scorgendo casa, Ebor allungò il passo e Dovah fu sollevato nel vederlo allontanare, poiché aveva alcune perplessità da condividere con la giovane Sofie: “hai visto gli occhi di quell'uomo?”.
Lei tardò a rispondere, tanto bizzarra le parve la domanda: “che hanno?”.
“Neri come petrolio. In ciascuna iride, due pupille” sospirò profondamente, tanto inquieto quanto determinato “quell'uomo si è venduto a Hermaeus Mora”.
“Da ciò che mi hai raccontato, il Principe di Apocrypha non s'affida a sacerdoti o vassalli come sono soliti fare gli altri suoi fratelli”.
“Che questo Ebor sia un'eccezione o una sperimentazione, non cambia la sua natura: è proprietà del Daedra”.
“Come molti lo sono di altri Daedra. Ci ha aiutati: sarebbe scorretto mostrarsi ostili nei suoi confronti”.
“Credevo d'averti esposto con sufficiente chiarezza le mie esperienze nel regno di Hermaeus Mora perché tu ne comprendessi la pericolosità”.
Sofie sminuì con un silenzioso sorriso: “sembra quasi che tu stia parlando di Mehrunes Dagon” ma a quelle parole Dovah la squadrò con rimprovero: “credi che sia meno pericoloso, solo perché non ha mai ostentato tanta arroganza da azzardare una guerra aperta? Non vi è astuzia, non vi è inganno, non vi è sapere che possa essere usato contro di lui”.
“Papà, siamo qui grazie a Ebor” ribadì categorica “se troverai prova ai tuoi timori, sono certa che avrai modo di dimostrargli chi comanda, ma per quanto ne sappiamo è un amico e desidera aiutarci. Cal vale il rischio”.
A questo, Dovah non ebbe di che ribattere.
“L'ultima volta che sono passato da queste parti, non vi erano che foschia e boschi ad accogliere i viandanti” alzò invece la voce affinché Ebor lo udisse.
“E a quando risale l'ultima volta di cui parli?” chiese quello, voltandosi verso di loro.
“Sei, forse sette anni fa. Non ho più avuto motivo d'attraversare lo Hjaalmarch”.
“Io e mia moglie abbiamo dato il via alla nostra attività cinque anni fa. Certo non è stato semplice, ma infine gli affari han cominciato a consolidarsi e ora vantiamo ottimi profitti. Venite” incitò “la locanda è vivace, a quest'ora”.
In effetti, era raro vederne di così affollate: vi erano due bardi e tre locandieri, un gran numero di avventori e, sebbene a un tavolo sedessero tre ceffi, probabilmente uomini di ventura pronti a cedere la propria lama al miglior offerente, già ubriachi d'idromele e irrequieti a causa del gioco a dadi che andava evolvendosi nella sfortuna per alcuni di loro, nessuno se ne curava, poiché quattro guardie private, una per ciascun ingresso della locanda, armate di tutto punto e protette da imponenti armature d'acciaio, non distoglievano i propri occhi da loro, assicurando quiete e sicurezza.
Per un istante, Dovah perse di vista la sua guida, poiché Ebor s'allontanò per contro proprio, facendosi largo fino al bancone, dove sedeva una donna intenta a scrivere una missiva, silenziosa nel mezzo del frastuono.
Le sue vesti erano scure quanto i lunghi capelli che scendevano fluenti come onde lungo la schiena e, quando si voltò verso di lui, Sofie riuscì, pur restando in disparte, a scorgerne il viso: lo trovò più bello d'una primula, sebbene fosse pallido come la neve e i suoi tratti difficili da comprendere, poiché parevano Nord e, al contempo, di molte etnie diverse. I suoi occhi affilati e luminosi come gemme sembravano persino portare tracce Mer nel proprio disegno. Il suo grembo era colmo di vita e, da come Ebor sorrise nel richiamarla a sé, carezzandole il volto e il capo corvino, comprese che dovesse essere la moglie di cui parlava. Ne ebbe conferma quando la donna s'avvicinò a lui e lo salutò con un bacio lieve.
Sofie combatté a fatica l'istinto di distogliere lo sguardo quando Ebor indicò Dovah al suo fianco, interloquendo brevemente con la giovane sposa. La prese poi per mano e l'accompagnò tra la folla perché conoscesse i nuovi ospiti. Un avventore, tuttavia, vi si frappose e la implorò perché s'attardasse un altro po'. Nelle sue mani teneva un liuto e glielo consegnò come fosse una reliquia. Con sorriso accondiscendente, lei annuì e sedette sullo sgabello posto al centro dell'ampio salone.
Il silenzio cadde come la notte, mentre lei intonava le prime note e la sua voce vibrava lieve come brezza su di esse. Mai Sofie aveva udito suono più dolce di quello.
Cantò di un'antica battaglia e d'una sofferta vittoria, ottenuta per merito di un'alleanza forgiatasi nella disperazione. Presto altre voci si unirono alla sua ed erano quelle di viandanti e forestieri, sgualdrine e ubriachi. Voci che altrove sarebbero risuonate sgraziate e sgradevoli, ma che la sua domava come le lune domavano le maree e fu un canto di conquista e al contempo di pace quello che s'insinuò nel cuore di Sofie, scaldandolo e colmandola d'orgoglio.
La canzone finì, ma subito le mani di lei tornarono a sfiorare le corde del liuto e una nuova melodia prese vita. Anni addietro, i bardi amavano cantare la leggenda del Sangue di Drago, il suo potere e il suo destino, tuttavia esso si era ormai compiuto e altre erano le storie che gli avventori amavano ascoltare. La giovane donna intonò dunque la vittoria del Sangue di Drago, la sconfitta del divoratore di mondi, e Sofie avrebbe giurato di vedere il suo sguardo puntarsi in quello di Dovah.
Suo padre avanzò d'un passo, confuso e sospettoso, quando la udì parlare nella lingua dei draghi. In realtà, si trattava d'un brano ben noto, che da secoli si tramandava tra le lande di Skyrim, tuttavia Sofie lo conosceva con un accompagnamento diverso, più tonante e dirompente. Quello che scaturiva dalle labbra della musicante era invece quieto e grave, un sapore ancestrale lo permeava e Dovah vi riconobbe il canto da lui udito a Sovngarde, presso l'Aula di Shor.
Solo quando il liuto tacque e la voce si spense, l'applauso del pubblico diede alla donna il permesso di raggiungere Ebor e, con lui, accompagnare i forestieri alla loro dimora, costruita sul versante opposto della radura, alle spalle delle scuderie, lontana dal chiasso della taverna.
“Io sono Zeala” si presentò lei, precedendoli lungo la via “Ebor mi aveva avvisato del vostro arrivo e, in sincerità, temevo avrebbe impiegato più tempo a trovarvi”.
“Trovarci?” chiese Sofie, perplessa.
Dovah, al contrario, tacque. La sua espressione era ostile e i suoi occhi guardinghi.
“Prego” Zeala li fece accomodare “al piano superiore è pronta la vostra stanza. Datemi qualche minuto e scalderò un piatto di carne per entrambi. Sofie, cara, se desideri darti una ripulita, al piano inferiore vi è un catino con lavello e acqua corrente. Ebor ti aiuterà con la caldaia”.
La ragazza ascoltava interdetta: ben di rado le era capitato di disporre di simili agi, tra le genti di periferia.
Ebor la incitò a seguirlo, ma Zeala lo fermò dopo pochi passi: “quasi dimenticavo: Hedil è ancora da Beresh. Forse dovresti..”.
“Che dorma pure da lei, per stanotte” la interruppe lui con una scrollata di spalle “lo recupererò domattina”.
Zeala sospirò, vagamente contrariata, ma non insistette e lo liquidò con un cenno della mano.
Dovah parlò quando fu certo d'esser rimasto solo con lei: “come sapevi chi sono?”.
“Ebor me l'ha detto”.
“E come conosci quella melodia?”.
“L'hai sognata” rispose con innocenza “ma non si trattava d'un sogno: tu eri presente, nel corpo e nello spirito. Tu hai vissuto ciò che talvolta riaffiora nel tuo profondo”.
“Parli di Sovngarde?” chiese avvicinandolesi “dell'Aula di Shor?”.
Zeala annuì e il suo sorriso era tanto dolce e radioso che fu impossibile per lui temere marchi malvagi ad alimentare la conoscenza che era in lei.
“Sei una sorta di chiaroveggente?” domandò, sentendosi sciocco, ma incapace di pensare ad altre possibilità.
Lei scosse il capo: “sono una maledetta da Vaermina”.
Dovah attese, in silenzio.
“Mia madre mi ha fatto questo” continuò Zeala “perché le era fedele mentre io la ripudiavo e il Daedra ha dato ascolto alle sue preghiere, per opprimermi, per punirmi. Divenni ciò che per lungo tempo sono stata: un'anima intorpidita, satura di incubi e pensieri che non mi appartenevano. Temetti d'impazzire” la sua voce si ridusse a un sibilo, i suoi denti si serrarono, frementi “rischiai d'impazzire, ma non permisi a quel Principe malvagio di annichilirmi. Ecco dunque ciò che ho fatto: ho trasformato la sua maledizione in benedizione, ho fatto della sua condanna la mia felicità. E non temo per i miei figli, poiché sono liberi e al sicuro da qualsiasi maledizione quel mostro dell'Oblivion abbia in serbo per loro”.
“Perché sei sicura di questo?”.
“Vaermina non osa opporsi a Ebor”.
Dovah restò ammutolito da quelle parole e Zeala lo intuì. Rise lietamente: “non preoccuparti, lui ti è amico: non hai da temere” poi deviò “suppongo non t'alletti l'idea di sapere tua figlia sola con mio marito: ancora non ti fidi di lui. Prego, raggiungila. Mangerete quando sarete entrambi puliti e liberi dalle vostre scomode vesti”.
Due colpi di nocche sfiorarono la porta d'ingresso e Dovah si rizzò come una serpe. Zeala, al contrario, andò ad aprire con la massima calma: sulla soglia vi era un'anziana Argoniana che stringeva a sé un bambino immerso nel sonno. Le braccia della vecchia parevano gracili e affaticate, ma quella creaturina non poteva avere più di tre anni ed era esile come un pulcino.
“Vi siete scordati qualcosa” fece notare con tono seccato.
“Ti chiedo perdono, Beresh” ridacchiò Zeala “abbiamo ricevuto visite questa sera e ci è risultato difficile badare al resto. Lo sapevo in mani fidate” prese il bambino, faticando non poco ad accomodarlo sulla propria spalla, dati gli impedimenti imposti dal suo corpo “mi sdebiterò”.
“Nessun problema, bambina. A saperlo l'avrei tenuto con me. La prossima volta avvisatemi: dopo tutto, abito qui di fronte. Non vi arreca grande sforzo” rimbrottò infine e, auguratale una buona notte, si ritirò.
Zeala scosse il capo, sorridendo dolcemente, e dopo aver carezzato la fronte del bimbo addormentato, camminò goffamente fino alla sua piccola e calda stanza, dove un lettuccio lo attendeva accogliente.
“Nessun problema, Ebor” concluse quando se ne fu allontanata “ci ha già pensato la vecchia Beresh”.
“Meglio così” fu la risposta che giunse dal piano interrato e, scacciato il temporaneo disorientamento, Dovah fece quanto suggeritogli da Zeala, trotterellando rapidamente per la solida scala lignea. Trovò Sofie già abbigliata con una confortevole camicia da notte mentre, nella stanza accanto, Ebor ancora armeggiava con la caldaia, perché si spegnesse senza consumare troppa legna.
“Bene, Sofie” esordì “non m'aggrada saperti sola in casa d'estranei... specialmente, questo genere d'estranei. Tuttavia non posso perder tempo: mi farò dare una lama e un'armatura degna di chiamarsi tale. Dopodiché m'incamminerò per Labyrinthian e spero di tornare al più presto con buone notizie al seguito”.
“Papà, non puoi ripartire ora: sei sfinito”.
“Resisterò”.
“Dalle ascolto”.
Dovah sobbalzò all'udire la voce di Ebor alle proprie spalle.
“Cal è vivo, per ora sta bene” continuò quello.
“Come lo sai?” s'infervorò, affrontandolo senza soggezione.
“Poiché possiedo una particolare inclinazione, che mi consente di vedere laddove altri non vedono. La mia conoscenza è vasta, se so dove cercare, e il sangue del Dovahkiin è facile da individuare, anche se annacquato. Inoltre, Zeala ha sorvegliato i suoi sogni nelle ultime notti e, seppur inquieti, sono ancora vividi e salubri”.
“Chi diavolo siete?” sibilò Dovah, il proprio volto a un soffio dal suo.
Ebor non si lasciò intimidire, tuttavia parlò con accortezza: “pare che qualcuno di astuto e potente sia molto contrariato, perché tu gli hai arrecato un grave torto, e ha disposto di tempo sufficiente a ergere una nuova offensiva”.
“Sono molte le entità terrene e daedriche che ho contrariato”.
“Questa in particolar modo ti porta grande rancore. Ciò che desidero è aiutarti, nulla più”.
Dovah percepì dentro sé uno smarrimento che parve ricondurlo agli amari istanti di panico patiti nell'antro in cui Cal era stato imprigionato e seviziato: era frastornato, perso; si sentiva impotente e stupido; non sapeva come agire e l'idea di poter fallire gli mozzava il respiro. Sofie aveva ragione: la sua mente era troppo stanca per ragionare, il suo corpo troppo intorpidito per combattere. Necessitava di riposo, di tempo per rinvigorirsi, e non gli restò che dar credito alle parole di Ebor.
 
Sofie aveva per Ebor e Zeala molta più fiducia di quanta ne dimostrasse suo padre e le parole di lui la colmarono di speranza. Si coricò col cuore più leggero e dormì serenamente. Solo all'approssimarsi dell'alba il suo sonno fu interrotto da un pianto lieve di bambino, che s'insinuò nella sua mente intorpidita. Dovah era a tal punto sfiancato che non se ne accorse affatto e continuò a dormire indisturbato, nonostante il suo sonno fosse solitamente lieve e vigile.
Turbata dall'inaspettato risveglio e, tuttavia, incuriosita da esso, Sofie s'alzò e camminò scalza fino al pianerottolo. S'affacciò sull'ampio ambiente del soggiorno, dove era la stanza del piccolo che suo padre aveva avuto modo di scorgere, pur di sfuggita, la sera precedente. Ed era proprio quel bambino a piangere sconsolato. Neppure Ebor, che lo stringeva a sé amorevolmente, sembrava capace di rasserenarlo.
“Su, su, Hedil, non è accaduto nulla. Sei qui, ora, e sei al sicuro. Non aver paura” lo consolava, carezzandone il capo scarmigliato quanto il suo e baciandone il volto inumidito di lacrime, ma Hedil continuava a singhiozzare e incespicava in goffe parole che parlavano di incubi e neri tentacoli in un mondo di nere acque.
Zeala attendeva al loro fianco e pareva turbata: “Ebor” chiamò in un sussurro “non è troppo piccolo per questo?”.
“Io avevo la sua età quando sperimentai le prime ombre di Apocrypha. Sono terrificanti e sembrano reali, ma si tratta unicamente di proiezioni e non possono causare alcun male, a meno che non si decida volontariamente di varcarne il fragile velo per entrarvi con corpo e spirito, azione che, ad ogni modo, Hedil non è ancora in grado di compiere. Col tempo capirà che non vi è reale minaccia e tutto ciò che dovrà sopportare sarà qualche brutto sogno. Non è così?” chiese dolcemente, tornando a osservare il bambino che per inerzia continuava a singhiozzare pur senza versare più lacrime. Quello annuì senza comprendere e poggiò la testa alla sua spalla.
“Possiamo ancora sfruttare qualche ora di sonno” si unì Zeala “le trascorrerai con mamma e papà, d'accordo?”.
Hedil non rispose: s'era già riaddormentato e tra le braccia di Ebor gli incubi parevano lontani.
“A conti fatti, è un bene che Beresh l'abbia riportato a casa: quella povera vecchia non avrebbe compreso le sue farneticazioni” commentò lui in un sospiro.
Zeala carezzò il proprio ventre: “una famiglia per vivere in serenità, questo era l'obbiettivo, ma a quale prezzo? Non è forse egoismo il nostro?”.
“Non dire idiozie” la zittì seccato “non vi è né mai vi sarà creatura nel Nirn più amata e più serena dei nostri bambini. Io ho imparato a convivere con questi piccoli inconvenienti e così impareranno loro. Ti sembro forse un infelice?”.
Zeala sorrise mestamente: “no”.
“Dunque perché loro dovrebbero esserlo?”.
Non attese una risposta. Si sistemò Hedil tra le braccia e lo condusse nella loro camera. Zeala non aveva voglia di tornare a coricarsi, così nervosa e tesa. Vi erano ancora poche stoviglie da lavare nella tinozza e, azzardando qualche tintinnio di legno e ferro, decise di occuparsene in quel momento, nonostante il sole ancora tardasse a far capolino tra le ombre dell'aurora.
Sofie scese le scale in silenzio e la raggiunse con gran discrezione e leggerezza. Si fermò sulla soglia, ad osservarla di spalle mentre sfregava insistentemente boccali e posate, persa in chissà quali pensieri.
Parlò spinta dalla curiosità e dallo smarrimento, poiché tanto bizzarri sembravano ai suoi occhi gli abitanti di quella confortevole dimora che le pareva d'essere imprigionata in un qualche sogno vigile: “come vi siete conosciuti?”.
Le mani di Zeala s'aprirono e la ciotola che stringevano cadde con un tonfo nella tinozza insaponata.
Sofie s'impietrì: “perdonami, non desideravo spaventarti” ma la donna ridacchiò divertita, tergendosi la fronte col braccio: “perdonami tu, piuttosto: ero distratta. E dovrai perdonare anche Hedil: scommetto sia stato lui a svegliarti”.
“Non importa. Ho dormito molto bene”.
“Mi fa piacere” svuotò la bacinella nell'acquaio e s'accinse ad asciugare piatti e stoviglie con un panno profumato.
“Dunque?” insistette Sofie. A rischio d'apparire sfacciata, non intendeva demordere.
Zeala sorrise e la ragazza si ritrovò a pensare che, per quanto graziosa fosse agli occhi di sua madre e persino del giovane Pukka, mai avrebbe potuto ambire alla sua bellezza: “la nostra storia è difficile da narrare in poche parole e il tempo che abbiamo a disposizione non è molto”.
Sofie sospirò, delusa ma rispettosa, e pensò fosse ormai giunto il momento di ritirarsi. Tuttavia, la voce di Zeala la fermò, come un marinaio che venga colto nel sonno dal canto d'una sirena. Poiché questo faceva Zeala: cantava. E cantava il proprio passato.
 
Nella notte che cala sul Mundus,
per scelta d'altri e con gran paura,
anime maledette da volontà impura
vagan sole nell'oscurità che perdura.
 
Tra di essi vi è un Signore
che pure mai vanta potere
e, della propria gente mal volere,
fuggì da terre nostre eppur straniere.
 
Come lui una dama di poco conto
che certo altrettanta potenza non vanta
ma, quando nello spirito prova pena, canta
sì che la voce mai le è stata infranta.
 
Sofie sussultò, poiché finalmente comprese chi fossero coloro a cui tali parole si riferivano e pensò con sorriso inespresso che quello di Zeala fosse un modo assai bizzarro di parlare di sé e di Ebor.
 
Reietti che soli erravano nel rifiuto
e che pure trovaron nell'altro aiuto,
cosicché per ripicca mostrarono alle genti
l'ardore di vivere nella libertà delle proprie menti.
 
E, con non poco stupore,
scoprirono in tal ripicca amore.
 
“Io” balbettò Sofie “temo d'aver compreso molto meno di quanto in realtà non mi sia sfuggito”.
Zeala rise: “ciò che hai compreso è sufficiente. Tuo padre perdonerà la sfrontatezza di Ebor, ma lui s'è permesso di sondare i suoi pensieri riguardo al vostro domani: desidera estraniarti dalla missione che l'aspetta e io certo non gliene faccio torto. Tuttavia, pare che tu già gli abbia dato filo da torcere”.
Sofie abbassò lo sguardo, colpevole e in imbarazzo.
“Non temere: gli ho assicurato che più non avresti agito avventatamente e son certa che la mia fiducia non sia mal riposta. Sbaglio, forse?”.
“Non sbagli”.
“Bene” sorrise amabilmente “ora, prego, accomodati: ti preparerò una buona colazione”.
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > The Elder Scroll Series / Vai alla pagina dell'autore: _Polx_