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Autore: _Misaki_    29/04/2018    6 recensioni
Alcune persone se ne vanno all'improvviso, in un modo che non avresti mai potuto nemmeno immaginare. Quello che avviene dopo è difficile da superare.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Faded
 

Ricordo perfettamente quella maledetta mattina di dicembre. Da allora non so se ci sia più stato un solo giorno in cui non ho sentito almeno una stretta al cuore. Se ci sia stato un solo giorno in cui non ho pensato di voler piangere, all’improvviso, non importa dove fossi e cosa stessi facendo. Da allora molte volte ho pensato che mi manca com’era la vita prima di quel giorno, che avevo bisogno di tornare indietro anche solo per un istante per dare pace al mio cuore straziato. Ho pensato anche che dovevo farmi forza, perché so perfettamente che il dolore di chi gli era più vicino è probabilmente molto più grande e il solo immaginarlo mi spaventa. Un dolore così intenso dovrebbe ucciderti all’istante e invece non lo fa, ti logora dentro e ti lascia vivo e agonizzante, consapevole che nemmeno se piangi, se urli contro il mondo e vomiti la nera disperazione che ti opprime lui tornerà indietro. Lui non ci sarà mai più. È questo che non ti dà pace.
Tutto si fermò quel maledetto giorno di dicembre. Da allora percepisco ogni cosa diversamente. Le mie preoccupazioni sono state azzerate e rivalutate, sono state riposizionate ognuna su una diversa scala di valori, tanto da non poter nemmeno più essere chiamate preoccupazioni ma semplici inconvenienti di poco valore. Mi sono chiesta se è questo che significa maturare, se è questo tipo di dolore intenso e immateriale che ti fa acquisire la saggezza basata sulla tolleranza di molte e molte cose che prima, giovane ingenuo che non ha ancora sofferto abbastanza, non avresti lasciato correre se non dopo averci rimuginato per ore.
A volte credo di aver bisogno di sapere se questo dolore dura per sempre. Davvero il tempo cura le ferite? Perché lui una volta l’aveva detto come la pensava “il tempo seppellisce, non cura niente”. Forse anche per questo il male era troppo pesante sulle sue spalle. La sua era una sensibilità che amplifica la sofferenza inflitta da ogni pensiero negativo, come spine sulla pelle, che bruciano e non smettono mai di ferirti. Per quanto io possa sforzarmi di immaginare, però, cosa sentisse davvero per compiere un gesto così estremo in realtà non posso saperlo. So solo quello che è successo dentro di me dopo, cioè che non sento più come prima. Il dolore e la perdita sono penetrati talmente sotto la mia pelle da diventare la normalità, le mie sensazioni si sono alterate. Faccio molte cose, ma non sono felice, come se fossero tutte di poco conto. Mi estraneo dalla realtà per non sentire, perché se sentissi anche solo per un istante che è tutto vero piangerei per cent’anni. Il mondo intorno a me è rimasto lo stesso, ma non posso permettermi di avere una sincera percezione di me nel contesto della mia vita perché crollerei. È necessario ovattare, nascondere per poter sopravvivere. Solo io e pochi altri possiamo capirci, tutti noi abbiamo uno squarcio sulla nostra anima. Una ferita ancora sanguinante.
Ogni giorno faccio tutto quello che devo fare, cerco di tenere il passo. Non voglio rischiare di svegliarmi un giorno dal torpore e scoprire che sono caduta ancora più in basso, che sono rimasta a fissare il vuoto troppo a lungo. Ma è difficile, non puoi concentrarti ed estraniarti allo stesso tempo, troppe cose mi parlano di lui, lo vedo in ogni cosa. Nell’insegna di un bar lungo la strada che percorro; nei vestiti e negli oggetti e che prima erano di un generico colore, uno come un altro, mentre ora sono del suo colore, che guarda caso è il colore del cielo; nelle espressioni che la gente dice, che io dico, come facevo sempre, ma che ora sono connesse a lui e non posso più pronunciarle senza un velo di tristezza nella voce. È persino in quel testo semicomico che devo tradurre per l’università, ma guarda caso parla di morte e a me non fa ridere neanche un po’, lo traduco trattenendo le lacrime e mi chiedo se mi verrà il magone anche domani quando lo correggeremo insieme a lezione. E in più lui è nella luna, lui è la luna, quella che vedio guardando lassù ogni notte, soprattutto perché ora lo faccio molto più spesso, come se ne sentissi il bisogno, come se la aspettassi ogni sera per salutarla. È la stessa luna di cui lui ha sempre cantato. “Se tu fossi alla fine della mia vita, se potessi avvicinarmi a te, riuscirei a buttare via tutto e correre da te. Anche se tendo la mia mano, anche se la tendo con tutte le mie forze, non riesco a raggiungerti. Mi sembrava di essermi avvicinato, perciò ti ho chiamata con il cuore che batteva forte, ma non c’è alcuna risposta. Credo che non riuscirò mai a raggiungerti.” (Selene 6.23) Forse anche a lui piaceva contemplarla quando era ancora quaggiù. E poi, lui è nelle canzoni che mi piaceva tanto ascoltare ma che ora non riesco più a sentire senza piangere. È nei testi che ha scritto, che sono vera poesia, sentimento che ti arriva fino alle ossa, nella sua voce potente e intensa. Lo so benissimo che lui faceva parte della mia quotidianità, ma non pensavo così tanto, così a fondo. Ora che non c’è più me ne accorgo in modo molto più intenso di prima, perché ha lasciato un enorme spazio vuoto, una voragine profonda. Ogni cosa che rimandava a lui ora rimanda al fatto che lui non c’è più. Mi chiedo se avrei dovuto amarlo di più, più apertamente, più istintivamente. Ma sono quasi certa che non sarebbe servito a nulla.
Non lo so come finirò. Se mai guarirò. La ferita è aperta e brucia ogni volta che penso a lui e lui è ancora in tutto ciò che mi circonda. Nel cielo, nella luna, nella musica, nella mia stanza, sui miei vestiti, nelle cose che dico. Ogni giorno più di prima. È durissima vivere. È sempre più un tirare avanti per arrivare alla fine. Quello che ho non basta, non riempie il vuoto e non solo, ho paura che un giorno questo vuoto si possa riempire. A dire il vero vorrei imparare a conviverci perché almeno mi rimarrebbe la memoria. Noi che ci siamo dentro lo sappiamo come ci si sente, ci sosteniamo a vicenda su questa nave che traballa in mezzo alla tempesta, senza nemmeno più aspettare che passi, come se volessimo che durasse per sempre. Lottiamo per istinto, perché davanti agli occhi degli altri è bene fingere che vada tutto bene, ma forse in realtà vorremmo solo lasciarci trascinare dalla corrente senza opporre resistenza, almeno finché non troviamo risposte alle nostre domande, almeno finché non riusciamo ad accettare la realtà. Ma la società non si può fermare, non guarda ai sentimenti, solo alla produttività. Forse però non è per gli altri che resistiamo, ma è per noi, per non azzerarci, per continuare ad essere qualcuno, per assicurarci di avere ancora un ruolo quaggiù, perché se ti lasci trascinare dalle onde rischi di non riuscire più a tornare a galla dopo, nemmeno se lo vuoi.
Lui non c’è più e per ora posso solo nasconderla questa ferita. Combatto senza sapere se è giusto o sbagliato, resisto per principio ormai, con la consapevolezza che, comunque vada, ogni giorno che finisce è un passo verso di lui. Ed è assurdo che sia proprio questo pensiero a farmi andare avanti a volte. Lapidario, glaciale, ma vero. È inutile negare che mi manca da morire. Il suo sorriso, la sua voce, avere tue notizie... mi mancano persino i tempi duri che ho affrontato e che grazie a lui potevo superare, mentre ora mi rompo come niente davanti alle difficoltà.
 
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Questa volta pubblico qualcosa di tristemente personale. Sono passati due mesi da quando l’ho scritta e nel frattempo sono cambiate molte cose, quindi dargli una forma finale e pubblicarla è un po’ come “archiviarla” e fare un passo avanti. Non inserirò riferimenti alla persona in questione perché non voglio si pensi che uso il suo nome per attirare l'attenzione. Sicuramente chi lo conosce non farà fatica a riconoscerlo. Lo dedico a tutti quelli che stanno passando o hanno passato una situazione simile.
  
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