Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-gi-oh! Arc-V
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Autore: Selena Leroy    01/05/2018    1 recensioni
Il progetto "Les Enfant Terrible" aveva uno scopo: dare alla luce una nuova generazione più consapevole, più capace e più ambiziosa della precedente. Non era rimasto molto, d'altronde, agli ultimi superstiti di un pianeta arso vivo dalla Peste, un nuovo morbo che infesta il pianeta uccidendo qualunque creatura esistente si trovi sul suo cammino.
Yuya Sakaki è una di queste speranze, cresciuta assieme al padre e alla medicina. Ha solo sedici anni, ma il suo quoziente intellettivo supera di gran lunga quello delle sue normali coetanee; con il suo amico di sempre, quel ragazzo di nome Yuto segretamente innamorato di lei, continua una battaglia che però sembra persa in partenza.
E la situazione, per lei, volgerà inaspettatamente verso il peggio; alla morte improvvisa del padre, le decisioni di un uomo mai visto né sentito e che risponde al nome di Leo Akaba, la porteranno via dal suo luogo natio, dai suoi affetti e dai suoi amici, e in quella solitudine imposta da estranei, nelle cui menti si cela un segreto dalle cupe ombre, tutto ciò che le rimane da fare è lottare, e continuare quella ricerca ora così preziosa. Se farlo o meno da sola, dipenderà solo da Reiji Akaba...
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Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akaba Reiji/ Declan Akaba, Yuto, Yuya Sakaki
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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Yuya Sakaki ebbe il peggior risveglio che il mondo le avesse mai concesso. E lei aveva vissuto le prime albe da orfana, quelle in cui Leo Akaba si abbassava al livello di un vampiro per comprovare la sua superiorità alla Peste. Non conosceva gli effetti devastanti dell’alcool, lei – non aveva bisogno di simili intrugli per rovinarsi una vita che aveva il provvidenziale privilegio di non necessitare alcun aiuto nel merito del male – ma non dubitò che quella morsa d’acciaio avvinta alle sue tempie e quella nausea che non le dava occasione di lasciare il letto su cui era stesa – un movimento brusco e il suo stomaco riceveva il la per un valzer scatenato – potesse facilmente rassomigliare alla famigerata sensazione post-sbronza che aveva adocchiato in un paio di romanzi indecenti che il padre aveva avuto il coraggio di offrirle – romanzi rosa per incoraggiare quel suo lato femminile ucciso dal camice, e che provocava la pena per le numerose protagoniste costrette ad aspettare il principe azzurro per essere salvate.
Ma forse, in fondo al suo cuore, un po’ doveva ammettere di avere le loro medesime colpe. Quella calda gratitudine che le illuminava il sorriso nello scorgere l’ombra di Yuto china su di lei, nasceva dalla irrazionale convinzione di essere in un luogo sicuro, tra braccia amiche che avevano disvelato un sentimento più profondo, che le avevano concesso di conoscere cosa ci fosse al di sopra dell’amicizia.
Yuya Sakaki era digiuna dell’amore, perché i romanzi erano terribilmente fuorvianti, e perché la più vicina manifestazione rintracciabile si era estinta all’età di quattro anni, quando sua madre gli aveva lasciati per volere di un affetto celeste. Parlando di Yuto, di colui che l’aveva sempre coccolata sotto il perenne cruccio inespressivo che lo rendevano così particolare, avrebbe descritto forse di un fratello, di un amico prezioso che la divina provvidenza aveva avuto la grazia di donarle, forse pentita di tutti i mali che le sarebbero piovuti addosso di lì a pochi anni.
Ma ieri sera non mi ha baciata come un fratello.
Arrossiva, lei, al ricordo delle labbra di lui premute sulle sue, gentili in carezze ardenti che le avevano accelerato i battiti del cuore fino a rendere il suo cuore stanco del suo lavoro. E le avrebbe gradite ancora, come ambrosia estatica giunta tra le sue mani dopo secoli di ombroso digiuno. Voleva avere ancora il sapore di Yuto sulle sue labbra, le sue mani congiunte alle sue, lo sguardo di vivo argento a desiderarla davvero, a trovarla bella, a chiamarla senza alcuna invocazione.
Volle bearsi nell’oro capitatole tra le mani senza preavviso, senza spiegazione alcuna sui perché lo vedevano in un luogo tanto alieno, gioire di colui che l’accoglieva sempre senza pretendere da lei null’altro se non un sorriso, una piega delle labbra che però evidenziasse la sua gioia, e la sua possibilità a continuare in un’ardita dichiarazione attesa per chissà quanto tempo.
Volle qualcuno che non la gelasse con l’indifferenza, che non si rendesse un enigma tanto indecifrabile, imprendibile nella sua eterna imprevedibilità.
Volle qualcuno che non doveva essere Reiji Akaba
 
Quanto aveva atteso l’arrivo di un simile giorno? Quanto aveva agognato quell’adorabile rossore, quegli occhi rivolti a lui con consapevolezza? Un’idiota, ecco cos’era, nei suoi dubbi e nella sua codardia. Dava solo molta rabbia, il pensiero dei mille momenti che non avevano condiviso, perché su piani ancora troppo lontani per scambiarsi semplici e complici effusioni. E non era bene volgere lo sguardo a tutte quelle sue mancate dichiarazioni, a quei dì dove la verità del suo cuore era ad un passo dal conoscere la sua vera voce e poi... semplicemente aveva lasciato correre l’attimo, permettendole di scappare nell’ignavia che avrebbe restituito giustizia ai suoi sentimenti silenti.
Era però prendersi in giro, chiamarsi irato con se stesso; Yuto, nel candore della sua più stellata felicità, non aveva alcun potere per sentire il negativo della vita. Tanto meno il pericolo nel quale ancora versavano.
“Va tutto bene?” lo bisbigliò nell’orecchio, donandole il piacevole tepore del suo respiro ad un passo dal suo lobo.
“In realtà non molto” ma rise, anche lei salva da ogni avversità, che fosse di natura mnestica o fisica “Ho come la sensazione di aver fatto un lavaggio a secco in lavatrice”
Yuto rise di gusto, mentre con la mano le sfiorava le ciocche smeraldine di una chioma sbarazzina, invadenti nel loro blando tentativo di nascondere il cremisi tanto amato.
“Non ti preoccupare. Adesso ci sono qui io”
Nessuno ti farà più del male. Era giunto sin lì, il moro, con l’ansia travestita da giudizioso pensiero e la paura come sua inseparabile amante. Li aveva visti congiungere le forze per minare la sua autostima, la fede custodita per le sue capacità, il coraggio per andare incontro ad una missione forse più grande di lui.
Forse per affrontare qualcuno più grande di lui.
“Qualcuno verrà da voi tra non molto per condurvi lontano da qui. Lasciala riposare e... lascia a me il tempo di risolvere una faccenduola”
Scoprire dell’esistenza di Zarc era stato l’equivalente di una scossa di magnitudo eccessiva, realistica nel demolire con risibile forza la torre su cui poggiavano tutte le sue certezze. E questo, più delle decisioni della sorte, più delle minacce che incombevano su di lui e su Yuya, lo aveva atterrito.
Ma ora, con quel bacio a suggellare il suo sogno di fanciullo, con quella gioia che sapeva condivisa, sentiva di avere ciò che serviva per uscirne vincitore.
E, per giunta, aveva l’appoggio di Zarc.
“Dormi, mia cara Yuya. Hai bisogno di riposo”
Ed era vero. Lui aveva consigliato di garantire un sonno quanto più duraturo possibile, perché quello che non doveva avvenire era invece accaduto. Un consiglio che aveva accolto con consapevolezza e dedizione, assieme al suo secondo ordine.
Lei non deve sapere di me.
 
Jean Michel Roger ambiva al denaro e puntava al potere per un guadagno ulteriore. Meschino e calcolatore, era stato un’abile stratega, un becchino del malaugurio e, a tempo perso, uno spregiudicato finanziere. Viveva nella parossistica convinzione degli utili, e stringeva strenuamente la sciocca idea di essere il maggior dignitario della più grande autorevolezza in quel mondo nel degrado.
Era stato tutto questo, Roger, ma Akaba non seppe mai dire se il vederlo così agonizzante, per terra, fosse davvero una cosa di cui gioire. Oltre le apparenze, era comunque l’uomo che aveva reso possibile l’ottenimento della sua più oscura verità, era colui che gli aveva indicato  una via quando Ray lo aveva abbandonato definitivamente...
Per lui, Zarc aveva scelto una fine ingloriosa e anonima, segnata da attimi di spasmodica sofferenza a cui aveva assistito in modo assente. Lo aveva lasciato avvicinare nel tempo sufficiente a squadrarlo con le sue iridi di aureo splendore, e quando lo aveva ritenuto più opportuno gli aveva ordinato di morire. No, non era un modo comico o semplicistico per rendere il fatalistico evento abbattutosi nel suo ufficio in quei miseri e stupidi secondi. Aveva pronunciato il suo desiderio con arroganza – e anche con un certo moto di stizza – e infine gli aveva rivolto le spalle quando lo aveva visto accasciarsi al suolo, non degnandolo più di uno sguardo nemmeno quando egli, disperato, aveva afferrato il lembo del suo pantalone – l’anonimo grigio che indossavano tutti i pazienti – per mimare la sua patetica richiesta di aiuto. Mimare, perché nel suo volere Zarc aveva semplicemente impedito ai polmoni dell’uomo di alimentarsi della loro essenza vitale, ed egli era spirato come se lo avessero seppellito vivo in una delle sue tombe.
Leo Akaba lo aveva fissato con allibito terrore. Sapeva di lui come di un paziente un tempo moribondo, salvato dalla dannazione per merito del sangue della ragazza. Era poco più di una cavia e poco meno di un uomo, i cui tratti volitivi erano stati avvolti dall’oblio nell’istante successivo trascorso fuori dalla stanza delle sperimentazioni.
Quella volta, aveva lasciato indietro un essere dal pallore cadaverico, privo di una muscolatura che desse alla pelle altro sostegno che non fossero le ossa, gli zigomi sporgenti e i capelli tanto candidi da sembrare incanutiti per il profondo dolore – cosa nemmeno tanto rara, nel loro sofferente mondo.
L’Eisuke che adesso aveva innanzi aveva invece un aspetto vigoroso, una muscolatura scolpita e ben messa in evidenza dall’aderente maglia nera che gli altri pazienti, al suo posto, rendevano pure troppo slabbrata su un fisico sempre più deperito, e ciò che aveva preso come un simbolo di vecchiaia e debolezza ora gli apparve nella fiera esemplarità di un caso eccezionale ma non raro, certamente sinonimo di una serie di necessità che non facevano testo ad un morbo insidioso. Lo sguardo sprezzante che gli rivolse si tinse delle cupe ombra della derisione soltanto per i frangenti in cui aveva deciso di concedergli la visione del suo viso. Poi, con fare colmo di alterigia, specchiò se stesso nella vetrata che faceva da sfondo all’unica parete dell’ufficio posta al pubblico dominio, vittima di un sole decisamente vivace che lavorava indefessamente anche quando gli umano evitavano il suo dominio.
“Immagino che tu sappia perché sono qui. D’altronde, sei stato tu a chiamarmi”
Leo Akaba gli sentì dire solo quelle parole, ma ogni dubbio venne a sciogliersi quando vide rigida furia nei palmi delle mani lasciati liberi di esplorare lo specchio del mondo in degrado. Vi si appoggio quasi stancamente, quasi volesse rimirare, con suo disgustoso gaudio, l’opera immonda portata avanti.
“E io che stavo per intraprendere un viaggio, al solo scopo di cercarti. Chi lo avrebbe mai detto che eri già qui, invece? Mi è concesso ringraziarti del disturbo o devo sentirmi intimorito dinanzi alla tua presenza?”
Zarc non diede segno di aver percepito la derisione del suo finale. Limitato ad una circospezione che lui stesso aveva scelto per se, obnubilava lo sguardo ad un altrove che sapeva individuare lui soltanto, un punto preciso dell’orizzonte che ricercava con l’occhio dorato a cristallizzare ogni dettaglio a lui utile.
“Non sono uno che da molto peso alle morti che causa, ma ho il dovere naturale di non accelerare nulla che non sia già scritto nel destino. E tu sei un grandissimo bastardo, perché ti sei premurato di assumere l’unico antidoto esistente in grado di uccidere la peste. Ogni incoraggiamento da parte dei morbi che infestano l’atmosfera terrestre è inutile”
Fu nell’attimo successivo a quell’affermazione che concluse una cerca di esito incerto e di dubbia utilità, accomodandosi con vaga soddisfazione sulla poltrona che accompagnava il regno dello scienziato – d’altronde l’unico oggetto utile a offrire comodità in un nulla amato proprio per la sua vacuità.
Per ciò che aveva da rappresentare, simile ammissione comportava moti di gioia da non dover nemmeno trattenere, gli eventuali sorrisi ad irritare chi aveva da ritenersi offeso della sua grossolana gioia e dunque ammirare soddisfatto gli effetti della sua astuzia. Nell’altro contesto, però, quello che lo volevano un razionale teorico con i piedi ben piantati al suolo, non mancò di notare che la forma data alle medesime parole frutto della sua gioia erano statiche, prive di ogni altro sentimento che non fosse la mera meccanicità di un atto locutorio, una stasi che non avrebbe nemmeno riservato ad un subordinato.
Zarc ammetteva la sua impotenza, dunque, ma non ne sembrava intimorito.
“Quindi alla fine non era errata l’intuizione della trasmissione aerea? Ammetto di aver deriso molti che lo affermavano”
Invero  nemmeno lui sapeva quale guadagno ricavare da stupide disquisizioni di bassa categoria. Zarc aveva almeno dalla sua l’effetto sorpresa, l’averlo colto in un frangente che nemmeno lo vedevano come bersaglio di un pensiero, dove nessuna arma era stata affilata e non uno scudo messo a guardia della sua persona. Il suo unico piedistallo erano quelle contromisure prese anzitempo, e a cui rivolse tutte le sue benedizioni. 
Perché Leo Akaba, se doveva aver fede in qualcosa, predicava soltanto la sua genialità. Nessuno Dio udì alcuna preghiera in merito alla liberazione di quello che era l’immagine demoniaca di una tentazione; e fu un male, quel suo perseverare nelle sue blande sicurezze, perché avrebbe avuto altrimenti modo di difendersi dal nemico che aveva cercato di distruggere.
Il male sotto forma di amore.
“Perché non la smettiamo di prenderci in giro?”
Lo aveva costruito Ray, quel fermacarte a forma di lillà, con pezzi di scarto da un suo personale laboratorio di carte e cartoni. Aveva avuto cinque anni, e quella armoniosa brillantezza era rimasta l’unica nota stonata di uno studio altrimenti rigido nella sua assenza di personalità, segnato dalla scrivania di vetro sul quale il peso maggiore era soltanto il gomito del ragazzo, mollemente appoggiato al palmo della sua mano con fare meditabondo.
“D’accordo” proruppe Leo “Ma cosa ci guadagno a dire che la persona che ha dato origine alla peste sei proprio tu?”
Ridendo – e questa volta le sue labbra erano davvero libere di esprimere un moto di ilarità sincera – Zarc fu preso dal desiderio di accomodarsi maggiormente su una spalliera di spugnosa morbidezza, dando prova di infantili desideri nel lasciarla girare sul suo stesso asse, come faceva sempre Reiji quando, a dodici anni, lo raggiungeva di soppiatto per chiedere chiarimenti in merito ad un difficile quesito.
“Ho detto che voglio smetterla di scherzare, Leo Akaba. Quindi non farlo. Non ti conviene”
Il fermacarte ancora prigioniero nelle sue mani, l’uomo continuo il suo nuovo gioco, lasciando al suo magnetico sguardo il compito di fulminarlo ad attimi sfuggenti.
“E infatti non lo sto facendo”
“Ah, no? Io direi il contrario” chiosò l’altro “Secondo il mio punto di vista, anche tu sei consapevole del fatto che io sono solo il proiettile che ha ucciso, ma che il grilletto lo ha premuto qualcun altro. E sai di chi parlo, visto che sua figlia ora è qui
Leo strinse i pugni, mentre un moto di rabbia investiva la sua persona soltanto nella residua immagine del suo vecchio amico. Di colui che invece doveva essere ricordato come il più grande traditore della storia. Di colui che aveva appena appreso la sua colpevolezza in atti che aveva solo ricostruito con la sua logica.
“Perdonami se non ne sapevo nulla di esoterismo, quindi era un mio personale parere che la colpa fosse di entrambi a pari merito. A pensarci bene” e lo aggiunse in un sogghigno “nemmeno quello che hai detto ora mi sta facendo cambiare idea”
Zarc, i piedi puntati al suolo per immobilizzare quell’irruento moto rotatorio, fece spallucce, le iridi di oro liquido segnate da un’indifferenza che feriva l’amor proprio.
“Perdonami se il tuo personale giudizio non condiziona minimamente il mio umore” affermò infatti “Di certo non sono qui perché voglio che tu mi creda innocente. In fondo, da un punto di vista oggettivo, non lo sono”
“E allora perché ti sei preso questo disturbo? Per umiliarmi in qualche modo?”
“Quasi”
Alzatosi dalla sedia, l’uomo si avvicinò alla porta che lo aveva precedentemente accolto, la vicinanza ottimale per chiamare il passo successivo quello necessario per attivare i sensori di movimento, e dunque smuoverne le pareti metalliche per rendere accessibile i corridoi del laboratorio.
“Vedi, non mi piace quando qualcuno bara al gioco che io progetto. Mie sono le regole, mia è la facoltà di escludere chi voglio dal campo. Tu, Leo Akaba, stai diventando fastidioso”
Fu difficile, per l’uomo, mantenere quell’autocontrollo necessario per non fiondarsi su di lui e strangolarlo con le sue stesse mani. Non aveva ragioni per dubitare della sua forza, e si chiamava invincibile per quella strategia che lo voleva invulnerabile al suo nefasto dono, ma fu il suo io scientifico a pretendere una calma non sua, una dignità che non uccidesse la ratio con atti degni di una bestia
“Quindi tu vorresti che io rimanga qui, immobile, ad osservare la popolazione tutta mentre muore miseramente?” urlò, misurando le parole nei denti stretti dalla rabbia.
“No. Il mio è un labirinto, di quelli dove trovare l’uscita è cosa ardua, ma non impossibile. Cercare la soluzione partendo dalla fine non è permesso, ed io sono qui per impedirti di farlo”
“Quindi sei venuto solo per mettermi sull’attenti, non è così?”
Il sorriso che si dipinse sul viso del ragazzo aveva solo  un utile aggettivo. Mefistofelico.
“Sono qui anche per prometterti che, se troverai questa soluzione, io ti donerò colei che per te significa tanto. Anzi, direi tutto, visto che la vendetta è l’unica cosa che ti muove”
A quelle parole, l’uomo sbiancò. Perché nella sua mente aveva fatto capolino un pensiero sbagliato, ma profondamente invitante. Il pensiero della tentazione.
“Esatto, Leo Akaba. Tu trova ciò che eliminerà la peste da questo mondo e io ti prometto che ridonerò la vita a chi ti sta tanto a cuore... Ray Akaba”
 
In quel frangente, nascosto nelle viscere di un nero voluto da luci mal posizionate in un corridoio comunque unidirezionale, Reiji Akaba ascoltò tutto ciò che ebbe il dono di vestirsi come rivelazione. Con pareti che non avevano il dono del silenzio, accolse tra le sue mani indizi mai sperati, e li strinse al petto consapevole di un dato importantissimo.
Aveva  un vantaggio, ora. Conosceva, sebbene non molto – e non peccava dell’ingenua convinzione di sapere tutto semplicemente chiedendo – i retroscena di una storia sanguinaria. E nessuno di coloro che l’avevano rivelata ne era consapevole.
 

 

 

   
 
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