- Yuya Sakaki
ebbe il peggior risveglio che il mondo
le avesse mai concesso. E lei aveva vissuto le prime albe da orfana,
quelle in
cui Leo Akaba si abbassava al livello di un vampiro per comprovare la
sua
superiorità alla Peste. Non conosceva gli effetti devastanti
dell’alcool, lei –
non aveva bisogno di simili intrugli per rovinarsi una vita che aveva
il
provvidenziale privilegio di non necessitare alcun aiuto nel merito del
male –
ma non dubitò che quella morsa d’acciaio avvinta
alle sue tempie e quella nausea
che non le dava occasione di lasciare il letto su cui era stesa
– un movimento
brusco e il suo stomaco riceveva il la per un valzer scatenato
– potesse
facilmente rassomigliare alla famigerata sensazione post-sbronza che
aveva
adocchiato in un paio di romanzi indecenti che il padre aveva avuto il
coraggio
di offrirle – romanzi rosa per incoraggiare quel suo lato
femminile ucciso dal
camice, e che provocava la pena per le numerose protagoniste costrette
ad
aspettare il principe azzurro per essere salvate.
- Ma
forse, in
fondo al suo cuore, un po’ doveva ammettere di avere le loro
medesime colpe.
Quella calda gratitudine che le illuminava il sorriso nello scorgere
l’ombra di
Yuto china su di lei, nasceva dalla irrazionale convinzione di essere
in un
luogo sicuro, tra braccia amiche che avevano disvelato un sentimento
più profondo,
che le avevano concesso di conoscere cosa ci fosse al di sopra
dell’amicizia.
- Yuya
Sakaki era
digiuna dell’amore, perché i romanzi erano
terribilmente fuorvianti, e perché
la più vicina manifestazione rintracciabile si era estinta
all’età di quattro
anni, quando sua madre gli aveva lasciati per volere di un affetto
celeste.
Parlando di Yuto, di colui che l’aveva sempre coccolata sotto
il perenne
cruccio inespressivo che lo rendevano così particolare,
avrebbe descritto forse
di un fratello, di un amico prezioso che la divina provvidenza aveva
avuto la
grazia di donarle, forse pentita di tutti i mali che le sarebbero
piovuti
addosso di lì a pochi anni.
- Ma
ieri sera non mi ha baciata come un fratello.
- Arrossiva,
lei,
al ricordo delle labbra di lui premute sulle sue, gentili in carezze
ardenti
che le avevano accelerato i battiti del cuore fino a rendere il suo
cuore
stanco del suo lavoro. E le avrebbe gradite ancora, come ambrosia
estatica
giunta tra le sue mani dopo secoli di ombroso digiuno. Voleva avere
ancora il
sapore di Yuto sulle sue labbra, le sue mani congiunte alle sue, lo
sguardo di
vivo argento a desiderarla davvero, a trovarla bella, a chiamarla senza
alcuna
invocazione.
- Volle
bearsi
nell’oro capitatole tra le mani senza preavviso, senza
spiegazione alcuna sui
perché lo vedevano in un luogo tanto alieno, gioire di colui
che l’accoglieva
sempre senza pretendere da lei null’altro se non un sorriso,
una piega delle
labbra che però evidenziasse la sua gioia, e la sua
possibilità a continuare in
un’ardita dichiarazione attesa per chissà quanto
tempo.
- Volle
qualcuno
che non la gelasse con l’indifferenza, che non si rendesse un
enigma tanto
indecifrabile, imprendibile nella sua eterna
imprevedibilità.
- Volle
qualcuno
che non doveva essere Reiji Akaba
- Quanto
aveva
atteso l’arrivo di un simile giorno? Quanto aveva agognato
quell’adorabile
rossore, quegli occhi rivolti a lui con
consapevolezza? Un’idiota, ecco cos’era,
nei suoi dubbi e nella sua
codardia. Dava solo molta rabbia, il pensiero dei mille momenti che non
avevano
condiviso, perché su piani ancora troppo lontani per
scambiarsi semplici e
complici effusioni. E non era bene volgere lo sguardo a tutte quelle
sue
mancate dichiarazioni, a quei dì dove la verità
del suo cuore era ad un passo
dal conoscere la sua vera voce e poi... semplicemente aveva lasciato
correre
l’attimo, permettendole di scappare nell’ignavia
che avrebbe restituito
giustizia ai suoi sentimenti silenti.
- Era
però
prendersi in giro, chiamarsi irato con se stesso; Yuto, nel candore
della sua
più stellata felicità, non aveva alcun potere per
sentire il negativo della
vita. Tanto meno il pericolo nel quale ancora versavano.
- “Va
tutto bene?”
lo bisbigliò nell’orecchio, donandole il piacevole
tepore del suo respiro ad un
passo dal suo lobo.
- “In
realtà non
molto” ma rise, anche lei salva da ogni avversità,
che fosse di natura mnestica
o fisica “Ho come la sensazione di aver fatto un lavaggio a
secco in lavatrice”
- Yuto
rise di
gusto, mentre con la mano le sfiorava le ciocche smeraldine di una
chioma
sbarazzina, invadenti nel loro blando tentativo di nascondere il
cremisi tanto
amato.
- “Non
ti
preoccupare. Adesso ci sono qui io”
- Nessuno
ti farà più del male.
Era giunto sin lì, il moro, con l’ansia travestita
da giudizioso pensiero e la
paura come sua inseparabile amante. Li aveva visti congiungere le forze
per
minare la sua autostima, la fede custodita per le sue
capacità, il coraggio per
andare incontro ad una missione forse più grande di lui.
- Forse
per
affrontare qualcuno più grande di lui.
- “Qualcuno
verrà da voi tra non molto per condurvi lontano da qui.
Lasciala riposare e...
lascia a me il tempo di risolvere una faccenduola”
- Scoprire
dell’esistenza di Zarc era stato l’equivalente di
una scossa di magnitudo
eccessiva, realistica nel demolire con risibile forza la torre su cui
poggiavano tutte le sue certezze. E questo, più delle
decisioni della sorte,
più delle minacce che incombevano su di lui e su Yuya, lo
aveva atterrito.
- Ma
ora, con quel
bacio a suggellare il suo sogno di fanciullo, con quella gioia che
sapeva
condivisa, sentiva di avere ciò che serviva per uscirne
vincitore.
- E,
per giunta,
aveva l’appoggio di Zarc.
- “Dormi,
mia cara
Yuya. Hai bisogno di riposo”
- Ed
era vero. Lui
aveva consigliato di garantire un sonno quanto più duraturo
possibile, perché
quello che non doveva avvenire era invece accaduto. Un consiglio che
aveva
accolto con consapevolezza e dedizione, assieme al suo secondo ordine.
- Lei non
deve sapere di me.
- Jean
Michel Roger
ambiva al denaro e puntava al potere per un guadagno ulteriore.
Meschino e
calcolatore, era stato un’abile stratega, un becchino del
malaugurio e, a tempo
perso, uno spregiudicato finanziere. Viveva nella parossistica
convinzione
degli utili, e stringeva strenuamente la sciocca idea di essere il
maggior dignitario
della più grande autorevolezza in quel mondo nel degrado.
- Era
stato tutto
questo, Roger, ma Akaba non seppe mai dire se il vederlo
così agonizzante, per
terra, fosse davvero una cosa di cui gioire. Oltre le apparenze, era
comunque
l’uomo che aveva reso possibile l’ottenimento della
sua più oscura verità, era
colui che gli aveva indicato una
via
quando Ray lo aveva abbandonato definitivamente...
- Per
lui, Zarc
aveva scelto una fine ingloriosa e anonima, segnata da attimi di
spasmodica
sofferenza a cui aveva assistito in modo assente. Lo aveva lasciato
avvicinare
nel tempo sufficiente a squadrarlo con le sue iridi di aureo splendore,
e
quando lo aveva ritenuto più opportuno gli aveva ordinato di
morire. No, non
era un modo comico o semplicistico per rendere il fatalistico evento
abbattutosi nel suo ufficio in quei miseri e stupidi secondi. Aveva
pronunciato
il suo desiderio con arroganza – e anche con un certo moto di
stizza – e infine
gli aveva rivolto le spalle quando lo aveva visto accasciarsi al suolo,
non
degnandolo più di uno sguardo nemmeno quando egli,
disperato, aveva afferrato
il lembo del suo pantalone – l’anonimo grigio che
indossavano tutti i pazienti
– per mimare la sua patetica richiesta di aiuto. Mimare,
perché nel suo volere
Zarc aveva semplicemente impedito ai polmoni dell’uomo di
alimentarsi della
loro essenza vitale, ed egli era spirato come se lo avessero seppellito
vivo in
una delle sue tombe.
- Leo
Akaba lo
aveva fissato con allibito terrore. Sapeva di lui come di un paziente
un tempo
moribondo, salvato dalla dannazione per merito del sangue della
ragazza. Era
poco più di una cavia e poco meno di un uomo, i cui tratti
volitivi erano stati
avvolti dall’oblio nell’istante successivo
trascorso fuori dalla stanza delle
sperimentazioni.
- Quella
volta,
aveva lasciato indietro un essere dal pallore cadaverico, privo di una
muscolatura che desse alla pelle altro sostegno che non fossero le
ossa, gli
zigomi sporgenti e i capelli tanto candidi da sembrare incanutiti per
il
profondo dolore – cosa nemmeno tanto rara, nel loro
sofferente mondo.
- L’Eisuke
che
adesso aveva innanzi aveva invece un aspetto vigoroso, una muscolatura
scolpita
e ben messa in evidenza dall’aderente maglia nera che gli
altri pazienti, al
suo posto, rendevano pure troppo slabbrata su un fisico sempre
più deperito, e
ciò che aveva preso come un simbolo di vecchiaia e debolezza
ora gli apparve
nella fiera esemplarità di un caso eccezionale ma non raro,
certamente sinonimo
di una serie di necessità che non facevano testo ad un morbo
insidioso. Lo
sguardo sprezzante che gli rivolse si tinse delle cupe ombra della
derisione
soltanto per i frangenti in cui aveva deciso di concedergli la visione
del suo
viso. Poi, con fare colmo di alterigia, specchiò se stesso
nella vetrata che
faceva da sfondo all’unica parete dell’ufficio
posta al pubblico dominio,
vittima di un sole decisamente vivace che lavorava indefessamente anche
quando
gli umano evitavano il suo dominio.
- “Immagino
che tu
sappia perché sono qui. D’altronde, sei stato tu a
chiamarmi”
- Leo
Akaba gli
sentì dire solo quelle parole, ma ogni dubbio venne a
sciogliersi quando vide
rigida furia nei palmi delle mani lasciati liberi di esplorare lo
specchio del
mondo in degrado. Vi si appoggio quasi stancamente, quasi volesse
rimirare, con
suo disgustoso gaudio, l’opera immonda portata avanti.
- “E
io che stavo
per intraprendere un viaggio, al solo scopo di cercarti. Chi lo avrebbe
mai
detto che eri già qui, invece? Mi è concesso
ringraziarti del disturbo o devo
sentirmi intimorito dinanzi alla tua presenza?”
Zarc non diede segno di aver percepito la derisione del suo finale. Limitato ad una circospezione che lui stesso aveva scelto per se, obnubilava lo sguardo ad un altrove che sapeva individuare lui soltanto, un punto preciso dell’orizzonte che ricercava con l’occhio dorato a cristallizzare ogni dettaglio a lui utile. - “Non
sono uno che
da molto peso alle morti che causa, ma ho il dovere naturale di non
accelerare
nulla che non sia già scritto nel destino. E tu sei un
grandissimo bastardo,
perché ti sei premurato di assumere l’unico
antidoto esistente in grado di
uccidere la peste. Ogni incoraggiamento da parte dei morbi che
infestano
l’atmosfera terrestre è inutile”
Fu nell’attimo successivo a quell’affermazione che concluse una cerca di esito incerto e di dubbia utilità, accomodandosi con vaga soddisfazione sulla poltrona che accompagnava il regno dello scienziato – d’altronde l’unico oggetto utile a offrire comodità in un nulla amato proprio per la sua vacuità. - Per
ciò che aveva
da rappresentare, simile ammissione comportava moti di gioia da non
dover
nemmeno trattenere, gli eventuali sorrisi ad irritare chi aveva da
ritenersi
offeso della sua grossolana gioia e dunque ammirare soddisfatto gli
effetti
della sua astuzia. Nell’altro contesto, però,
quello che lo volevano un
razionale teorico con i piedi ben piantati al suolo, non
mancò di notare che la
forma data alle medesime parole frutto della sua gioia erano statiche,
prive di
ogni altro sentimento che non fosse la mera meccanicità di
un atto locutorio, una
stasi che non avrebbe nemmeno riservato ad un subordinato.
- Zarc
ammetteva la
sua impotenza, dunque, ma non ne sembrava intimorito.
- “Quindi
alla fine
non era errata l’intuizione della trasmissione aerea? Ammetto
di aver deriso
molti che lo affermavano”
Invero nemmeno lui sapeva quale guadagno ricavare da stupide disquisizioni di bassa categoria. Zarc aveva almeno dalla sua l’effetto sorpresa, l’averlo colto in un frangente che nemmeno lo vedevano come bersaglio di un pensiero, dove nessuna arma era stata affilata e non uno scudo messo a guardia della sua persona. Il suo unico piedistallo erano quelle contromisure prese anzitempo, e a cui rivolse tutte le sue benedizioni. - Perché
Leo Akaba,
se doveva aver fede in qualcosa, predicava soltanto la sua
genialità. Nessuno
Dio udì alcuna preghiera in merito alla liberazione di
quello che era
l’immagine demoniaca di una tentazione; e fu un male, quel
suo perseverare
nelle sue blande sicurezze, perché avrebbe avuto altrimenti
modo di difendersi
dal nemico che aveva cercato di distruggere.
- Il
male sotto
forma di amore.
- “Perché
non la
smettiamo di prenderci in giro?”
- Lo
aveva
costruito Ray, quel fermacarte a forma di lillà, con pezzi
di scarto da un suo
personale laboratorio di carte e cartoni. Aveva avuto cinque anni, e
quella
armoniosa brillantezza era rimasta l’unica nota stonata di
uno studio
altrimenti rigido nella sua assenza di personalità, segnato
dalla scrivania di
vetro sul quale il peso maggiore era soltanto il gomito del ragazzo,
mollemente
appoggiato al palmo della sua mano con fare meditabondo.
- “D’accordo”
proruppe Leo “Ma cosa ci guadagno a dire che la persona che
ha dato origine
alla peste sei proprio tu?”
- Ridendo
– e
questa volta le sue labbra erano davvero libere di esprimere un moto di
ilarità
sincera – Zarc fu preso dal desiderio di accomodarsi
maggiormente su una
spalliera di spugnosa morbidezza, dando prova di infantili desideri nel
lasciarla girare sul suo stesso asse, come faceva sempre Reiji quando,
a dodici
anni, lo raggiungeva di soppiatto per chiedere chiarimenti in merito ad
un
difficile quesito.
- “Ho
detto che
voglio smetterla di scherzare, Leo Akaba. Quindi non farlo. Non ti
conviene”
- Il
fermacarte
ancora prigioniero nelle sue mani, l’uomo continuo il suo
nuovo gioco,
lasciando al suo magnetico sguardo il compito di fulminarlo ad attimi
sfuggenti.
- “E
infatti non lo
sto facendo”
- “Ah,
no? Io direi
il contrario” chiosò l’altro
“Secondo il mio punto di vista, anche tu sei
consapevole del fatto che io sono solo il proiettile che ha ucciso, ma
che il
grilletto lo ha premuto qualcun altro. E sai di chi parlo, visto che sua figlia ora è qui”
- Leo
strinse i
pugni, mentre un moto di rabbia investiva la sua persona soltanto nella
residua
immagine del suo vecchio amico. Di colui che invece doveva essere
ricordato
come il più grande traditore della storia. Di colui che
aveva appena appreso la
sua colpevolezza in atti che aveva solo ricostruito con la sua logica.
- “Perdonami
se non
ne sapevo nulla di esoterismo, quindi era un mio personale parere che
la colpa
fosse di entrambi a pari merito. A pensarci bene” e lo
aggiunse in un sogghigno
“nemmeno quello che hai detto ora mi sta facendo cambiare
idea”
Zarc, i piedi puntati al suolo per immobilizzare quell’irruento moto rotatorio, fece spallucce, le iridi di oro liquido segnate da un’indifferenza che feriva l’amor proprio. - “Perdonami
se il
tuo personale giudizio non condiziona minimamente il mio
umore” affermò infatti
“Di certo non sono qui perché voglio che tu mi
creda innocente. In fondo, da un
punto di vista oggettivo, non lo sono”
- “E
allora perché
ti sei preso questo disturbo? Per umiliarmi in qualche modo?”
- “Quasi”
- Alzatosi
dalla
sedia, l’uomo si avvicinò alla porta che lo aveva
precedentemente accolto, la
vicinanza ottimale per chiamare il passo successivo quello necessario
per
attivare i sensori di movimento, e dunque smuoverne le pareti
metalliche per
rendere accessibile i corridoi del laboratorio.
- “Vedi,
non mi
piace quando qualcuno bara al gioco che io progetto. Mie sono le
regole, mia è
la facoltà di escludere chi voglio dal campo. Tu, Leo Akaba,
stai diventando
fastidioso”
- Fu
difficile, per
l’uomo, mantenere quell’autocontrollo necessario
per non fiondarsi su di lui e
strangolarlo con le sue stesse mani. Non aveva ragioni per dubitare
della sua
forza, e si chiamava invincibile per quella strategia che lo voleva
invulnerabile
al suo nefasto dono, ma fu il suo io scientifico a pretendere una calma
non
sua, una dignità che non uccidesse la ratio
con atti degni di una bestia
- “Quindi
tu
vorresti che io rimanga qui, immobile, ad osservare la popolazione
tutta mentre
muore miseramente?” urlò, misurando le parole nei
denti stretti dalla rabbia.
- “No.
Il mio è un
labirinto, di quelli dove trovare l’uscita è cosa
ardua, ma non impossibile.
Cercare la soluzione partendo dalla fine non è permesso, ed
io sono qui per
impedirti di farlo”
- “Quindi
sei
venuto solo per mettermi sull’attenti, non è
così?”
- Il
sorriso che si
dipinse sul viso del ragazzo aveva solo
un utile aggettivo. Mefistofelico.
- “Sono
qui anche
per prometterti che, se troverai questa soluzione, io ti
donerò colei che per
te significa tanto. Anzi, direi tutto, visto che la vendetta
è l’unica cosa che
ti muove”
- A
quelle parole,
l’uomo sbiancò. Perché nella sua mente
aveva fatto capolino un pensiero
sbagliato, ma profondamente invitante. Il pensiero della tentazione.
- “Esatto,
Leo
Akaba. Tu trova ciò che eliminerà la peste da
questo mondo e io ti prometto che
ridonerò la vita a chi ti sta tanto a cuore... Ray
Akaba”
- In
quel
frangente, nascosto nelle viscere di un nero voluto da luci mal
posizionate in
un corridoio comunque unidirezionale, Reiji Akaba ascoltò
tutto ciò che ebbe il
dono di vestirsi come rivelazione. Con pareti che non avevano il dono
del
silenzio, accolse tra le sue mani indizi mai sperati, e li strinse al
petto
consapevole di un dato importantissimo.
- Aveva un vantaggio, ora.
Conosceva, sebbene non
molto – e non peccava dell’ingenua convinzione di
sapere tutto semplicemente
chiedendo – i retroscena di una storia sanguinaria. E nessuno
di coloro che
l’avevano rivelata ne era consapevole.