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Autore: Kiki S    01/05/2018    1 recensioni
“Il suo piccolo angelo avrebbe aiutato dei bambini sfortunati. Oramai Cecilia aveva perso il conto di quante volte avesse detto e pensato quelle parole. Il suo piccolo angelo.”
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Quante volte ci si pone al centro del mondo, senza nemmeno rendersene conto? Quante volte si crede che, se qualcosa avviene, è perché qualcuno dall'alto si è dimenticato o ricordato di noi?
Quante volte, ciò che è importante per noi, ci sembra l'unica cosa che conti?
Lo pensano quelle madri, e lo pensa quel ragazzo: loro che si sono sentiti abbandonati ingiustamente, ma che ora possono tornare a sperare nel futuro. E possono tornare a credere.
C'è qualcun altro, però, che stringendo quella fotografia riesce improvvisamente a vedere. E a capire che un perché, alle volte, non esiste.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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IL VOLTO DELL’ANGELO

 

Hannover – h 06.45 – IL NUOVO CUORE

 

Il telefono aveva squillato alle prime luci dell’alba e, quando riattaccò, il primo pensiero di Anita fu Dio esiste.

Era l’ospedale.

Aveva quasi creduto di sognare, invece era tutto vero: un cuore. Era stato trovato un cuore compatibile per Peter. Il trapianto sarebbe stato eseguito quella mattina stessa.

Dio esiste, aveva esclamato mentalmente, ed era certa che non potesse essere altrimenti, perché quel che stava accadendo non era altro che un miracolo.

Peter aveva solo dieci anni, era così ingiusto che dovesse morire ancora bambino per via di quel difetto congenito. No, non sarebbe stato giusto.

Ma d’altra parte, si sa, le cose peggiori accadono sempre agli innocenti, e Peter era senza dubbio uno di essi.

Peter era un bel bambino: alto, biondo e con gli occhi azzurri, ma era anche gentile e buono con tutti. E poi, era bravo a sopportare la sua situazione. Non piangeva mai, né si lamentava, ma Anita aveva notato come ogni tanto il suo bambino guardasse fuori dalla finestra della sua stanza, come agognando il mondo esterno, la vita.

Peter viveva in ospedale da sei mesi e Anita era sempre più in collera con l’Altissimo, che prima le aveva tolto il marito, e ora le infliggeva la beffa della minaccia di strapparle anche il suo unico, adorato figlio.

Sarebbe stato troppo, anche perché il motivo sarebbe stato sempre lo stesso: un cuore malato.

Hans aveva avuto un infarto due anni prima, a soli quarant’anni.

Un’altra perdita sarebbe stata insopportabile per Anita, che si era sforzata di superare il dolore per Peter. Ma dopo quei sei lunghi mesi d’angoscia per la sua malattia, anche il cuore di Anita si era fatto debole. Estremamente debole.

Aveva perso la fede, ma l’aveva ritrovata quella mattina all’alba.

Non avrebbe più visto Peter adagiato su quel letto come un secondo cuscino, circondato da cavi e tubi quasi questi fossero degli agghiaccianti angeli custodi. O almeno, non per molto ancora, e finalmente avrebbe avuto una nuova speranza nel cuore.

Sarebbero stati duri i primi tempi dopo il trapianto, non si faceva illusioni, ma avrebbe pregato e sarebbe stata vicina al suo bambino, e tutto si sarebbe sistemato. Ci credeva.

Era bello pensarlo.

Non sarebbero mai più stati una famiglia completa, perché Hans non c’era più, ma lei e Peter avrebbero guardato avanti, mano nella mano.

Era una bella giornata fuori. Era nato un nuovo sole e, quando il giorno fosse giunto al centro della sua vita, avrebbe fatto caldo così come prevede il bel mese di maggio.

Ogni cosa ora era al suo posto perfetto, o almeno, lo era quasi tutto.

Anita aveva pensato solo di sfuggita al bimbo che aveva donato a Peter il suo cuore, non sapeva nemmeno come si chiamasse, né quanti anni avesse, ma a dire il vero non le importava più di tanto. Gli era grata, questo sì, e quando fosse stata sicura dell’esito positivo dell’operazione di Peter gli avrebbe dedicato di certo una preghiera, affinché il Signore l’avesse in gloria per sempre.

Perché Dio esisteva davvero: aveva salvato il suo piccolo angelo, e questo era abbastanza per crederci.

Anita raggiunse l’ospedale trafelata verso le sei di quel promettente mattino di maggio. L’equipe di specialisti stava già preparando Peter che, appena la vide, spaventato tese la mano verso la madre.

-Mamma, ho paura- affermò il bimbo sull’orlo delle lacrime.

Ad Anita si strinse il cuore. Le sembrava che Peter fosse tornato ad avere non più di quattro anni.

Era così… piccolo. E indifeso.

Peter era nelle mani di un destino per lui troppo grande, che non riusciva a capire.

Gli strinse forte la mano.

-Non devi, tesoro- lo tranquillizzò -Tra poco avrai un cuore nuovo, che batte bene, e starai bene anche tu- concluse quasi annaspando, per via del tremendo nodo che le attanagliava la gola.

Peter però non sembrò trarre giovamento dalle parole della madre e, infatti, proruppe in singhiozzi.

Nella mente di Anita divenne ancora più piccolo: due anni appena.

-E perché non l’ha avuto anche papà, un cuore nuovo?- chiese Peter tra le lacrime.

A quelle parole, il cuore di Anita di fermò. Il suo cuore sano. Già, perché anche Hans non aveva potuto salvarsi? Ma quella domanda interiore fu subito spazzata via da una dolce considerazione: quant’era speciale il suo bambino! Anche in quel momento per lui così difficile, il suo pensiero volgeva a qualcun altro, a una sorte che non era la sua. Fino a quel momento le era sembrato divenire più piccolo, ma poi pensò che la sua testa era già quasi quella di un adulto.

Il suo Peter. Il suo angelo.

Forse, se Dio aveva voluto salvarlo, doveva avere in serbo qualcosa per lui, una vita da vivere fino in fondo.

-Papà è morto all’improvviso, nessuno sapeva che aveva il cuore malato, così non è stato possibile trovarlo- gli rispose infine. Ed era la verità. La verità fa sempre bene ai bambini, anche quando è dura da accettare.

Peter infatti parve calmarsi un poco.

Si asciugò gli occhi con le mani bianche e esili.

-Il mio cuore nuovo non si romperà come quello vecchio, mamma?- riprese più controllato. Era una domanda penosa, sicuramente Peter aveva paura, eppure non piangeva più. Non era sereno, ma serio e interessato.

Anita, vedendo che la verità era stata in grado di lenire l’ansia di suo figlio, decise di non mentirgli neanche in questo caso, anche se era ancora più gravoso del precedente.

-Può essere che il tuo corpo lo rigetti, all’inizio, perché non va bene per lui come sembra. Ma se questo non succede, il tuo cuore nuovo non si romperà, perché è sano- e, dicendo ciò, gli strinse più forte la mano.

-Ci sarà papà durante l’operazione, per farla andare bene?- riprese dunque il bambino. Ad Anita scappò un sorriso malinconico. L’immagine di Hans accanto a Peter in sala operatoria le scaldò il cuore.

-Certo che ci sarà papà con te. E ci saranno anche gli angeli-.

Dopo queste parole, Anita baciò Peter sulla fronte, poi lo portarono verso la sala operatoria.

Lei lo seguì fino a che non le fu intimato di fermarsi, quindi raggiunse la sala d’attesa.

Il suo bambino si sarebbe salvato, il suo bambino aveva una nuova possibilità. Non voleva pensare alle possibile conseguenze negative, era certa che tutto sarebbe andato per il meglio.

Ormai allo stremo delle forze si lasciò cadere su una sedia. Aveva la fronte sudata e il cuore a mille.

Era bello pensare che presto Peter avrebbe avuto un cuore come il suo, sano e forte.

Solo un pensiero, leggero e di sottofondo come il fischio di un treno in lontananza, le attraversò la mente stanca per l’emozione.

Grazie, Dio.

 

Monaco di Baviera – h 12.45 – APNEA

 

L’avevano avvisato in tempo, quarantacinque minuti prima.

Stava quasi per mettersi a tavola con la sua famiglia, quando gli avevano comunicato che i polmoni erano stati trovati.

Era stato splendido digiunare quel giorno, i crampi allo stomaco non erano certo la cosa peggiore che avesse sperimentato da tanti anni a quella parte.

Ne aveva cinque quando gli avevano diagnosticato la fibrosi cistica e, da quel momento in poi, era stata una lotta continua e snervante contro l’apnea, il suo nemico invisibile.

Quand’era ancora bambino, Nikolaus aveva paura ad andare a letto da solo, perché, nella sua concezione infantile, l’aria gli mancava per via della mano di un mostro che gli serrava la gola.

Aveva avuto ogni sera il terrore che il mostro arrivasse per farlo smettere di respirare.

Poi, crescendo, aveva iniziato a vederci chiaro.

Oramai aveva quindici anni e, con i nuovi polmoni che lo attendevano, presto il futuro gli si sarebbe srotolato davanti. Come un tappeto rosso per un ospite speciale.

E Nikolaus, dopo quella telefonata di mezzogiorno, un po’ speciale si sentiva. Lui aveva atteso quel momento per dieci anni, ed era un tempo interminabile, ma per molti altri bambini e ragazzi nelle sue condizioni, il momento non arrivava mai.

E c’era un solo epilogo per quella rappresentazione teatrale, se non avveniva il colpo di scena: il protagonista soccombeva, e infine calava il sipario.

Anche se era un’altra l’ipotesi peggiore: l’idea di morire era pietrificante, ma quella di dover finire attaccato a un respiratore per il resto dei suoi giorni era semplicemente atroce.

Non l’aveva mai preso seriamente in considerazione, tanto il pensiero lo atterriva.

E sapeva che sua madre, nel caso di un’insufficienza respiratoria, l’avrebbe fatto attaccare al macchinario.

Nikolaus aveva provato a farla ragionare in proposito, e a farla desistere, ma non c’era stato verso.

No, lei non avrebbe mai lasciato morire il suo bambino, non senza aver lottato fino in fondo.

Nikolaus si chiedeva se anche lui, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso nei confronti di una persona che amava, pur di trattenerla accanto a sé.

Non aveva saputo rispondersi.

Gli era capitato qualche volta (quattro, lo ricordava con esattezza) di essersi ritrovato con un tubo in gola per via di crisi violente, ma poi era sempre stato liberato da quella morsa dopo poche ore, un giorno al massimo.

Ma non erano state esperienze piacevoli.

E l’idea di morire così non era affatto allettante.

Ma non lo era neanche quella di morire soffocato a causa dei suoi stessi polmoni, che avevano deciso che no, non c’era bisogno di essere sani.

Nikolaus sognava una morte eroica, da protagonista di un’avventura o di una storia travolgente. Come quelle dei libri: cavalieri, uomini di valore, idealisti e paladini della giustizia. Loro erano i suoi eroi.

Se doveva morire giovane, per lo meno avrebbe preferito che ne valesse la pena.

Sarebbe stato un po’ triste, e anche imbarazzante, avvalersi di un’uscita di scena così avvilente.

Il protagonista non ci lasciava mai le penne per fibrosi cistica. Quello (o uno simile) poteva essere al massimo il ruolo ricoperto dallo sfigato di turno, il poveraccio della vicenda. Quello che forse fa pena, ma che di certo non suscita ammirazione.

Nikolaus si era quasi abituato a ricoprire quel ruolo. Non era certo la parte che prediligeva per sé, ma c’era stato ben poco da scegliere, dato che, per lui, l’aveva già fatto il destino.

Quel destino che, chissà con che criterio, eleggeva i suoi eroi senza preoccuparsi degli altri personaggi della storia.

Ma da quel giorno, Nikolaus si stava sentendo tramutare nel protagonista: perché è l’eroe quello che si salva sempre all’ultimo, quando si crede che ormai non resti niente da fare. Un miracolo, una casualità, un segno del fato, comunque lo si volesse chiamare, il risultato era il medesimo. L’eroe si salvava, ed era subito pronto a intraprendere nuove avventure. L’eroe non aveva mai tempo da perdere.

E Nikolaus si domandava che cosa avrebbe fatto di quel tempo che inaspettatamente gli veniva concesso.

La vita lo aspettava dopo l’intervento, e lui non aveva intenzione di sprecarla, aveva perso già troppo tempo.

L’infanzia andata in fumo non si poteva recuperare, ma partire da lì, quasi quello fosse l’inizio, quello sì, era davvero possibile.

L’emozione era talmente vasta che gli toglieva il fiato.

Apnea. Un’altra volta. Ma in questo caso era diversa, era quasi liberatoria. Perché vedere tanto lontano, improvvisamente, scorgere l’orizzonte e rendersi conto che oltre c’è dell’altro, era una sensazione indescrivibile, quasi spaventosa nella sua grandiosità.

Fino ad allora, Nikolaus aveva sempre visto chiaramente il traguardo, con la parola FINE scritta al centro a lettere cubitali. Ogni anno si faceva sempre più vicino e oltre c’era solo la sua stessa fossa.

Ma ora il mondo si stagliava infinito di fronte a lui, e con esso il futuro. Non si sarebbe mai più accontentato di trascorrere i suoi pomeriggi rinchiuso in camera, a leggere di eroi che non avrebbe mai eguagliato.

Voleva uscire dalla scatola ed essere uno di loro.

Anche in un scatola, dopo un po’, si soffoca.

E non doveva più esistere apnea per lui. Mai più.

Voleva respirare a fondo e godersi la vista di ciò che ai suoi occhi, fino ad allora, era rimasto celato.

Avrebbe viaggiato sicuramente, quando fosse finita la scuola. Nel frattempo si sarebbe dedicato a qualche passatempo eccitante, magari a uno sport estremo, come l’alpinismo.

L’idea di scalare, di correre verso l’alto per raggiungere una meta ambita e difficile gli regalava un senso di euforia. E di stupore, anche. Se ne stupiva perché non ci aveva mai pensato prima, lui che aveva trascorso la sua vita incollato ai libri. Ma nella carta stampata l’azione appartiene soltanto agli altri e, ora che Nikolaus aveva un valido motivo per sentirsi speciale, non voleva più che fosse così.

Quando giunse l’ora per l’intervento, Nikolaus trattenne il respiro.

Ancora apnea. L’ultima della sua vita, si disse. L’ultima di quella vita. Perché da allora in avanti, ce ne sarebbe stata un’altra ad attenderlo.

Una vita nuova, che aveva intenzione di assaporare con tutte le sue forze.

Perché di forze ne avrebbe avute in quella nuova vita.

Grazie, Dio. Pensò appena prima di addormentarsi in sala operatoria.

Tratteneva ancora il fiato. Per l’ultima volta.

 

Amburgo – h 18.45 – GIALLO PALLIDO

 

Una cosa simile non sarebbe dovuta capitare a nessuno ma, a una bambina come Sophia, meno ancora.

Una creatura allegra, dolce, generosa, spensierata e piena di vita.

Ci sono tanti bambini viziati, egoisti e cattivi al mondo, pensava sempre Greta, se proprio doveva capitare a qualcuno (anche se lei, di certo, non lo augurava), allora che succedesse a loro, piuttosto che a sua figlia.

Lei, più di chiunque altro, non lo meritava.

Sophia: con i suoi vestiti sempre colorati (era lei stessa a sceglierli), con il suo sorriso smagliante.

Mai e poi mai, con lei, si sarebbe potuta concepire la vita in bianco e nero. Tutto era a colori sgargianti.

Finché la monocromia non aveva preso il sopravvento, e tutto si era fatto giallo.

Sophia soffriva di una grave forma di epatite, e per Greta era stato un duro colpo.

La sua bambina era malata.

La sua.

D’improvviso, la vita di Sophia era stata delimitata da quelle orrende pareti d’ospedale e, in un attimo, i colori erano spariti.

Il cielo ormai era bianco, il viso di Sophia giallo e la sua anima giocosa si era fatta grigia.

Sophia non giocava più, non rideva più, non indossava nemmeno più i suoi vestiti colorati.

Oramai indossava soltanto le camicie da notte dell'ospedale, tutte colorate di giallo pallido, come se fossero dei capi stinti.

E si era stinta anche lei, Sophia, la bambina sempre allegra. Perché Sophia era insofferente alla permanenza in ospedale, detestava essere chiusa tra quattro mura.

Sophia aveva bisogno d’aria e di raccogliere i frutti della sua giovane vita. Non spettava forse a ogni bambino? Perché Sophia era stata privata di quella gioia?

Perché Sophia piangeva, quando ai suoi coetanei era concesso di ridere? Greta si era posta ininterrottamente queste domande durante i primi mesi, dopodiché era arrivato il colpo di scure. Quello che non lascia scampo, e sgretola tutto.

Le avevano detto che Sophia, senza un trapianto, non sarebbe sopravvissuta.

Si era sentita andare a fondo, come se avesse al collo un masso e si trovasse al largo. Aveva lottato strenuamente per restare a galla, ma era stata trascinata sempre più giù, verso la profondità, e i suoi polmoni avevano bisogno d’aria.

Sophia, a sei anni, rischiava di andarsene per una malattia al fegato. Era terribile, ma non solo: era inconcepibile. La sensazione che la invase fu forse la più scontata, ma fu assolutamente chiara: Dio le aveva abbandonate. E la convinzione si intensificò quando scoprì di non poter donare parte del suo fegato a sua figlia, per via di una stupida incompatibilità.

Il loro gruppo sanguigno era lo stesso, eppure erano incompatibili, quello era il colmo.

E non esisteva un padre che potesse sperare di fare altrettanto, perché Sophia non lo aveva.

Non lo aveva nemmeno mai conosciuto, e Greta pensava fosse meglio così.

Ora però, la corda che le legava il masso al collo si era allentata, e Greta stava risalendo rapida verso la superficie, desiderosa di tornare a respirare.

Era stato trovato un fegato per Sofia; per la sua bambina si era accesa una luce, si era mostrata una speranza. Forse la vita non voleva abbandonarla, forse Dio si era reso conto dell’assurdità di quell’abominio gettato su Sophia, e stava facendo un passo indietro.

Perché anche l’Onnipotente poteva commettere errori, Greta ne era certa. Dio non conosce un figlio come fa una madre.

Greta sorrideva al pensiero del visino angelico di Sohia che abbandonava quel giallo disgustoso per riprendere il suo colore naturale.

Sophia che sorrideva di nuovo.

Sophia che tornava a correre all’aria aperta.

Sophia che si circondava di nuovo di colori.

Sophia che poteva andare avanti, e ricominciare a crescere.

Sarebbe stata dura all’inizio. Un trapianto di fegato non è mai cosa semplice, ma Greta era tranquilla.

Perché ormai vedeva la luce del sole mentre abbandonava la profondità dell’abisso. E lassù, su quelle acque, c’era anche un salvagente. Per lei e per Sophia.

Sarebbero rimaste a galla e, piano piano, avrebbero nuotato fino a riva.

E su quella spiaggia immaginaria, Greta pensava che Sophia avrebbe indossato un costumino colorato, forse rosso, e avrebbe giocato fino a sera, riprendendosi quell’instancabile vivacità che era solo sua.

Niente più giallo pallido. Solo un arcobaleno di colori. Sophia era l’arcobaleno stesso o, almeno, era quello di Greta.

L’intervento era iniziato verso l’una del pomeriggio. Forse ci sarebbe voluta qualche altra ora prima che terminasse, ma finalmente Greta stava respirando di nuovo, senza alcun peso attaccato al collo che la trascinasse a fondo.

E senza alcun peso sul cuore.

Infine lo pensò, perché anche se Lui le aveva abbandonate in precedenza, finalmente era tornato da loro, e tendeva la sua mano misericordiosa per trarle in salvo.

Grazie, Dio.

 

Berlino – h 00.45 – NEL BUIO

 

Il suo piccolo angelo avrebbe aiutato dei bambini sfortunati. Oramai Cecilia aveva perso il conto di quante volte avesse detto e pensato quelle parole. Il suo piccolo angelo.

Sedeva al buio, sul pavimento, stringendosi le ginocchia al petto. Tremava, anche se era maggio e non faceva affatto freddo.

Ma dentro Cecilia era ghiacciata.

Nella mano destra teneva stretta quella fotografia. Non poteva vedere il suo volto, lì nel buio, ma non avrebbe potuto separarsene.

Anche perché, avere in mano quell’istantanea, l’aiutava a rivedere quell’amato visino nella mente, quasi l’immagine si irradiasse dalle sue dita su per il braccio, oltre la spalla, fino a raggiungere il cervello. E lui era lì, nella totale nitidezza della luce accecante, e non l’avrebbe mai abbandonata.

No. Perché aveva aiutato altri bambini.

Cecilia non sapeva se in effetti Matthias avrebbe voluto farlo, ma lei aveva deciso. Era convinta che l’avrebbe aiutata a combattere il dolore, che quel pensiero l’avrebbe fatta sentire in pace. Non del tutto, certo, ma almeno un po’.

Perché non si può certo tornare alla normalità quando il proprio figlio viene a mancare.

Matthias era stato investito da un pirata della strada la sera precedente, mentre tornava dall’allenamento di calcio. Era verde quando aveva lasciato il marciapiede.

Cecilia lo attendeva sul lato opposto. Aveva ritardato di qualche minuto quella sera per andarlo a prendere ma di pochissimo in realtà, quel tanto che bastava affinché si trovasse ancora sull’altro lato della strada anziché davanti al cancello.

Matthias l’aveva vista e le era corso incontro. Ma era verde. L’avevano visto tutti, tutti l'avevano confermato.

Il pazzo l’aveva preso in pieno, dopodiché era fuggito, ma a Cecilia non importava nemmeno che venisse ritrovato. Che cosa sarebbe cambiato? Per avere giustizia? No, non ne valeva la pena. Lei non voleva giustizia, desiderava soltanto riavere suo figlio.

Ma sapeva che non era possibile, per questo aveva scelto di donare i suoi organi. Durante l’incidente Matthias aveva battuto violentemente la testa, morendo all’istante, ma i suoi organi non avevano riportato lesioni. Un tragico scherzo del destino, come a voler dire: è proprio il suo cuore quello che serve. I suoi polmoni. Il suo fegato. I suoi, non quelli di qualcun altro. E Cecilia si era sforzata di accettarlo. Anche perché era certa che, sapendo il suo corpicino svuotato, la sua mente mai e poi mai avrebbe potuto confondersi, facendole credere per qualche effimero istante che potesse essersi trattato solo di un sogno.

Cecilia non voleva illusioni, perché le avrebbero fatto soltanto più male.

Matthias non c’era più, era morto, tanto valeva accettarlo.

Aveva aiutato altri bambini. Il suo angelo.

Eppure non ci riusciva. Fingeva di essere forte quando amici e parenti andavano a consolarla, ma quand’era sola, era tutta un’altra musica.

Quando non c’era nessuno poteva soltanto starsene al buio, lasciarsi inghiottire da esso, sedersi sul pavimento, tenere stretta la sua foto. E attendere.

Neanche lei sapeva che cosa, ma avrebbe atteso. Quando fosse giunto il momento avrebbe compreso.

In quel momento vedeva l’assurdità del mondo, vedeva chiaramente che girava nel verso sbagliato. E non soltanto per Matthias o per lei, ma per tutti, e ogni singolo individuo doveva adattarsi a quell’andamento rovesciato. Anche lei l’aveva fatto fino a quel momento, non lo dubitava, ma non era più tempo per assecondare ciò che non era giusto.

Per questo stava ferma. Che girasse tutto il resto, lei non si sarebbe mossa. Forse, restando dov’era, prima o poi sarebbe rientrata in contatto con Matthias, perché anche lui doveva trovarsi bloccato da qualche parte.

Il suo angelo aveva aiutato altri bambini. Quando si trovava al buio, di quelle parole, Cecilia non se ne faceva niente. Perché non a qualcun altro? Perché proprio a Matthias? Ma quelle erano domande inutili: un altro genitore, al suo posto, si sarebbe chiesto la stessa cosa, e quindi non valeva niente.

Una ragione non esisteva, questo era quanto. Matthias era solo uno dei tanti, e lei non poteva farci niente.

Poteva limitarsi a tenerlo con sé tramite i ricordi e le fotografie, ma tutto il resto era superfluo.

Chissà quanti altri bambini erano morti quello stesso giorno, insieme al suo? Quanti altri genitori in preda alla disperazione esistevano, oltre a lei? Comprendeva tutto, anzi, vedeva.

Le percezioni si erano allargate e Cecilia era un po’ ovunque. Vedeva bambini soccombere dopo lunghe malattie, altri vittime di incidenti simili o meno a quello di suo figlio. Vedeva madri e padri in lacrime, seduti a terra, al buio.

Non c’era da domandarsi perché, era tutto molto semplice. Capitava, fine delle favole.

E, come a molti altri, era capitato a Matthias. Ma almeno il suo angelo aveva aiutato altri bambini. Cecilia non voleva sapere a chi fossero andati gli organi di suo figlio, temeva che avrebbe avvertito la necessità di squartarli per riprenderli, anche se era stata lei a scegliere di donarli.

E andava bene così. Se non altro, che Matthias non fosse morto invano.

Non le restava che rassegnarsi, stringendo e stringendo la sua foto, sperando di riuscire a incontrarlo, prima o poi, in quell’eterna stasi senza tempo.

Ogni tanto, anche se era certa che una ragione non ci fosse, una domanda faceva capolino nella sua testa, come un’onda che si franga sulla riva.

Sapeva che non aveva senso, ma succedeva ugualmente, come gli incidenti.

Perché, Dio?

   
 
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