Quando era
bambina le piaceva guardare la pioggia cadere e sentirne l’odore che aleggiava
nell’aria. Andava fuori e lasciava che tutti i suoi problemi scivolassero via
come le gocce sulla sua pelle; in quei momenti si dimenticava di essere
un’orfana, si dimenticava
della solitudine e degli sguardi della gente e di tutto quanto la faceva
soffrire. E come per magia, quando il
temporale finiva, lui la raggiungeva e le sussurrava suadente “Vieni a casa
ora, piccola Anko”.
Sorrise amaramente al
ricordo di quegli attimi fugaci in cui sembrava che Orochimaru
potesse davvero provare pietà. Si era sempre illusa che
lui la capisse, che fosse l’unico a cui importasse qualcosa di lei. Uscì da
casa e si addentrò nella foresta, non ce la faceva a stare in casa. Lì nessuno
avrebbe potuto vedere il dolore che la lacerava e che la divorava, giorno per giorno, ininterrottamente. Da anni.
Forse non c’era proprio nessuna speranza di salvezza per quelli come lei.
Barcollò, e la sua vista si fece offuscata, mentre i contorni di ciò che aveva
intorno divennero sfocati. Aveva bevuto troppo sakè, poteva ancora sentine il sapore sulla lingua e un
po’ di calore nello stomaco, che almeno la scaldava un po’.
Si ricordò anche della sua prima sbronza: era appena
tornata a Konoha dopo che lui…dopo che lei si era
rifiutata di seguirlo, ferita e con solo vaghi frammenti della sua vita
passata. Una sera aveva rubato una bottiglia di sakè e la aveva scolata tutta,
pensando che la aiutasse a non sentire più male. I pochi ricordi che aveva
erano indissolubilmente legati a lui da un filo rosso, come il sangue delle
vittime che aveva immolato in nome della sua brama di immortalità. Improvvisamente inciampò e cadde,
stremata. Se ne accorse solo
perché la sensazione del duro terreno sotto di sé era tangibile, contrariamente
al resto di ciò che la circondava. Serrò le labbra per non ingoiare il fango a
terra, ma persino quel semplice sforzo era troppo per il suo corpo esausto.
Chiuse gli occhi e si addormentò sperando di non risvegliarsi più.
Spazientito, Orochimaru se ne andò dal laboratorio. Nemmeno
gli esperimenti erano serviti a calmarlo. Nemmeno
allenare Sasuke.
Non ne poteva più di quel perenne stato di tensione. Stava
diventando idrofobo. Odiava sentirsi così vulnerabile alle emozioni, lui che di
solito era freddo e calcolatore, con ogni cosa sotto controllo. Sembrava che
dopo aver lasciato andare la sua ex allieva, Anko, la
sua famigerata
imperturbabilità fosse sparita. Ma
che cosa c’entrava lei con il suo pessimo umore? Eppure la colpa doveva
essere sua, altrimenti l’unica ipotesi plausibile era che stesse impazzendo.
Sì, lei gli aveva fatto qualcosa…ma cosa? L’unico modo per saperlo era di
trovarla.
Localizzò il punto da cui proveniva l’energia del sigillo
maledetto,
e lo raggiunse velocemente. Pioveva a dirotto, perché mai
avrebbe dovuto essere fuori con questo tempo? Ah già…ad Anko
piaceva la pioggia. Continuò a proseguire nella foresta finché il segnale
emesso dal sigillo si fece intenso e in quel momento, scorse…lei. A terra. Si
avvicinò lentamente, incredulo. Era forse così stupida da essersi addormentata
lì fuori? Per verificare il suo stato, la scosse piano con un piede. Niente,
nessun cenno di vita. Si chinò per sentire se respirava: respiro lieve e lento
battito cardiaco. Cosa le era
successo? Date le sue condizioni non poteva
certo fornirgli risposte. C’erano due opzioni:
lasciarla lì al suo destino, ipotesi che lo allettava molto, oppure portarla
con sé e una volta chiariti i fatti, liberarsene.
Scelse la prima opzione,
non aveva nessuna voglia di aspettare i comodi della bella addormentata. Si
rialzò e fece per andarsene, ma rimase fermo lì dov’era: qualcosa gli aveva
preso la caviglia. Si voltò verso la ragazza e vide che era la sua mano che lo
aveva fermato (come quella volta...). Lei sollevò appena il volto e sembrò
fissarlo per qualche secondo, poi richiuse gli occhi, svenendo di nuovo.
Era quella una patetica richiesta d’aiuto? Non era nemmeno
riuscita a parlare. Che
creatura debole ed insignificante.
Ma lo aveva
incuriosito. Quindi
non gli conveniva lasciarla lì se voleva che sopravvivesse.
Se la caricò sulle spalle-aveva ancora quell’ odore di cannella, chissà se le piacevano
ancora i dango- e la portò a casa sua, che al momento
era il posto più vicino.