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Autore: Ksyl    07/05/2018    7 recensioni
FF che apre un varco temporale AU tra il litigio di Always e il finale di Always per come lo abbiamo sempre conosciuto. Cioè come se non fosse avvenuto.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Richard Castle
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quarta stagione
Capitoli:
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Tornò alla realtà dopo essersi cullata in un dormiveglia rilassato in cui aveva fluttuato nelle scure profondità dell'oceano, fiduciosamente abbandonata al flusso delle correnti.
Passata l'esplosione iniziale, il violento acquazzone si era trasformato in una pioggia sempre intensa, ma meno catastrofica, che aveva conciliato un sonno leggero pieno di immagini che si erano susseguite senza sforzo dietro le sue palpebre, confondendosi l'una nell'altra, mescolandosi in un caleidoscopio di colori brillanti e sensazioni appaganti.
Non voleva aprire gli occhi, essere strappata da lì. Voleva fondersi con quelle acque accoglienti che la richiamavano verso oscuri meandri di calma indisturbata.

Alla fine fu costretta a farlo, di malavoglia. Qualcosa dentro di lei la spinse a risalire in superficie, nonostante combattesse per rimanersene nella sua bolla perfetta. Non appena tornò vigile, si accorse che i suoi timori erano stati infondati. La piacevolezza sperimentata non era stata indotta da uno stato di trance nel quale era scivolata senza accorgersene. Non era da qualcosa dentro di lei che erano scaturite quelle sensazioni di benessere. Si diede della sciocca per non averci pensato e aver ritardato il momento del risveglio. Era stato tutto merito di Castle, che le stava accarezzando la schiena con movimenti lenti, imprimendo una leggera pressione del palmo della mano, sotto il cui tocco si inarcò.
La sua presenza fisica, la penombra, il tepore invitante e il silenzio interrotto dal ticchettio regolare della pioggia avevano ricreato un mondo onirico parallelo dentro di lei a immagine e somiglianza di quello a cui era lietamente tornata.
Era sorprendente scoprire quanto fosse facile essere felici, una volta compreso quanto fosse inutile e dannoso intestardirsi per non esserlo. Perché era stato così tortuoso arrivarci? Allungò una mano per accarezzargli la guancia, elettrizzata dalla consapevolezza di quanto fosse naturale la loro intimità fisica. Era stato estenuante stargli lontano, soprattutto dopo essere stata a un passo dal giungere alla meta, che lui aveva spostato un po' più in là, soltanto qualche mese prima.

"Ehi", lo salutò sorridendo, senza dar segno di voler abbandonare la posizione fetale in cui si godeva beatamente le sue carezze. Si chiese se sarebbe stato segno di impudenza chiedergli di non smettere. Magari lo avrebbe capito telepaticamente, di solito funzionava.
"Non volevo addormentarmi", gli spiegò, quasi scusandosi per averlo lasciato solo. Era sincera, non aveva avuto intenzione di prendere sonno, non aveva nemmeno avuto idea di essere tanto stanca, doveva solo aver abbassato le palpebre per qualche istante e la marea l'aveva trascinata lontano. Forse era così che succedeva quando si stava bene. Tutto diventava semplice. Non c'erano costrizioni, resistenze. Perfino il passaggio dalla veglia al sonno avveniva senza quelle lunghe ed estenuanti transizioni che riuscivano solo a innervosirla, costringendola ad affrontare rabbiosa tutto quello che avrebbe voluto soffocare nell'oblio notturno.

"I nostri vestiti sono stati lavati e stirati e ho ordinato la cena", le annunciò impaziente, come se non vedesse l'ora di comunicarglielo e dimostrarle non solo di essersi occupato delle piccole incombenze che l'avevano infastidita, ma soprattutto di averla presa sul serio. Non le erano interessati quei dettagli pratici, naturalmente. A nessuna persona sana di mente sarebbe importato di non avere oggetti personali a disposizione, quando si aveva Castle nel proprio letto.
Gli sorrise, grata per la premura. Non sapeva che cosa trasmettessero i suoi occhi, le bastava perdersi in quelli di Castle per capire che qualcosa era cambiato. In meglio. Una sensazione di completezza che non aveva mai pensato potesse essere alla sua portata.
Per quel che la riguardava, quella notte non sarebbe mai finita, loro sarebbero per sempre rimasti nella loro nicchia d'amore, separata dai banali eventi della vita quotidiana e dal mondo secolare, amen. Non si poteva? Castle poteva tutto, glielo dimostrava a ogni passo. Gliene avrebbe parlato e lui si sarebbe sicuramente mostrato d'accordo con lei. Non avevano bisogno di niente, giusto? Solo di cibo, in fondo.
Che era arrivato disposto più vassoi che Castle, che doveva essere stato molto più attivo ed energico di lei, aveva deposto con ordine sul tavolino basso posizionato davanti al camino, ai piedi del loro letto.

Quell'abbondanza di succulenti generi di ristoro, preparati con estrema cura inviava alle sue cellule olfattive aromi irresistibili, che le ricordarono che non mangiava da chissà quanto tempo e che tutta quella beatitudine che aveva sperimentato nelle ultime ore imponeva un diffuso spreco di energie che dovevano essere reintegrate in qualche modo.
Si sollevò, stropicciandosi gli occhi. Lui si era già alzato. Appoggiò i piedi per terra, abbandonando la loro oasi felice, fece qualche passo – un po' traballante - e afferrò la camicia di Castle, perfettamente inamidata, dalla pila di vestiti ordinati in modo maniacale che giacevano all'ingresso. Senza porsi alcun problema o chiedere il permesso, la indossò con grande disinvoltura, perché... beh, perché aveva sempre voluto farlo. Quale altro motivo doveva esserci? E non le sembrava onestamente che ci fosse una migliore occasione di questa. Se la strinse sul corpo. Nonostante il lavaggio subito, conservava un tenue ricordo dell'odore inconfondibile di Castle.

Dietro suo invito, si sedette sul tappeto, davanti alla tavola riccamente imbandita e, per una volta, Castle non dovette pregarla per spiluccare qualcosa. Aveva una fame da lupi. Da lupi che hanno vagato nella steppa artica per settimane prima di trovare qualcosa di commestibile, per la precisione.
Fu divertita nel vedere l'espressione soddisfatta di Castle, che, a onor del vero, si stava dedicando al cibo con più ritegno. Forse lui non era stato altrettanto affamato. Forse la carestia per lui non era stata così desolante. Metaforicamente e non.

Si fermò solo per un attimo a contemplare con un'improvvisa epifania il fatto che si trattava del primo pasto che condividevano da... non amici. Le parve un evento che segnava definitivamente il passaggio a un altro stadio del loro rapporto. Chissà se poteva rubargli qualche boccone dal piatto. Castle era uno di quegli uomini a cui avrebbe dato fastidio? Era un difensore acceso dell'idea di proprietà privata? Ci provò, con un pizzico di divertimento segreto, accorgendosi che lui non aveva nessun problema nel lasciarsi derubare da lei. Accettava i suoi assalti come se fosse normale, come se avessero sempre diviso tutto. Era così spontaneo tra loro, nonostante fosse tutto nuovo, che non poté impedirsi di trovarlo stupefacente, per la centesima volta in poco tempo.
Quindi adesso condividevano il cibo, rifletté. Le sembrò un dettaglio quasi più intimo di tutto il resto. Perché segnalava qualcosa di più, la disponibilità a essere altro, che era vissuta come un'evoluzione naturale, scontata. Si sentì rimescolare di piacere.
Lo lasciò in pace e tornò a concentrarsi su quello che stava mangiando prima che le venisse un'altra idea un po' sciocca.

Era così focalizzata su questo genere di piacevoli considerazioni, che venne colta del tutto impreparata dalla piega che Castle decise di dare alla loro conversazione, fino a quel punto basata su chiacchiere leggere, molti sorrisi e sguardi rilassati.
"Perché sei arrabbiata con te stessa?", le domandò con tono casuale, a mezza voce, apparentemente concentrato a gustarsi le prelibatezze che lo staff del castello aveva portato loro con grande sollecitudine. Era come se non volesse dare troppa importanza a una questione che invece di importanza ne aveva eccome, e ne erano consapevoli entrambi.
Si gelò, di colpo. Forse perché era stata convinta che quel pezzo di vita passata, desolato e solitario, fosse ormai stato superato. Non erano insieme, dopotutto? Credeva che se ne fosse dimenticato, o che magari non avesse nemmeno sentito quella frase specifica, visti gli eventi successivi, piuttosto concitati, che erano accaduti sulla scogliera. Ma Castle non si smentiva mai, lui sentiva tutto, registrava tutto e non faceva finire niente che la riguardasse nel dimenticatoio.

Bevve l'ultimo sorso dell'ottimo vino che era arrivato insieme alla cena, forse ordinato da Castle o gentilmente offerto dalla casa, non ne aveva idea.
"Non so se è importante parlarne adesso. O parlarne in generale", mormorò stringendo il calice tra le dita. Forse stava prendendo tempo o forse no. Forse non ha sempre senso andare a rivangare quello che è stato, quando si è già oltre. Ma lo era? Era oltre? Non era facile interrogarsi, mentre era abitata da un languore che le rendeva il corpo e la mente cedevoli.

Lui rimase in silenzio, lasciando a lei la scelta di decidere se proseguire o meno. Decise di farlo, perché l'onestà intellettuale era un principio che rispettava profondamente e perché sentiva in qualche modo di doverglielo. Qualsiasi cosa fosse iniziata quel pomeriggio, doveva essere libera di crescere ed espandersi senza ombre passate a minacciarla. C'erano troppi interrogativi rimasti in sospeso tra di loro. E non si trattava di chissà quale segreto, temeva solo che sarebbe stato difficoltoso passare in rassegna quel momento difficile della sua vita, quel bivio tormentoso davanti al quale si era trovata, le decisioni che ne erano seguite.

"Io... ho creduto di aver rovinato tutto e non riuscivo a perdonarmelo. È stata tutta colpa mia", buttò fuori decisa. Se andava fatto, meglio togliersi il pensiero e andare dritti al punto.
Alzò su di lei uno sguardo confuso. Capì che doveva impegnarsi di più, spiegarsi meglio.
"Tra di noi", specificò. "Ora, è chiaro che dopo...", lanciò un'occhiata fuggevole al letto disfatto sorridendo impercettibilmente. "Dopo quanto avvenuto, che forse non è così. Credo". Era tornata di nuovo nervosa, non voleva giungere a conclusioni affrettate, che indovinava fossero state la causa di una serie di disastri a catena che li avevano condotti, in ogni caso, nel posto in cui avevano sempre dovuto essere. Ma con il senno di poi eccetera.
"Che cosa avresti rovinato?". Era sinceramente stupito. "Non c'era nemmeno un... noi, fino...".
Lo interruppe. Altrimenti avrebbero cominciato a parlare di quel noi che lui aveva buttato lì, nella cui esistenza evidentemente credeva e che le sarebbe tanto piaciuto indagare meglio, ma che li avrebbe fatti deviare dalla rotta che aveva stabilito. Di quel passo, quel loro chiarimento sempre rimandato e mai affrontato sarebbe diventato un aneddoto divertente da citare ai compleanni e ai pranzi natalizi in famiglia. E no, non doveva iniziare a immaginarsi presunti natali insieme o l'avrebbe trascinato di nuovo su quel letto invitante.

"Penso di averti dato per scontato, Castle. Ho creduto che ci saresti sempre stato, che mi avresti aspettato. E non ho realizzato che avresti potuto semplicemente stancarti. Come è successo quando te ne sei andato arrabbiato dal mio appartamento".
Lo vide incupirsi, mentre metabolizzava le parole stupefacenti che le erano uscite di bocca – a giudicare dal suo volto.
"Non mi sono mai stancato. Non di te", ribatté incredulo che lei avesse potuto perfino osare formulare quel pensiero.
"Hai detto che era finita e che ne avevi abbastanza", gli ricordò. La sua mente aveva registrato le sue parole e gliele aveva fatte riascoltare all'infinito, aumentando ogni volta la pena.
"È vero. L'ho detto. Ma perché ero furioso. Tu stavi buttando la tua vita in una guerra inutile e non potevo sopportare di guardarti andare a fondo. Avevo già rischiato di perderti. Non potevo lasciare che succedesse di nuovo. Non l'avrei sopportato", ammise onesto come sempre. Lui non aveva problemi a esprimere la verità delle sue emozioni, senza temere di apparire debole, o vulnerabile. Era lì la sua forza. Perché non l'aveva capito prima?
"Ho sprecato tanto di quel tempo, Castle". Abbassò gli occhi, vergognandosi per la voce che si era incrinata. "Sapevo che... Conoscevo i tuoi sentimenti, ma ho finto di non ricordare perché... non ero ancora arrivata al punto di potermi permettere di pensarci. Non era pronta ad ammettere... quello che provavo anche io. E provo". Concluse abbassando la voce fino a un sussurro. Gli lanciò un'occhiata di soppiatto, per vedere se quell'ammissione lo avesse turbato, ma il suo volto non faceva trasparire niente di particolare. "E nel frattempo tu ti sei stancato di aspettare e di colpo tra di noi è finita. Non posso biasimarti", lo rassicurò.
Gli diede un po' di tempo per riflettere, forse ne aveva bisogno, ma il silenzio cominciò presto a innervosirla.

"È questo quello che pensi?", domandò con voce incolore, che la mise in allarme. Lei si era esposta moltissimo, e lui non aveva reagito.
"Forse non è quello che penso adesso, ma è quello che ho pensato quando ero di fronte al tuo palazzo sotto al temporale provando a telefonarti. Ma tu... non hai mai risposto", ammise amaramente, torcendosi una ciocca di capelli. Fece un respiro profondo per calmare i battiti irregolari del cuore.
Dopo un istante di attonito stupore le si fece più vicino. Le prese il volto tra le mani costringendola a voltarsi verso di lui. Fu stupita da tanta veemenza, ma almeno non si era allontanato fisicamente, come aveva iniziato a temere avrebbe fatto, anzi aveva cercato un contatto.
"È così che è andata, quella sera?", le domandò febbrilmente.
"Sì", rispose incerta. Non capiva perché si fosse agitato. Non le sembrava di aver fatto chissà quale clamorosa confessione. Aveva visto il mittente delle chiamate, no? Sapeva che aveva tentato di mettersi in contatto con lui. Era lui che si era negato. "Ero venuta per dirti che...non so, non avevo preparato un discorso. Sapevo solo di voler ripartire, lasciandomi tutto alle spalle. Volevo salire da te e poi... immagino che qualcosa sarebbe successo". Gli sorrise allusiva. Qualcosa di cui adesso avevano entrambi un'idea abbastanza precisa.

Lui, di nuovo, non reagì nel modo in cui si era aspettata e la cosa la colpì. Era convinta che da lì sarebbe stata solo discesa. Forse non era stata abbastanza esaustiva. Ci riprovò.
"Volevo... stare con te, Castle. Ho rischiato di morire sul tetto di quel palazzo e tutto quello di cui mi importava eri tu. Volevo... te, e basta". Non c'era un altro modo per dirlo. E non sapeva come renderlo più chiaro di così. "Avevo deciso che ne avevo abbastanza di avere paura di essere felice, come avevi detto tu. Pensavo che saremmo potuti esserlo, insieme. E invece non è andata così, perché ho rovinato tutto, aspettando troppo", ripeté ancora. Quante volte l'aveva già detto? Le sembrava di non aver fatto altro che sottolineare quanto lui si fosse stufato di lei.
Era difficile aprirsi così tanto. Glielo doveva, lo doveva a se stessa, ma era qualcosa che l'atterriva. Se aveva creduto di sapere che cosa significasse lanciarsi nel vuoto, solo alcuni mesi prima, avrebbe dovuto ricredersi. Le montagne russe più spaventose non erano niente rispetto alla sensazione paralizzante che si era impadronita di lei, soprattutto perché lui era un enorme enigma impossibile da decifrare.

"Kate...". Le sembrò che si fosse rattrappito, come se lei lo stesse gravando di un peso troppo grande da sopportare. Eppure le sembrava di aver espresso i fatti esattamente per come erano andati, per come li aveva sempre interpretati. Continuava a credere che non ci fosse spazio per altre varianti di significato, in effetti. Del resto, se ne stava assumendo tutta la colpa.
"Perché non sei salita?". Non la stava ascoltando? Era strano, lui era un ottimo interlocutore, sempre attento, rispettoso, mai distratto.
"Perché tu mi ha riattaccato in faccia, più di una volta. Il messaggio era chiaro". E doloroso. Tanto. Lo era anche adesso anche se addolcito dalla leggerezza delle ultime ore trascorse con lui. Il cuore le si strinse. Non era semplice far convivere al suo interno la sofferenza passata e l'attuale spiraglio di speranza. Non voleva illudersi.
Castle se ne stette a fissare il fuoco, che andava morendo. Si alzò per ravvivarlo, lasciandola circondata da un silenzio confuso, nervoso, pregno di cose non dette.
"Come hai potuto pensare che avessi smesso di...". Cercò la parola adatta, perché evidentemente, non voleva usare quella che continuava a salirgli alle labbra, ma che si ostinava a mettere da parte. "Provare dei sentimenti per te? Ti avrei aspettato per sempre, se fosse stato necessario. Ed è quello che ho fatto, sono venuto fin qui, ti ho cercato ovunque".
Quindi adesso la colpa era la sua?

"Castle, mi hai piantato in asso. E non hai risposto alle mie chiamate. Non è esattamente il comportamento di qualcuno che... prova dei sentimenti. Non positivi, almeno. Come si dice, l'ipotesi più semplice è quella più giusta, no? Tu non mi hai mai richiamato, del resto".
"L'ho fatto!", la contraddisse con forza. "Dopo qualche tempo, ma il tuo telefono era staccato. Te ne eri già andata. Avresti potuto...", finì quasi accusandola.
"Che cosa, Castle? Starmene davanti alla tua porta a implorare? Aspettare con pazienza che tornassi sui tuoi passi? Era finita, per quel che ne sapevo. Ero da sola, non avevo più un lavoro, avevo incasinato la mia vita, nessuno tra i miei collaboratori si fidava più di me, te compreso, tutti mi avevano voltato le spalle e tu... non mi volevi più", le si spezzò la voce. "Mi sono maledetta mille volte per aver aspettato troppo e mi sono incolpata di tutto quello che era successo. Non ti basta? ".
Sospirò. Perché adesso stavano litigando?

Castle sembrò tornare in sé, come se si fosse risvegliato dopo quell'effluvio di parole concitate. Le prese una mano. "Scusa. Hai ragione. Ho esagerato", ammise più calmo. "E non devi colpevolizzarti per aver aspettato troppo, hai impiegato quel tempo per guarire, dopo che quel cecchino ha tentato di ucciderti", le disse più gentilmente, sorridendole. Le sembrò di colpo di essere passata da un gorgo infernale a un piacevole paesaggio soleggiato. Il potere di quegli occhi buoni e luminosi.
Anche il suo psichiatra le aveva detto che il tempo speso nell'affrontare i suoi demoni non era stato tempo perso. Si stupì che Castle fosse dello stesso parere, anche senza una precisa formazione scientifica, ma indotto solo dal buon senso e dalle note capacità empatiche. Oltre all'evidente desiderio di sollevarla dalle colpe che si era attribuita.
"Perché te ne sei andata?", le chiese con dolcezza, come se lei fosse troppo fragile per sostenere quella conversazione. "Perché non sei rimasta a lottare? Hai lasciato che ti cacciassero dalla polizia senza ribellarti, senza combattere. Non è da te".

Quelle parole la indispettirono profondamente, nonostante il tono. Nascondevano forse un'accusa? La stava giudicando debole? Si inalberò, pronta a dirgliene quattro. Come si permetteva? Che cosa ne sapeva, lui, di quello che lei aveva passato? Di quello che aveva provato quando si era resa conto di aver perduto tutto quello che aveva costruito faticosamente? La sua carriera, ma soprattutto la promessa di una vita piena, diversa, e tutto perché aveva capito troppo tardi che le sue ossessioni le stavano portando via la possibilità di essere felice? E che proprio nel momento in cui si era fatta coraggio, aveva avuto la forza di lasciar andare i suoi muri, le sue paure, si era trovata una porta chiusa davanti? Si sentiva ribollire. Era facile giudicare dalla sua posizione. Ma poi comprese che tanta rabbia nascondeva una ferita intima, che non era ancora guarita e che si era risvegliata, dopo essere stata appena stuzzicata. Era lei ad avere un punto sensibile, non lui ad averla voluta colpire a tradimento.

"Perché sono stanca di pensare che la vita sia una guerra da combattere. Non eri anche tu dello stesso avviso, quando mi consigliavi di lasciar perdere le mie battaglie perché troppo pericolose? Non voglio vivere così. Non voglio vivere in un mondo in cui si ottengono vittorie minime e dispendiose solo schiantandosi contro i muri, strappando con le unghie quello su cui mi impunto a qualsiasi costo, senza tener conto delle conseguenze. È quello che ho sempre fatto, e guarda dove mi ha portato. A rischiare di morire appesa a un tetto e perdere te, perdere tutto. Non voglio più lottare, non nel senso che ho sempre attribuito a questa parola. Ho sempre vissuto abbattendo gli ostacoli a forza, forse era la forza della disperazione, e tutto ciò non mi ha reso felice, come hai sottolineato anche tu. Voglio qualcosa d'altro, Castle. Qualcosa di meglio. Voglio che le cose funzionino perché devono farlo, che... fluiscano, proprio come è successo tra di noi oggi. E mettendo da parte metafore belliche, che sono stanca di usare".
Era un discorso lunghissimo che l'aveva svuotata. Ma non aveva ancora finito.

"Mi spiace se pensi che non sia da me. Ma io voglio essere più di quella che sono stata. Voglio di più dalla vita, delle briciole di cui mi sono accontentata, precludendomi la possibilità di avere un futuro. Un futuro con te, non ne ho mai voluto altri. E per farlo avevo bisogno di raccogliere i pezzi, andare oltre quel devastante senso di perdita che ho provato quando sono arrivata davanti alla tua porta troppo tardi. Ho creduto che per me non fosse possibile nessun miracolo. E sono venuta qui. Forse tu avresti agito diversamente, ma è stata la mia scelta. Giusta o sbagliata che fosse a quel punto. Sono davvero stanca di battaglie e combattimenti. Voglio quello che abbiamo adesso. E lo voglio esattamente per come è stato. Naturale. E... bello", concluse un po' imbarazzata, come se si fosse risvegliata all'improvviso e avesse scoperto di aver fatto una lunghissima tirata che non aveva messo in conto.

Si rese conto con orrore di essersi spinta troppo oltre, aveva parlato troppo, non era da lei esporsi tanto, parlare, specificare. Ripercorse quello che le era uscito inaspettatamente dal cuore per colpa di un moto imprevedibile e incontrollato. Davvero era quello che pensava? Davvero a un certo punto aveva smesso di schiantarsi contro i muri che la vita le metteva davanti – ma lo faceva davvero? Non era forse lei a costruirli? O a cercarli a forza, per ricreare un moto battagliero permanente, per non sentire il suo dolore, per riempire i vuoti della sua anima? Per non sentire i morsi che non si erano mai zittiti da quando era morta sua madre? O, peggio, per non riconoscere l'amore che era fiorito per Castle, perché ne era spaventata?

Non provò il solito moto di sofferenza. Si scoprì libera. Felice. Voleva solo essere se stessa, voleva più di tutto stare con Castle, voleva scrollarsi di dosso tutta la tristezza accumulata, voleva vivere. A lettere maiuscole. La vita le sembrò magnifica, piena di promesse, che si schiudevano davanti a lei. Doveva solo raccoglierle, averne il coraggio. Aveva messo da parte le sua battaglie, le aveva superate, aveva vinto quella principale, quella contro la parte di sé che non le permetteva di immaginare di meritare un futuro radioso. Con Castle. Sempre che lui avesse voluto. Non si era pronunciato molto, in effetti, nonostante le sue uscite decisamente imbarazzanti.

Non riuscì a stargli lontano. Non le importava che cosa pensasse lui. O meglio, sì, certo che voleva sapere la sua opinione. Più tardi. Non voleva più sprecare nessun momento lontana da lui, non quando ce l'aveva nella stessa stanza, dopo aver bramato la sua presenza per un tempo troppo lungo da quantificare. Avrebbe preso quell'iniziativa che le si era rivoltata contro mesi prima. Anche se il rischio era enorme, ma la vita, decise, era esattamente questo. Assumersi il rischio di essere felice.

Lo travolse costringendolo a sdraiarsi sulla schiena, sedendosi su di lui, impedendogli di muoversi. Si chinò a baciarlo. Sapeva di buono.
Lui la fermò, accarezzandole il volto, in modo da poterla guardare negli occhi.
"Non voglio fare il guastafeste, ma io non ho ancora parlato", la informò con un luccichio divertito, ma consapevole – ne era certa - di tutto quello che era stato detto e quello che era rimasto silente, perché non era necessario esprimerlo.
"Castle...". Non aveva intenzione di starlo ad ascoltare. C'erano cose molto più pressanti a cui dedicarsi. E c'era bisogno di tempo, prima di conoscere la sua versione dei fatti, quello che pensava delle uscite sbalorditive. Ci voleva una pausa.
"So che ti è difficile moderarti in mia presenza...". Gli diede un pizzicotto, provocando una reazione di protesta. Ben gli stava. Perdere tempo che potevano impiegare diversamente e in modo molto più proficuo.
"Ma non è giusto che tu ti assuma tutta la colpa. Ho anche io la mia parte".
"Ti pare che in questo momento importi stabilire di chi è la colpa?". Cominciò a togliersi lentamente la camicia, davanti ai suoi occhi che andavano accendendosi.
"No, ma...". Gli prese le mani e se le appoggiò sui fianchi.
"È acqua passata. Siamo comunque arrivati al punto in cui dovevamo essere, solo con un ritardo di qualche mese".
"Un ritardo di più di quattro anni, Beckett. Voglio ricordarti, che fin dall'inizio...".
Era certa che non avrebbe smesso di parlare, se non glielo avesse imposto con la forza. O con una pistola.

   
 
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