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Autore: _Polx_    10/05/2018    1 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
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“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ebor scosse il capo per l'ennesima volta, irremovibile: “non mi allontanerò per quelle che potrebbero essere ore così come intere settimane. Labyrinthian è vicino, ma sappiamo che a questo genere di spedizioni occorre sempre più tempo di quanto non sembri”.
“Non ce la farà solo” obbiettò Zeala.
“È il Sangue di Drago: ce l'ha sempre fatta, solo”.
“Sono certa che lui avrebbe da ridire”.
Lui sbuffò: “Zeala, per favore, nascerà a giorni”.
“Di che ti lamenti? Mal che vada, ti risparmierai le mie grida e le mie imprecazioni ai Nove”.
“Anche quand'è nato Hedil mi trovavo lontano da casa”.
“Motivo in più per assentarti: eviterai il rischio di mostrare preferenze per l'uno o l'altro figlio”.
Ebor la squadrò con una tale sufficienza che lei alzò gli occhi al cielo, sospirando profondamente: “spero tu sappia che io non avrò bisogno di te: altri si occuperanno di me. Quel bambino, al contrario, è solo. Suo padre è solo. E sta pur certo che si farà ammazzare come un cane, pur di ritrovarlo. Loro hanno bisogno di te”.
Con immenso rammarico, Ebor cedette.
Temendo contrattempi di qualsivoglia genere, racimolò armi e scorte con cui caricò il castrone più forte e docile delle sue scuderie, così da non doverle trasportare a braccio e rischiare di sfiancarsi prima del tempo.
Dovah non parve né sollevato né rammaricato della sua presenza e Ebor non desiderò sondare il suo animo per averne certezza. Quell'Altmer era forte nello spirito e ferino nel corpo; poche erano le avversità di cui aveva timore e nessuna tanto ostica ai suoi occhi da convincerlo a rifuggirla: era consapevole che Dovah non si fidasse di lui, ma era anche certo che non avesse intenzione di trattarlo alla stregua d'un nemico, dunque ne sopportò il rude malanimo e lo guidò per i sentieri meno impervi, tanto che al calare delle tenebre le grandi rovine di Labyrinthian già si stagliavano contro il cielo cupo ma terso.
Non incapparono in inconvenienti troppo spiacevoli, fatta eccezione per un paio di troll particolarmente indocili, e Dovah seguì Ebor con perplessità, quando lo vide insinuarsi tra le imponenti vestigia per raggiungerne un recesso particolarmente appartato, che ben poca attenzione avrebbe attratto da parte di chiunque altro avesse perlustrato la zona.
“Più volte ho attraversato le vie perdute di questo luogo e ho vagato in ogni sua viscera” affermò il Dovahkiin “non comprendo cosa mai potremmo trovarvi di nuovo” ma dovette zittirsi quando posò lo sguardo su ciò che Ebor indicava a pochi passi di distanza, smosso nella neve.
“Una caditoia laddove prima non c'era nulla”.
“Mi pare di capire che da parecchio tempo non metti piede qui”.
“Perché avrei dovuto?”.
“Ebbene, quella caditoia v'è sempre stata” assicurò Ebor “ma da secoli nessuno vi metteva mano e giaceva celata sotto strati e strati di ghiaccio e neve”.
“Dunque è qui che l'hanno condotto. È qui che si trova Cal” avanzò senza esitazione e l'altro dovette afferrarlo per una spalla, così da trattenerlo: “senza troppo impeto. Hai parlato d'una maschera di ferro, abbandonata nella tua dimora in seguito al rapimento”.
“In verità, non ne ho mai accennato”.
Ebor ne parve perplesso: “oh, perdonami. Talvolta, nella distrazione, non distinguo ciò che m'è stato detto da ciò che apprendo per conto mio. Ebbene, ti ricorda forse qualcosa?”.
“Eccome, ma potrebbe significare tutto e niente: emulatori degli antichi Sacerdoti del Drago, Cultisti fanatici di qualche credo. Non ne ho interesse: ho affrontato sia gli uni che gli altri e li ho annientati tutti”.
“Lo so bene, ma comprendere con chi abbiamo a che fare potrebbe aiutarci a intuirne le ragioni. Qualcosa mi impedisce di sondare i segreti di questo luogo, una protezione, o una barriera. Suggerisco di agire con cautela”.
Dovah annuì, seppur di controvoglia, e riparato il cavallo e le provviste laddove non vi fosse intemperia o predatore che potesse causar danno, si calarono per l'oscuro cunicolo. Ebor sperò soltanto che il cibo messo a disposizione dalla sua bestia fosse sufficiente fino al loro ritorno: si trattava d'un foraggio assai costoso, che conservava in caso di simili emergenze e del quale bastavano dosi esigue perché un animale adulto conservasse forza e vigore per lungo tempo. Le imponenti cavalcature del nord erano abituate a dissetarsi con ghiaccio e neve, dunque non se ne faceva un cruccio. Tuttavia, temeva d'assentarsi più a lungo di quanto quell'ingordo di Rubeus avrebbe impiegato a terminare la mole di cibo lasciatagli nell'improvvisata stalla di pietra.
Non ebbe modo di soffermarsi troppo a lungo su tali rimuginazioni, perché presto si ritrovarono tanto in profondità che l'aria cominciò a pesare come terra. Era pregna di umidità e degli odori più pungenti, dal lino macilento delle antiche sepolture, alle muffe che, al riparo dal gelo, infestavano le antiche pareti, a quello più ancestrale e ostile di tutti: il lezzo di morte che scaturiva dalle tombe divelte e che in secoli di sopore non aveva trovato modo di disperdersi o attenuarsi, né vi sarebbe riuscito in futuro.
Nulla di nuovo agli occhi di Dovah, che di antiche cripte Nord ne aveva visitate e sanate molte. Tuttavia, procedevano senza parlare, in allerta, e nessuno dei due osava rompere il silenzio plumbeo che ammorbava quelle stanze.
Se Dovah procedeva col passo lieve che solo un prescelto di Nocturnal poteva vantare, Ebor non era altrettanto accorto e talvolta i suoi piedi cadevano in fallo, calpestando un coccio, spezzando un rugginoso strumento da imbalsamazione abbandonato a terra da tempo immemore o risuonando semplicemente con eccessiva rozzezza tra le aspre volte di pietra. Fu probabilmente il suo scalpiccio a ridestare uno degli spiriti inquieti che ammorbavano il sepolcro ed esso era uno dei più temibili e alteri, un Signore dei tempi antichi, dominatore della Voce.
“Ottimo lavoro” sibilò Dovah a denti stretti, portando la mano all'elsa della propria spada, ma Ebor gli accennò d'attendere e, per sorpresa più che per fiducia, lui gli diede ascolto.
Lasciarono che quell'antico Signore della Morte si avvicinasse e, se Dovah fremeva dal desiderio di dar sfogo al proprio potere per scaraventarlo lontano da sé, così da impedire che fosse il draugr a pensarvi per primo, Ebor avanzò a sua volta d'un passo, fino a fronteggiare il nemico come per sancirvi una tregua o persuaderlo dal proprio intento.
Parvero osservarsi a lungo, in silenzio, se non per l'ansare arrochito dell'ancestrale corpo macilento. Infine, questi indietreggiò e, volgendo loro le spalle, cacciò uno strido terribile, che forzò Dovah a tapparsi le orecchie e a contorcere il volto in una smorfia di dolore.
Seguì un silenzio che parve ancor più greve e il Signore della Morte s'allontanò da loro per fermarsi a breve distanza, accanto alla propria stessa tomba, erto contro la parete d'alabastro, con le mani strette avanti al ventre putrido e lo sguardo fisso nella penombra.
“Per gli Otto, che è accaduto?” bisbigliò Dovah a denti stretti.
“Abbiamo stipulato un accordo” spiegò Ebor con calma disarmante “non saranno i suoi fratelli ad affrontarci, bensì i tuoi nemici, coloro che desiderano il sangue del Dovahkiin. Li ha avvisati della nostra presenza”.
“Tale sarebbe l'accordo? Non mi pare molto vantaggioso”.
“Il bambino che cerchi è alle radici del mondo, nella più antica tomba di questo mausoleo, sotto ai nostri piedi: è lì che ti condurrebbero, se riuscissero a mettere le mani su di te. È lì che si trova Cal”.
Dovah sarebbe rimasto sconvolto da quelle parole, se non fosse stato per il guizzo inaspettato che catturò il suo sguardo e lo convinse, pur senza volontà, ad allontanarsi da Ebor, fino ad affiancare il docile draugr come mai aveva avuto modo di fare prima d'allora.
Vi era una feritoia orizzontale sagomata nella pietra ed essa permetteva di scorgere ciò che si celava in un androne inaccessibile a chiunque non vi fosse stato tumulato: una spirale di vento e polvere serpeggiava perpetuamente, spinta da forze non assoggettate alle leggi della natura, e trascinava con sé antichi fogli il cui contenuto era ormai andato perduto nella storia del tempo. Una pozza di liquame nero e denso aveva inghiottito il pavimento laddove, al centro della stanza, andava incuneandosi in una dolce concavità.
“Io ho già visto un luogo simile” mormorò.
La voce di Ebor proruppe alle sue spalle, ben più salda e decisa: “Apocrypha. Questo posto ne è una mera emanazione, eppure il potere di Hermaeus Mora è forte”.
Dovah si voltò: “per questo sapevi dove condurmi: tu conoscevi questo luogo”.
Ebor non ebbe l'ardire d'immergersi nei suoi pensieri, timoroso di scoprire cosa, su di sé, si celasse in essi. Si limitò ad annuire: “non ho mai osato mettervi piede, prima d'ora, ma da almeno una decina d'anni cresce e si fortifica, tra le radici di queste antiche rovine, custodito dai suoi nuovi seguaci”.
“Qualcun altro, dunque, s'è lasciato abbindolare dalle sue promesse”.
“Parrebbe di sì”.
“Ho avuto a che vedere con lui, con Hermaeus Mora: ne affrontavo il campione, imprigionato nel suo stesso regno, ma quando mi trovai a un passo dal prevalere, ecco il Principe interrompere il duello e calare la propria scure di morte su colui che l'aveva servito. Aveva compreso che avrei vinto, che avrei avuto la meglio sul suo paladino nonostante la protezione che lui gli aveva concesso. Sapeva che avrei trionfato pur senza il suo permesso. Giunse dunque a strapparmi la vittoria, pavoneggiandosi del proprio potere, ostentando un dominio sugli eventi che, per una volta, non gli era appartenuto, così da preservare la supremazia che sempre ha sfoggiato e l'incommensurabile ego che mai l'ha abbandonato”.
Ebor annuì di nuovo: “è da lui”.
“Pare che tu ne sappia molto” per la prima volta cercò di sondarne i segreti, ma altri inconvenienti li strapparono al confronto.
L'avvertimento del Signore della Morte non era stato ignorato e dieci guerrieri si riversarono nell'ampia sala.
Ebor estrasse la propria spada: “eccoli dunque. Non saranno un problema per noi, o per lo meno è ciò che spero: sgominata la minaccia, ci addentreremo dove il potere di questo luogo si fa più nitido e pungente. Basterà seguirne la scia per trovare tuo figlio”.
Pensò d'aver parlato a sufficienza e, senza indugiare oltre, partì alla carica come un toro aizzato da un branco di lupi impudenti.
Tuttavia, Dovah non era convinto delle sue parole: quei sotterranei, per quanto angusti e disagevoli apparissero, erano immensi e chissà quanto avrebbero vagato, prima di giungere alla meta che Ebor vantava di poter scovare affidandosi unicamente a un potere che lui, in verità, percepiva a stento. Cal era tenuto prigioniero laddove lui sarebbe stato condotto, se solo fossero riusciti a mettervi le mani: perché, dunque, arrischiarsi nel vagare a vuoto con la terribile possibilità di non giungere mai a destinazione, se vi era modo di lasciarsi condurre dove gli occorreva, senza pericolo d'errore o smarrimento?
“Sconfiggi coloro che cercheranno d'arrecarti danno” disse con rinnovata convinzione, facendosi avanti a mani basse “abbatti i tuoi nemici, ma non opporti ai miei”.
E i nemici di cui parlava parevano in tutto e per tutto fanatici appartenenti a un culto malevolo: indossavano lunghe tuniche impregnate di potere arcano e maschere sui volti che Dovah riconobbe al primo sguardo. Fu una di queste che fissò con insistenza, quando s'inginocchiò a terra e porse le proprie mani in segno di resa.
Ebor comprese le sue intenzioni e le ritenne sconsiderate. Cercò di raggiungerlo, per persuaderlo dal compiere una simile follia, ma gli fu impedito dai molti guerrieri che continuavano ad affluire da ogni dove, mettendo a dura prova la libertà del suo ragionare. Presto il campo di battaglia fu tutto ciò cui la sua mente poté volgere e lasciò che Dovah facesse quanto aveva deciso.
Se alle soglie del covo vampiresco, da cui con tanto orrore era fuggito, aveva combattuto come una fiera per sottrarsi alla cattura, pur finendo sopraffatto e sconfitto, qui Dovah accolse le catene del nemico e fissò con determinazione la maschera di colui che le stringeva ai suoi polsi. Gli parve identica a quella ritrovata nella sua dimora e di cui ricordava ancora l'odore del sangue che la impregnava.
Senza l'inganno di armi e veleno, ma con il palesato impiego d'una magia arcana che lui non comprendeva, lo forzarono all'oblio e Dovah lo accolse.
 
Si svegliò con un violento singulto, come a colmarsi d'aria dopo una lunga apnea, e si scoprì in gabbia. Non vi erano guardiani a vegliare sulla sua prigionia, né vivi, né morti, e l'antica tomba pareva esser stata spogliata d'ogni bene.
Ripresosi dallo stordimento, si alzò e scosse le spesse sbarre di ferro daedrico, ma le scoprì più solide di fusti di quercia. Analizzò l'antro scuro in cui era segregato, alla ricerca d'una via di fuga, e fu allora che lo vide: un'esile figura, rannicchiata a terra come per trovarvi calore e immersa in un cupo sopore. Una sfera di magia l'avvolgeva, forse per impedirne la fuga, forse per impedirne il risveglio. Tre colonnine istoriate la circondavano, ciascuna con una gemma d'anima ad alimentare l'incantesimo.
Di nuovo il respiro di Dovah si mozzò: “Cal?”.
Ovviamente, non ottenne risposta. Chiamò con più impeto e di nuovo a replicargli vi fu solo silenzio.
Tornò a scuotere le sbarre, le calciò, col fuoco che scaturiva dalle sue mani cercò di plasmarle, ma non vi era calore sufficiente a piegarne il metallo. Vagò nella propria cella, camminando forsennatamente come un lupo famelico, finché i suoi occhi non si alzarono e videro la volta nera della gabbia: una lamina spessa e compatta, agganciata alle sbarre per mezzo di robusti bulloni, ma nessuna saldatura.
Attinse al più profondo dei suoi poteri e lo sprigionò, indifferente al chiasso che avrebbe causato.
Fus Ro Dah.
La struttura cigolò e tremò, i rinforzi s'incrinarono, ma non cedettero.
Sebbene il tempo necessario per rimpinguare le forze e invocare senza pericolo un nuovo Thu'um fosse considerevole, Dovah non se ne curò. Con quanta volontà vi era il lui, urlò di nuovo: due dei sei agganci si strapparono, gli altri fremettero. Tuttavia, si trovò ancora imprigionato.
La vista gli si appannava e le gambe cedevano. Gli pareva d'esser svuotato d'ogni energia e l'aria che riusciva a inspirare non era sufficiente a rinvigorirne il sangue, ma di nuovo invocò la furia della Voce e per l'ultima volta la sprigionò: finalmente la lastra si scardinò e come una foglia nella tormenta fu scaraventata lontano.
Sorrise con esaltazione, sebbene molte gocce di sudore freddo ne rigassero il volto. Avanzò d'un passo, ma il suo ginocchio s'afflosciò come uno stelo d'erba e lui cadde carponi. Cercò di rialzarsi, ma fallì. Arrancò fino alle sbarre e solo aggrappandosi ad esse fu in grado d'issarsi in piedi.
“Cal” chiamò di nuovo, ma la sua voce era troppo flebile, esausta quanto lui, e non sarebbe riuscita a riscuotere neppure la più insonne delle menti. Per un istante, fu tentato di abbandonarsi allo sfinimento, d'accasciarsi come il bambino e attendere che il suo corpo si rimettesse, ma se la carne del Dovahkiin era mortale e si sfiancava, altrettanto non poteva dirsi del suo spirito. Con sforzo inumano s'issò sulle sbarre e si gettò al di là di esse, rotolando malamente sulla fredda pietra, prima di fermarsi schiena a terra a pochi passi dalla sfera arcana.
Rantolò penosamente, issandosi su un gomito, e annaspò ai piedi della prima colonnina per privarla della gemma. Altrettanto fece con le altre e la protezione magica si estinse.
“Cal” mormorò il suo nome con speranza e paura. Il volto del bambino sembrava sereno e intatto. L'orbita destra sarebbe dovuta apparire sfregiata e vuota, invece la sua palpebra giaceva chiusa e distesa come l'altra, la pelle morbida e liscia, le ciglia integre.
Dovah ne carezzò la zazzera bruna, chiamandolo più e più volte, senza risultato.
“Cal, comprendo d'essere in ritardo, ma non punirmi per questo. Sii clemente con me”.
Il bambino respirava, seppur fiocamente e con gran lentezza, dunque vi era vita in lui, eppure il suo sonno pareva inscalfibile.
L'angoscia più cruda scosse le viscere di Dovah ed egli a fatica respinse la morsa del pianto che sentiva gravare sui suoi occhi.
Si sollevò in ginocchio: “Cal, ascoltami, l'incantesimo è infranto, sei libero. Riconosci la mia voce, non è vero? Ora, per favore... per favore, Cal, svegliati”.
Insistette a lungo e a lungo disperò di ritrovarlo, ma infine la costrizione della magia abbandonò il bambino che si contorse lievemente nel torpore, prima di aprire il solo occhio sinistro e puntarlo sonnolento su di lui. Impiegò qualche istante a riconoscerlo: “ciao” lo salutò infine in un alito appena accennato di voce.
Il petto di Dovah fu scosso da un breve colpo di risa. Una sola lacrima sfuggì al suo contegno: “grazie agli Otto. Grazie agli Otto, Cal” baciò la sua fronte “grazie agli Otto”. Lo strinse a sé con presa troppo salda e Cal cercò di ribellarvisi, ma non ne aveva le forze e dovette sopportare la sua morsa, ancora fremente d'un ancestrale terrore che poche volte Dovah aveva avuto modo di sperimentare nella propria esistenza, ciascuna di esse nelle sole ultime settimane.
Inalò un profondo respiro quando suo padre si staccò finalmente da lui per prenderne il volto tra le mani e guardarlo con apprensione: “come ti senti?”.
“Floscio” rispose soltanto.
Dovah scrutò i suoi occhi: il sinistro era aperto e vigile, il bruno terreo e intenso dell'iride brillava più vivido che mai; il destro, al contrario, era sigillato dalla magia indelebile apportatavi dalle brutali creature della notte che tanto s'erano divertite a mutilare il piccolo pur senza scalfirne il bel viso.
Si morse le labbra e la sua rabbia crebbe a tal punto che desiderò rimangiare la promessa data per tornare in quel bastione abbandonato dagli Otto e concludere ciò cui aveva dato inizio, ma fu solo un istante, un lieve cedimento nella gioia dirompente che era in lui: presto la consapevolezza di riavere Cal con sé tornò a dominare ogni sentimento e Dovah dimenticò il proprio rancore.
“Usciamo da qui” concluse e il grande entusiasmo quasi gli fece dimenticare lo sfinimento che gravava sul suo corpo.
Prese Cal in braccio e, solo quando fu in procinto d'alzarsi, s'avvide di quanto quel semplice gesto fosse proibitivo e terribilmente faticoso. Aggrappandosi tenacemente alla pietra grezza della parete, riuscì a ergersi, pur malfermo, sulle gambe e s'inoltrò nell'oscurità del profondo mausoleo.
Aveva rinunciato alla possibilità di sostenere un combattimento, dando sfogo a gran parte delle proprie energie, ma certo non era giunto a un tale estremo per volontà: la priorità di Cal aveva annichilito qualsiasi ragionevole pianificazione e ponderazione strategica, strappandolo da ogni logica riflessione, e ora si ritrovava a vagare in suolo nemico col bambino al seguito, ma completamente incapace di proteggerlo. Tuttavia, non potevano indugiare: dovevano muoversi e farlo rapidamente.
Dovah era consapevole d'aver lasciato Ebor solo ad affrontare molti nemici, eppure non era in pena per lui: non comprendeva appieno la sua natura, ma essa esulava dalle mere forze del Nirn ed era certo che qualche fanatico in armi non fosse sufficiente a causargli tribolazione.
Presto, tuttavia, altri furono i pensieri a turbare i suoi ragionamenti: dalla paura di vedersi aggredire senza possibilità di difesa, giunse a domandarsi perché non vi fosse un solo nemico ad ergersi sul suo cammino. Era stato imprigionato in mura pregne di potere arcano, dunque meritevoli d'essere ben protette e sorvegliate. Invece non v'erano che solitudine e silenzio.
Salì fin quasi in superficie e, più avanzava, più i suoi passi incappavano in corpi di cultisti riversi al suolo laddove molti draugr ancora attendevano passivamente accanto alle proprie tombe, vigili, ma indifferenti. Di certo, non avevano preso parte allo scontro.
“Voi non sapete spiegarmi cosa sia accaduto, non è così?” provocò Dovah, incrociando lo sguardo d'un Signore della Morte impettito e fiero, che respirava roco quanto un mantice e li seguiva con occhi fatui ormai svuotati d'ogni coscienza. Dentro sé, Dovah non credeva nella cruda rudezza che guerrieri e avventurieri attribuivano a quei morti inquieti: lui ne aveva affrontati molti e sapeva che vi fosse senno nelle loro menti. Erano guidati da spiriti ancora consapevoli, seppur malvagi.
“Cos'è, papà?” chiese Cal, il cui intorpidimento andava lentamente sopendosi e ora sembrava aver riacquistato gran parte delle proprie forze.
“Un nemico, ma abbiamo stipulato una tregua”.
“Come?”.
“Questo non lo so. Lo chiederai a Ebor”.
“Chi è Ebor?”.
“Se mai lo ritroveremo, lo scoprirai di persona”.
Cal svicolò tra le sue braccia e scese a terra. Con piglio fin troppo deciso s'incamminò verso il draugr e Dovah lo fermò agguantandolo per un polso, neanche fosse un'oca prossima a fuggire dalla stia. Lo trascinò verso di sé e il bambino si lamentò in un borbottio, massaggiandosi la mano con profonda offesa, quando l'ebbe libera.
“Perdonami, Cal” si scusò, conscio d'esser stato fin troppo grezzo “ma non sono innocui e non è il caso d'irritarli. Sta loro alla larga, intesi?”.
Cal annuì e accettò di proseguire con la mano di Dovah stretta sulla sua, di modo che qualsiasi gesto gli fosse pressoché precluso e mai una volta gli fu concesso di avvicinarsi a uno di quegli strani guerrieri dall'aria vecchia e macilenta, che non parlavano e non prestavano loro alcuna attenzione. Gli piacevano i loro occhi, brillanti e freddi come la neve che tante volte aveva visto cadere sulle strade della sua città. Molti pensieri, ricordi orrendi e spaventosi, cominciarono ad affollarsi nella sua mente, di nuovo lucida e libera da ogni torpore.
Dovah si sentì rivolgere domande che ne freddarono il sangue e che fino a quel momento non aveva pensato di dover affrontare, poiché era stato troppo preoccupato dall'evenienza di doversi arrendere alla perdita di Cal così come aveva accettato la perdita di sua madre per pensare a ciò che sarebbe seguito in caso d'un suo fortunoso salvataggio.
“Che è successo, papà?”.
“Chi sono queste persone?”.
“Cosa vogliono?”.
“Perché ci fanno questo?”.
E ancora.
“Dov'è la mamma?”.
“Le facevano del male: io l'ho visto. Sta bene, adesso?”.
Lui replicò bruscamente pur senza desiderarlo: “non ora, Cal”.
Non lo ascoltò: “dov'è Sofie?”.
“Al sicuro” finalmente ebbe modo di concedergli una risposta sincera e buona al punto da placare il battito secco e dolente del suo cuore “non preoccuparti per lei”.
“Sai, papà, è strano vedere solo per metà”.
Dovah sorrise con tenerezza, perché Cal pareva affrontare i torti a lui inferti con molto più spirito e prontezza d'animo di quanto lui stesso non fosse capace: “ti abituerai”.
Il bambino parve rabbrividire: “che male m'hanno fatto. Loro ridevano di me perché piangevo, ma come potevo non piangere? E se da una parte uscivano lacrime, dall'altra usciva sangue”.
“Cal” lo zittì e si sentì un inetto, poiché lui, veterano di molte battaglie, sopravvissuto a molte ferite, non riusciva a sopportarne l'ingenuo resoconto, mentre il piccolo tornava a quei ricordi senza paura.
Cal temette d'aver detto qualcosa di sbagliato: Dovah s'era fermato nel mezzo del cammino e teneva lo sguardo lontano da lui. Persino dalla sua bassa statura, riusciva a scorgere quanto corrucciato fosse il suo volto e quanto rigido il suo sguardo.
“Fermiamoci un poco, Cal. Siamo entrambi stanchi e fatichiamo a proseguire” sedette a terra, spalle al muro e, quando il bambino fu in procinto di accomodarglisi accanto, Dovah lo prese e lo adagiò sulle proprie gambe.
Cal si sentiva interdetto e vagamente stranito, perché suo padre si stava dimostrando fin troppo gentile e lui non era abituato a tante effusioni da parte sua: Dovah era sempre stato più estroverso nei confronti di sua sorella e, sebbene Cal fosse troppo piccolo per comprenderlo, vi era verità nella convinzione insinuatasi prima in Ysolda e poi, non appena fu matura a sufficienza da comprenderlo, in Sofie che, per un motivo o per l'altro, lui non avesse mai accettato del tutto quel figlioletto dal sangue misto.
Cal ricordava sua madre prenderlo in disparte, quando notava che con troppa insistenza i suoi occhi indugiavano su Dovah e sulla grande considerazione che questi aveva di Sofie, mentre minore era l'attenzione a lui dedicata: gli ripeteva che, non appena fosse divenuto più grande, anche a lui sarebbe stato insegnato a maneggiare la spada, a curare le ferite con la magia, a seguire le ombre per divenire leggero come la notte. Gli raccomandava d'avere “pazienza con papà, perché ti vuole un gran bene, ma ci sono strani fantasmi, giù nel suo passato più remoto fin su in quello più prossimo, che lo tormentano sempre e lui fatica a disfarsene”.
Pure, ecco che ora lo stringeva a sé come per proteggerlo da un gran freddo e Cal sentiva il suo mento premere contro il proprio capo.
Il sonno tornò a gravare sul suo solitario occhio di bruma, ma non era più quel sopore malsano e annichilente imposto dalla magia. Era piuttosto un tepore dolce e quieto, che lo faceva sentire caldo e al sicuro: “papà, dov'è la mamma?”.
Di nuovo il respiro di Dovah s'irrigidì.
“A Whiterun, Cal”.
“Perché?”.
“Perché quella era la sua casa, prima che venisse con me a Windhelm. Ti ho mai portato a Whiterun?”.
Lo sentì scuotere il capo.
“Ti ci porterò, Cal. È una bella città: pulita, semplice e c'è quasi sempre il sole”.
“La neve?”.
“Non c'è neve a Whiterun”.
“Che strano”.
Dovah sorrise, ma non v'era serenità in lui. Di nuovo si scusò: “perdonami, Cal, se sono arrivato tanto in ritardo. Ho fatto del mio meglio”.
“Non fa niente” sbadigliò e, coricatosi per bene tra le sue braccia, s'assopì.
Con grande fatica Dovah attinse ancora una volta al dono della Voce.
Laas ya nir.
Subito la vista gli si offusco, ma non per il potere del Thu'um, bensì per l'ennesimo sforzo imposto al suo corpo esacerbato. Infine, il mancamento passò e non vi furono ombre vermiglie a richiamare il suo sguardo, se non quelle di qualche cadavere vagante che, per una volta, non aveva interesse nel suo male.
Ebbe certezza d'esser solo e, suo malgrado, s'assopì con Cal.
 
  
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