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Autore: fiammah_grace    12/05/2018    1 recensioni
[Resident Evil: code Veronica X]
"Seppur la non fisicità di Alexia, la sua presenza era rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Nulla avrebbe avuto importanza per lui. Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Unica Donna, la sua Unica Regina. Persino se stesso.
Qualcuno tuttavia aveva osato disturbare la sua macabra attesa.
Claire Redfield. Il nome della donna dai capelli rossi che aveva invaso il suo cammino nel momento più prezioso. Il nome dell’infima donna che aveva sporcato l’universo perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel suo territorio.
Quella formica che gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare."

[Personaggi principali: Alfred Ashford, Claire Redfield]
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Alfred Ashford, Claire Redfield
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 22
 
 
 
La Regina: capitolo 01
 
 
 
 
 
A un cuore in pezzi
Nessuno s’avvicini
Senza l’alto privilegio
Di avere sofferto altrettanto.

(Emily Dickinson)
 
 
 
 
 
A un cuore in pezzi nessuno si avvicini senza l’alto privilegio di avere sofferto altrettanto, non lo faccia, non commetta questo errore. E’ nella natura umana tentare di simulare i sentimenti, la sofferenza, percepire empaticamente il dolore e patirne le pene anche senza esserne mai stato davvero scottato.
E’ necessario toccare il fuoco per sapere che brucia? Tagliarci un dito per sapere che fa male? Perdere un occhio per comprendere le truci difficoltà di un corpo mutilato?
L’uomo ha l’arroganza di sapere tutto; pensa di sapere cosa sia….il dolore.
Il dolore provato sulla propria carne, quel taglio deturpante che rovina per sempre la tua esistenza, quel momento di prova della vita che in un attimo può cambiare e distruggere tutto.
No, nessuno può avere davvero idea di cosa sia tale sofferenza. Solo chi patisce può comprendere, il resto è arroganza; pura e schifosa insolenza.
Che cosa orripilante questo mondo. Dietro i mari incantevoli, le montagne candide e innevate, il cielo azzurro, la natura selvaggia e gloriosa assieme alle sue creature viventi…si cela uno stagno lurido, immorale, disonesto; un pianeta indegno di essere chiamato tale, abitato da malvagità e scelleratezza.
La pallida donna dai lunghi capelli biondi posò di nuovo una mano sul capo di chi era l’unica persona che le aveva fatto vedere la delicata e dolce parte buona di quel mondo.
La sua cavalleria, la sua gentilezza, la sua empatia, la condivisione di quel mondo unico e inimmaginabile che solo loro potevano comprendere.
Egli era però stato ucciso. Era morto.
Il suo corpo era freddo e si faceva sempre più rigido man mano che le ore passavano.
Alexia continuò ad accarezzarlo. Era una scienziata, conosceva le fasi del rigor mortis, eppure si rifiutava di percepire quell’uomo come defunto. Lo sfiorava e lo contemplava con quell’inutile speranza di sentirlo riscaldarsi, di vederlo riaprire i suoi meravigliosi occhi chiari.  
Come era cresciuto…Alfred era diventato davvero grande. Assomigliava a suo padre, eppure la cosa non la infastidiva, al contrario era come se potesse ammirare la versione più bella, più limpida, più amorevole del padre che non aveva avuto. Avrebbe tanto voluto sapere su di lui, della sua vita passata in quei quindici anni senza di lei. Vederlo così diverso da come lo ricordava e non avere alcuna possibilità di sapere qualcosa di lui stava ampliando ancor più la voragine creatasi nel suo cuore.
Poteva solo immaginare quel pezzo di vita che nessuno le avrebbe mai restituito.
Osservò la sua divisa militare. Dunque era entrato nell’arma.
Fece scorrere le dita sui decori dorati, Alfred era veramente elegante vestito così.
Non le avrebbe mai raccontato com’era diventare adulto, quali erano state le sue gesta, come era stato il suo vissuto; v’erano tante cose di lui che non sapeva e che non avrebbe mai saputo.
Alexia lo strinse a sé, ma quel cuore non avrebbe mai battuto al suo orecchio. Restò seduta al suo fianco senza mai spostarsi, col corpo ancora umido e nudo; aveva freddo ma non le importava nulla.
Alfred era rimasto lì fino al giorno del suo risveglio, per quindici anni, da solo.
Si era addormentata che era una bambina e c’era lui davanti ai suoi occhi, il suo meraviglioso e leale fratello; ed ora che si era risvegliata ed era una donna, ancora una volta aveva rivisto i suoi occhi, pronti ad accoglierla. Egli era riuscito ad esserci sempre per lei, sempre.
Persino prima di perdere la vita, aveva deciso di dedicarle il suo ultimo sguardo. Aveva appena fatto in tempo a ricambiarlo che quella luce sparì invece per sempre.
Il minimo che poteva fare era quindi stare al suo fianco ancora, e ancora, incapace di spostarsi dal luogo dove aveva dovuto vedere spezzarsi la sua vita.
Puntò lo sguardo nel vuoto, restando col capo appoggiata al suo petto. Davanti ai suoi occhi non vedeva che rabbia e dolore.
Nessuno doveva avvicinarsi, nessuno doveva nemmeno provare a dire o fare qualcosa.
Nessuno aveva il diritto di farlo.
Nessuno avrebbe potuto intralciare ora quel cuore a pezzi. Nessuno.
Le uniche cose che potevano esistere erano solo la sua collera e la sua sofferenza.
Quel mondo…
…era solo un inutile, sporco e crudele mondo…
L’avrebbe distrutto…l’avrebbe spazzato via. Nessuno meritava di esistere ancora.
Il vuoto dei suoi occhi si stava facendo sempre più immenso, sempre più irraggiungibile.
Era la Regina di un regno già distrutto.
Sollevò di nuovo la mano e riprese ad accarezzare i pallidi capelli di Alfred.
 
Erano già quattro ore che si trovava lì; immobile.
 
 
 
 
[...]
 
 
 
 
Luogo sconosciuto – Claire Redfield
 
 
 
 
 
Il buio tetro. Silente.
Si tratta di una lieta quiete…oppure del preludio di un tormentato stato di tombale isolamento?
Ho paura…i brividi scorrono sulla mia pelle. Temo il momento in cui aprirò gli occhi.
Il mio cuore batte incessantemente, inquietato, come se riuscisse a vedere nonostante le mie palpebre serrate.
Mi manca l’aria, l’angoscia mi opprime. Sento tutto girare vorticosamente…
A poco a poco tutti i miei ricordi sembrano vicini e lontani allo stesso tempo.
La mia mente si sta confondendo, non mi sento padrona del mio corpo.
E’ come se fossi sommersa nelle profondità del mare, incatenata a una roccia. Vorrei scappare, muovermi, tornare a respirare…invece non riesco; e così lentamente cado in quegli abissi, lasciando impotente che quel dolore che mi ha immobilizzato affligga la mia mente.
 
…e di nuovo buio.
 
La giovane Redfield era pallida, non aveva un bell’aspetto. I suoi occhi erano gonfi, le sue labbra secche, il corpo dimagrito e sciupato; in più aveva freddo…tanto freddo.
L’ultima cosa che ricordava era il mostro dagli occhi bendati che aveva affrontato nella distesa nevosa…la sua agognata via d’uscita dai laboratori che con tutti i suoi sforzi aveva cercato di raggiungere; e che invece in quel momento non aveva avuto nemmeno il tempo di ammirare o di rendersi conto che fosse finalmente fuori da quella prigione.
In un piccolo e cruciale istante, la rossa era riuscita a scappare dai laboratori, tuttavia mai avrebbe immaginato in quel modo e soprattutto mai avrebbe pensato di desiderare tornare dentro con tale ardore. In quell’istante aveva desiderato così tanto di rivedere un’ultima volta Alfred Ashford da non aver fatto caso nemmeno di aver lasciato quel manicomio. No, non ci aveva pensato nemmeno un istante.
La sue mente non faceva che tornare alle segreta di quell’edificio dell’Umbrella, ai percorsi affrontati, ai pericoli scampati, alle minacciose b.o.w. sconfitte grazie all’aiuto del contorto giovane dai capelli pallidi.
Ripensava al suo sguardo crucciato, alla sua mente disperata, al tormento di quell’animo devastato dal dolore…e al calore che per un attimo aveva sperato di restituirgli.
Dal suo canto… lui… lo sapeva? Sapeva che era in pena per lui? Oppure si era sentito beffare dalla vita ancora una volta?
L’ansia di non sapere la crucciava, era un dolore lacerante. Il cuore non cessava di sbatterle in petto. Dischiuse gli occhi, faticando prima di riuscire ad aprirli.
Le sue palpebre erano pesantissime. Forse la b.o.w che aveva combattuto sulla neve l’aveva avvelenata? Cosa era successo?
Doveva rimettersi in piedi, nonostante gli affanni che provava. Doveva proseguire. L’innato istinto di sopravvivenza che aveva sviluppato oramai piuttosto bene, le aveva crudelmente insegnato quanto ogni minuto passato stanziando in uno stesso posto si traduceva nella possibilità di essere trovata dai mostri.
Si sforzò e riuscì a lentamente a tornare vigile. Scrutò con lo sguardo ancora appannato e osservò il soffitto, il quale era costituito da una profonda arcata simile a quelle di una struttura ecclesiastica. Era finemente decorata da un affresco di stampo classico, raffigurante degli angeli in una fitta vegetazione. Più avanzava con lo sguardo più il disegno assumeva dei toni scuri, suggerendo la sensazione di smarrimento, tipica di quando si ci perde in una foresta.
Recuperate un po’ di forze, si eresse col busto ed esaminò il resto del luogo; i suoi occhi catturarono però soltanto la pavimentazione lucida color avorio e le pareti bianche illuminate da una fioca luce artificiale; la stanza non era più di tre o quattro metri di lunghezza, sembrava di essere imprigionati in quattro mura strettissime.
Si piegò sulle ginocchia e un forte senso di smarrimento si impadronì di lei. Era probabilmente ancora sotto shock, di conseguenza quel risveglio in una stanza claustrofobica senza arredi né porte, né finestre, la fece sentire male.
Cercò istintivamente la pistola nella cintura dei suoi jeans, ma come immaginava era completamente disarmata.
Si alzò e costeggiò coi palmi l’intera muratura, sperando di sbagliarsi; chiunque si sarebbe sentito in trappola in una circostanza simile. In quello stesso momento ricascò a terra, urtando rumorosamente con le ginocchia; qualcosa l’aveva trattenuta.
Si voltò e sulla sua caviglia vi era una morsa che la ancorava ad una lunga catena di ferro. Seguì la ferraglia, la quale era avvitata sul fondo di un muro logoro.
Costatò che la lunghezza le dava sì la possibilità di muoversi e di ispezionare i pochi metri di cui era costituita la stanza, ma l’idea di essere prigioniera era inaccettabile.
Provò a tirare e notò che la porzione di muro su cui erano ancorati i bulloni sembrava piuttosto consumata. Strisciò dunque verso la morsa e provò a svitarla; la ruggine aveva purtroppo fatto il suo corso, ma era probabile che allentando le viti e tirando con veemenza la gamba sarebbe riuscita a liberarsi.
Digrignò i denti e per una volta la fortuna volle che quell’impresa fu più semplice del previsto; riuscì infatti a sganciare non solo il meccanismo dal muro, ma a portare via con sé anche una porzione di esso. Esultò internamente, sperando di riuscire a trovare qualcosa di utile dall’altra parte.
Si affacciò dal buco appena abbattuto ed effettivamente la stanza appariva così piccola perché un sottile strato di cartongesso l’aveva divisa a metà.
Si sdraiò di nuovo e con qualche calcio ben assestato allargò il varco, riuscendo così a lasciare quel posto.
Si ritrovò in una stanza similare alla precedente, altrettanto sgombra e trascurata, tuttavia v’erano in giro almeno un tavolino e diverse piccole cianfrusaglie, suggerendo l’idea che per qualche motivo chiunque l’avesse murata dall’altra parte aveva voluto tenerla lontana da quel lato della stanza.
Cominciò a ispezionare, doveva trovare qualcosa di adatto a sganciare la morsa ferrosa e la catena ancora fisse sulla sua caviglia. Per la morsa principale non poté far nulla, tuttavia trovò in un cassetto delle grosse pinze che utilizzò per allentare la giuntura della catena, in modo da non doversi portare dietro quel lungo e pesante groviglio.
Dové piegare il ferro a lungo prima di riuscire a modellarlo, ma alla fine vi riuscì e tirò finalmente un sospiro di sollievo.
Fece qualche prova di movimento e riusciva a muoversi liberamente, relativamente al fatto di avere una caviglia comunque stretta da un grosso pezzo di ferro; poteva però cavarsela senza grossi problemi.
Risolto il problema sulla sua mobilità, tornò a quello del suo stato di prigionia.
Fu solo l’esperienza a salvarla. L’esperienza di conoscere oramai i meccanismi di quel posto.
Anche quel lato della stanza era privo sia di porte, che di finestre; non v’era nulla, non era nemmeno ipotizzabile come fosse tecnicamente finita lì dentro; meno che un dettaglio che a un primo sguardo sarebbe parso trascurabile per chiunque, tranne per chi era abituato a quegli inghippi.
La figura di una donna intagliata nel muro aveva infatti già attirato la sua attenzione; lei conosceva molto bene quel passaggio segreto.
Solo chi aveva avuto l’occasione di imbattersi nelle trappole del palazzo Ashford avrebbe riconosciuto quel basso rilievo in pietra.
Premette su di esso, infatti, e questo si fece facilmente spingere in avanti, come una porta. Poteva proseguire liberamente, senza indugio. Sinceramente non ci pensò proprio a rimanere in quel luogo ulteriormente, così avanzò prima ancora di scrutare attentamente dove conducesse il passaggio. Si aspettava una copia della camera da letto dei due gemelli, in verità, ma così non fu.
Si trovò invece ad affacciarsi in un lungo corridoio, illuminato dalle fiammelle dei candelieri appesi alla parete, che col loro forte bagliore spezzavano violentemente il tetro buio di quella corsia abbandonata.
Si fece coraggio nonostante fosse del tutto mal equipaggiata per un’esplorazione al buio, ma non aveva alcuna alternativa; doveva proseguire.
Raggiunse l’estremità col cuore in gola, sperando di riuscire a fare presto il punto della situazione, tuttavia mai si sarebbe aspettata che abbassando la maniglia, avrebbe trovato dall’altra parte una passerella analoga alla precedente.
Si sentì sconcertata. Avanzò nuovamente, sbirciando di tanto in tanto alle sue spalle, non capacitandosi di ripercorrere una copia esatta del corridoio appena percorso.
Osservò lo stesso tappeto vermiglio, il quale sembrava avere persino la stessa usura; i candelieri che costeggiavano la parete; l’aria che si respirava e la porta posta dall’altro estremo.
Quando si trovò di fronte alla soglia d’uscita, il cuore le sbatteva in petto; aveva intuito ci sarebbe stato qualche inghippo, oramai poteva quasi prevederlo. Non si meravigliò quindi quando si ritrovò davanti lo stesso scenario, lo stesso corridoio da ripercorrere nuovamente.
Corrucciò il viso, sentendosi smarrita e presa in giro. Claire non credeva né alla stregoneria né al paranormale, si trovava certamente nel bel mezzo di un rompicapo da risolvere. Doveva esserci un modo per proseguire, doveva esserci una spiegazione logica.
Provò vari tentativi: attraverso di nuovo i vari corridoi, provando tutta una serie di combinazioni possibili, come ad esempio percorrere la strada due volte per via dei gemelli Ashford, o addizionando le cifre 1+9+7+1, la loro data di nascita, e ricavando così il numero di volte da attraversare.
Fece tutti i ragionamenti possibili ma si ritrovò solo a perdere tempo. Non demorse, almeno aveva la conferma che più che un “corridoio infinito” , probabilmente stava girando in tondo e v’era un sistema di collegamento fra questi creato per disorientare l’eventuale prigioniero.
Si concentrò e cercò di stabilire quanti corridoi fossero effettivamente, dovevano avere delle fioche differenze nelle quali avrebbe trovato la risposta all’enigma.
Mentre si affacciava verso i pochi elementi da analizzare, un’ombra si proiettò oltre la sua.
Claire distinse le gambe lunghe, le spalle dritte, la postura rigida di stampo militare.
Si voltò di scatto ma non c’era nessuno. Non poteva esserselo immaginato, quell’ombra…
Sembrava essere di…Alfred?
La sua bocca si deformò in un’espressione di amarezza e il suo cuore si chiuse a riccio.
Era ancora fortemente turbata per quanto successo, non si sarebbe sorpresa se la mente le stesse giocando brutti scherzi. Tornò quindi alle sue indagini.
Quel che la rossa Redfield non poteva sapere, era che davvero qualcuno la stava osservando; tuttavia stavolta non vi era la frenesia e il sadico diletto a guidare quell’ombra…ma la ferocia di un animale ferito e umiliato.
Come una belva che gioca in casa, teneva gli occhi puntati sul suo pasto, tenendosi pronto.
I suoi occhi azzurri fendevano l’oscurità, dopodiché in un attimo si dileguarono nascondendo la loro presenza.
Intanto Claire continuava le sue ricerche e finalmente notò qualcosa a cui prima non aveva fatto caso; mentre apriva e richiudeva le porte dietro di sé, era come se scattasse un qualche sistema di blocco.
Ripeté la manovra un paio di volte consecutive ed effettivamente v’era qualcosa di strano, così decise che stavolta avrebbe provato una tecnica diversa ovvero lasciare aperte le porte mentre passava.
Alla prima non andò bene, ma provò ogni possibilità: chiuse tutte, aperte tutte, aperte una sì e una no…e alla fine, quasi come un miraggio, finalmente dall’altra parte dell’uscio trovò un ampia sala buia e sgombra. Nessun corridoio.
Si sentì sollevata, ma l’esperienza le aveva insegnato che poteva essere passata dalla padella alla brace, per cui mantenne un atteggiamento prudente durante tutto il tempo.
Avanzò con passo lento, girandosi attorno. Non ne era sicura, ma sembrava essere finita in una sala da ballo.
Alzò gli occhi e osservò il lampadario di cristallo che splendeva per la sua preziosità nonostante il buio della notte.
La pavimentazione lucida rifletteva la sua figura come uno specchio, si meravigliava sempre di quanto quel Palazzo/Laboratorio abbandonato fosse a tratti in un completo stato di deteriorazione, a tratti ultra tecnologico e a tratti arredato e mantenuto sfavillante come un museo.
Nella sua bellezza però si celavano fantasmi sanguinari, pronti a perseguitare i loro nemici fino alla follia.
Claire esaminò una striscia di sangue che rigava quella magnifica pavimentazione; era incrostata e certamente abbastanza vecchia, ma ancor più importante significava che non era al sicuro.
Con la coda dell’occhio la stessa ombra intravista precedentemente fu di nuovo alle sue spalle, tradita stavolta dal riflesso delle piastrelle.
Distinse nitidamente la divisa da ufficiale scarlatta, la sua pelle marmorea e i suoi pallidi capelli biondi.
Entrambi ritrovarono i loro occhi l’uno sull’altro attraverso quel riflesso, fissandosi in un breve ma intenso istante.
 
“Alfred!!”
 
Lo chiamò, ma non fece in tempo a voltarsi che egli era già sparito.
Ansimò rattristata, stavolta certa si trattasse di lui. Non aveva preparato alcun discorso, né alcuna strategia. Il suo animo era a pezzi, il suo cuore crucciato. Avrebbe preferito che un abbraccio parlasse al suo posto, per dirgli quanto era in pena per lui in quel momento. Qualsiasi sua parola sarebbe stata vana, lo sapeva, ma era l’unico mezzo che aveva per sperare in un confronto. Lui la stava seguendo, si stava volutamente vendicando e divertendo con lei, rinchiudendola nell’ennesima trappola per topi.
Voleva che penasse, che soffrisse, ma non v’era bisogno. Sapeva già che lui era rimasto solo, di nuovo, e che in quel momento le loro posizioni erano ambigue.
 
“Alfred…ti prego…so che ci sei.”
 
Bisbigliò, ma l’eco di quella stanza risuonò abbastanza forte da far apparire quel tono un timbro normale. Aspettò qualche attimo, sperando di intravederlo nel buio, ma la desolazione più completa verteva in quella stanza; era certa tuttavia che egli fosse lì nascosto da qualche parte e che poteva sentirla.
 
“Voglio solo che tu sappia…che io….io non ti ho mentito. Non ti ho preso in giro. Tutto quel che è successo nelle ultime ore sono state reali. Io…” deglutì. “Sono spaventata, molto. Desidero però vederti. So che non c’è più molto da dire, io stessa non so più che fare…sono certa però che potremmo trovare una soluzione…assieme.
Non distruggere tutto di nuovo, lascia che ti aiuti. Per favore…non ignorarmi. Non far finta che io non sia nessuno. Alfred…”
 
Parole dette nel vento, lasciate sparire nel grembo indifferente del vuoto.
Era angosciante…faceva male…
Capiva il suo sentimento di abbandono, quel senso di disorientamento che l’avevano allontanato da lei.
D’altra parte però Claire si sentiva come aver costruito sulla sabbia; in quel momento era duro per lei accettare che i suoi gesti di comprensione e di affetto erano già stati dimenticati. Lei stessa negli anni aveva indurito molto il suo cuore, ma aveva cercato con tutta l’anima di dedicarsi al prossimo, di conferire a loro quell’amore che invece le era mancato nella vita; ce l’aveva messa tutta, ma era difficile anche per lei mettersi in gioco e lasciarsi andare; questo con persone comuni, figuriamoci con uomini controversi come l’Ashford.
Invece alla fine una parte del suo cuore si era fortemente legata a lui.
Prima voleva solo aiutarlo, adesso invece era qualcosa di molto più personale, non riusciva a venirne fuori mentalmente. Non voleva abbandonarlo, però lui la respingeva con tutto se stesso e le faceva male, la tormentava fino alla pazzia.
Eppure nemmeno per un secondo le sfiorò l’idea di rigare per la sua strada e dimenticarsi di lui.
Sospirò intensamente, probabilmente una scheggia della sua follia era penetrata oramai anche in lei.
Era diventata parte di quella storia nata nel tormento, costruita nel supplizio di quel palco buio e solitario. Soltanto che quelle parti erano reali, si trattava della loro storia personale e lei era decisa a non tornare indietro.
 
“Non dimenticarmi, Alfred. Io non lo farò. Te lo prometto.”
 
In quello stesso istante riuscì a scorgerlo nel riflesso di uno specchio dal vetro quasi del tutto opacizzato dalla polvere, in netto contrasto con la lucidità del resto della sala.
Egli stava aprendo una porta e stava andando via.
Claire gli corse dietro con tutte le sue forze, ma non appena tirò la maniglia dietro la quale era sparito, egli già non c’era più. Corse comunque a perdifiato, imboccando delle scale a chiocciola e inoltrandosi in quella prigione di cui non sapeva nulla.
Passò attraverso varie porte, varie stanze, come messe lì disordinatamente, scorgendo di tanto in tanto la sua figura. Lo richiamo più volte a voce alta, sperando che si voltasse almeno, fu costretta tuttavia a fermarsi quando davanti a sé si pararono delle robuste sbarre di ferro simili a quelle di una prigione.
Claire quasi vi sbatté contro, frenando a stento la sua corsa. In quello stesso istante una forte luce la colpì violentemente costringendola a riparare gli occhi.
 
“Ma cos…?” riuscì a dire a stento, che una voce ampli-fonica la interruppe.
 
“Sei davvero una donna cattiva.” disse un tono femminile e derisorio un po’ diverso dal solito, ma ugualmente riconoscibile per lei in quello di Alexia Ashford; sobbalzò sentendo Alfred recitare di nuovo la cruenta e complessa parte di sua sorella.
 
“Una crudele e spietata regina, odiata dal suo regno. Ecco cosa sei. Meschina…prepotente…egoista…”
 
Una forte scossa fece cascare la Redfield a terra, la quale dové sorreggersi fortemente alle sbarre per rimanere in equilibrio.
Si affacciò oltre di queste e sgranò gli occhi azzurri quando si accorse di essere sospesa nel vuoto; non solo.
La cella si stava muovendo, stava scorrendo su dei sottili binari sospesi in quella voragine buia.
Il sangue le si gelò quando vide approssimarsi a lei tutta una serie di altre prigioni, nelle quali erano rinchiusi centinaia di zombie famelici e insanguinati, tenuti ivi rinchiusi a marcire chissà da quanto.
Si schiacciò contro il lato più distante possibile da loro, sperando che una volta che le celle si sarebbero sfiorate, le loro dita ossute e cadaveriche non arrivassero ad arpionarla.
Suo malgrado, la cella si mosse davvero verso di loro, presto avrebbe assistito alla giostra più spaventosa della sua vita, l’ottovolante con panoramica sulla morte.
La cella girò e si posizionò fra quei due lunghi costoni ove erano imprigionate le b.o.w. e prese ad avanzare lentamente.
Claire fu costretta a mettersi in piedi spostandosi in una posizione più centrale possibile, mentre i non-morti pregustavano furenti quell’irraggiungibile pasto.
La luce puntata su di lei non l’aiutò a passare inosservata, così questi si avvinghiarono avidamente alle sbarre di ferro, facendo oscillare vistosamente sia la loro, che la sua cella. Non seppe come riuscì a mantenere la sua posizione, il cuore batteva così forte da sembrare fermo. Il suo sudore era freddo, la paura le faceva quasi mancare l’aria.
Sebbene fosse relativamente abituata agli zombie e a quegli orrori, la vista di tante bestie affamate di sangue, vogliose di cibarsi avidamente di lei, era spietata e insopportabile.
Claire si rannicchiò a terra, non sopportando più tale pressione psicologica; la cella intanto marciava inarrestabile in quello scenario mortale continuando la sua andatura rilenta. 
 
“Guarda come ti osservano. Ti amano? Ti bramano? O ti odiano…e ti temono? Cosa si aspettano da te, che sei stata così tanto cattiva con loro…? Non sei altro che una sciocca, una povera e crudele sciocca.
Pensavi di essere una regina..? Che potessi cullarti anche tu nelle tue ricchezze e regnare in un mondo alla tua altezza? Invece no, ai loro occhi, qualunque cosa avresti fatto, qualunque encomio, forza, prosperità, intelligenza, bellezza avessi mostrato, sarai sempre un mostro. Osservali bene, mia cara. Non sei che la Loro Regina Crudele.”
 
Intanto la cella superò quella lunga serie di prigioni e continuò il suo percorso sui binari.
La Redfield scrutò con la coda dell’occhio, cercando di intravedere quanto prima la prossima destinazione; fu però una luce a mostrarle dove puntare il suo sguardo. Sopra di lei si illuminò l’imponente riproduzione del ritratto di Alexia Ashford, il genio impareggiabile della nobile famiglia.
 
“Eccola, è lei…” disse quella voce. “Nulla è ciò che sembra, vero? Così bella…così fragile…così crudele…”
 
Subito dopo si accese una seconda luce che illuminò invece un ritratto sottostante, il quale ritraeva un bellissimo uomo in divisa: Alfred Ashford.
 
“Il tuo amato e ingenuo Re.” stavolta fece una lunga pausa compassionevole, come se non riuscisse a trovare le parole per descriverlo; Claire poté sentire quella voce sospirare sconsolatamente. “Avrei solo voluto che scegliesse di amare una regina diversa…”
 
Si sorprese di quella frase, cosa stava cercando di dirle? Non fu però nelle condizioni di analizzare a fondo quelle parole che la cella prese a correre ad alta velocità.
Claire sbatté di nuovo contro il ferro e si schiacciò contro uno degli angoli, impossibilitata a muoversi. Il vento le sbatteva in faccia, riusciva a stento a tenere gli occhi aperti.
Vide diverse immagini scorrere mentre il percorso andava avanti. Erano quadri di famiglia, tutti raffiguranti gli ascendenti e i discendenti della famiglia, le cui copie si replicavano all’infinito sul muro diventando però sempre più imbrattati di sangue…questo finché l’intero luogo in cui si trovava prese a puzzare di organico marcio, costringendola a portare le mani sul naso e la bocca.
I coniati di vomito cominciarono a prevaricarla, l’odore di cadaverina era nauseante; cosa diavolo stava succedendo?!
Infine la cella bloccò la sua folle corsa proprio di fronte un cadavere…un cadavere orribilmente deturpato, completamente ricoperto di sangue.
Distinguibile di lui, oltre un accenno di fisico, erano solo gli occhi chiari e i sottili capelli biondi. Il suo busto era lacero, spaccato a metà fino a vederne le ossa e parti di organi dilaniati, il resto del viso era invece irriconoscibile.
La cella si era bloccata per cui fu costretta a ritrovarselo di fronte molto a lungo, fino a notarvi le mosche che gli giravano intorno, i vermi che fuoriuscivano dalle sue carni, il micidiale ticchettio del sangue che colava da esso fino a toccare la superficie ferrosa sottostante.
Perché la stava costringendo a vedere tale atrocità?
Guardandolo più attentamente, si accorse di una frase incisa su un lato del fianco; Dies irae.
Significava…giorno dell’ira?
La cella prese a scorrere nuovamente e finalmente si fermò davanti una comune porta di legno. Anche le sbarre salirono verso l’alto lasciando libero il passaggio alla loro prigioniera.
Una concessione di libertà…o il passaggio verso il patibolo?
Alfred l’aveva chiusa in una cella per mostrale l’odio e la famelicità dei suoi nemici, parafrasando probabilmente la sua sofferenza, infine le aveva fatto sentire l’odore del sangue e della morte, preannunciandole il punto d’arrivo del giorno in cui la sua ira si sarebbe manifestata. Ciò voleva dire che erano di nuovo…nemici?
Era la morte che si nascondeva oltre quella porta?
L’amarezza si impadronì di lei, i suoi pensieri non riuscirono più a focalizzarsi su nulla; l’apatia prese il sopravvento, salvandola momentaneamente dal dolore interiore che in realtà la stava massacrando.
Aveva solo una scelta, ed era lottare e andare avanti. La morte avrebbe fermato ogni sua possibilità; anche quella di combattere quel fatale giorno del giudizio.
 
 
 
Dies Irae, dies illa
solvet saeclum in favilla
 
---
 
Giorno dell'ira, quel giorno che
dissolverà il mondo terreno in cenere
 
 
 
 
Claire scavalcò la cella, cercando di ignorare la voragine vertiginosa sotto di lei, e spinse il pomello della porta di legno; col cuore in gola l’attraversò e si ritrovò di nuovo all’interno del palazzo.
Scrutò in giro, sembrava essere un atrio.
Non v’era nulla ancora una volta, al di là di una enorme scalinata, in cima alla quale una figura a lei ben nota la stava attendendo.
Un fascio di ombra gli oscurava il suo viso, il che sembrava proprio simboleggiare il buio che verteva fra loro, quell’incoscienza riguardo chi fossero e cosa sarebbero stati da quel momento in poi.
La rossa si posizionò perpendicolarmente sotto di lui, tenendo i suoi occhi fissi, cercando di capire se lui la ricambiasse con altrettanto vigore, tuttavia quell’ombra le impediva di specchiarsi nelle sue iridi.
Egli era adagiato sul parapetto, con le braccia che si appoggiavano leggere l’una sull’altra con fare completamente rilassato; le sue mani penzolavano noncuranti ed egli non mostrava alcuna intenzione di fare o dire qualsiasi cosa; intenzioni medesime anche di Claire, che non voleva essere la prima a prender parola fra i due.
Di parole ce n’erano state anche troppo.
Eppure, nonostante si sentisse abbastanza sicura di sé avendo affrontato l’Ashford in diverse circostanze, stavolta qualcosa era diverso; si sentiva inquieta.
A un certo punto l’uomo si spostò dalla sua posizione e lasciò leggiadro la balconata inoltrandosi al piano superiore. Nel mentre dei suoi movimenti, la Redfield riuscì a scorgerne il viso, focalizzandosi sui suoi nostalgici occhi azzurri, i quali la fecero trasalire.
Non seppe perché ma quello sguardo fugace fu capace di turbarla fortemente.
Fu una sensazione difficile da metabolizzare, eppure l’agitazione che sentiva in corpo era reale ed erano stati quegli occhi furenti a comunicargliela; occhi meravigliosi, apparentemente tranquilli, nelle cui profondità ardeva un fuoco malvagio però che non aveva mai visto in lui, che invece le aveva sempre trasmesso piuttosto follia e malinconia; era come se non vi avesse riconosciuto il suo solito viso… era… era diverso.
Cercò di scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione, non aveva senso continuare a indugiare, doveva piuttosto corrergli dietro e mettere la parola fine a quella prigionia. Sia sua che di Alfred.
Corse quindi su per le scale, ma oramai il biondo era sparito; durante i loro ultimi incontri, appariva e svaniva come un fantasma. Era pur vero che lui giocava in casa, ma era davvero possibile muoversi con tanta agilità?
Claire non aveva né il tempo né la lucidità per trovare una ragione più razionale, riuscì solo a dedurre che lui voleva attirarla e che quindi doveva star bene attenta a non cadere nelle sue trappole; non era ancora così stupida da farsi ingannare tanto facilmente.
Tuttavia doveva ammettere che stavolta aveva paura, molta, in quanto teneva a lui e avrebbe fatto qualsiasi cosa per non fargli del male.
Tirò verso di sé l’unica porta presente al piano superiore ed ebbe quasi un mancamento quando si frenò a stento notando che dall’altra parte non c’era…nulla!
 
“C-Cos…?”
 
Scrutò meglio, aveva pur sempre visto Alfred sparire in quella direzione, doveva quindi essere passato di lì per forza.
Sbirciando sotto di sé, notò che v’era un’apertura che portava al piano inferiore. Poteva calarsi, non era tanto profondo.
Si piegò a terra, dunque, e fece scivolare il suo corpo con attenzione, rimanendo appesa solo con le braccia; dondolò i piedi e già sfiorava quasi la pavimentazione sottostante, serviva solo un piccolo salto…un atto più di coraggio che di effettiva difficoltà.
Non indugiò molto e proseguì, sperando di non starsi cacciando nei guai.
Una volta atterrata, si apprestò a cercare l’Ashford, ma a quanto pareva aveva già lasciato quel luogo.
Si ritrovò in una sorta di sala d’aspetto, doveva essere l’entrata al di là del massiccio portone di legno presente nella stanza precedente, poteva quindi forse aprire la porta dall’altro lato.
Al centro della stanza v’era una enorme statua, raffigurante una donna che sorreggeva una brocca. Istintivamente si arrampicò su essa, intravedendo al suo interno un foglietto di carta.
Allungò le dita e dopo qualche sforzò riuscì a raggiungerlo.
Trasalì quando vi trovò la riproduzione della mappa del palazzo, tuttavia completamente sbiancata da qualche agente chimico e quindi illeggibile oramai, con su scritto una parola a lettere cubitali: “CATTIVA”.
In quello stesso istante un forte fumo si propagò nella stanza costringendola a mettersi al riparo al più presto; cominciò a trovare leggermente irritante tutte quelle volte in cui la stava etichettando come “cattiva”, era un atteggiamento molto infantile.
Riflettendoci, non aveva fatto che ripeterlo da quando si erano rincontrati e con una certa insistenza.
Chiuse intanto una porta alle sue spalle, l’unica che trovò aperta.
Mai si sarebbe aspettata che dall’altra parte v’era proprio lui, il Re tenebroso di quel gioco della follia.
Se lo ritrovò a meno di un palmo da lei, immobile, con una postura perfettamente in riga e uno sguardo gelido.
Gli sbatté quasi contro, non potendo aspettarsi di trovarselo davanti in quel modo.
Lui invece la stava aspettando… sì…con estrema e logorante pazienza.
Prima che la Redfield potesse accorgersene, egli alzò una mano con fermezza e solo sull’ultimo la rossa notò che sorreggeva una pistola.
Fece in tempo soltanto a sgranare gli occhi e ad udire lo sparo che da lì a pochi secondi le fece perdere i sensi.
 
 
 
[...]
 
 
 
 
“Sei cattiva…”
 
“Davvero Cattiva…”
 
“Sei una crudele ed egoista Regina.”
 
 
 
 
Claire Redfield riprese lentamente conoscenza, una voce echeggiava nella sua testa dolorante, ripetendole sempre quella frase, con la medesima ossessione; non faceva che ribadire sempre la stessa parola, senza mai interrompersi.
Si svegliò cullata da tale crudele ninna-nanna. Intanto la sua testa girava…girava…girava vorticosamente.
Cosa le stava accedendo?
 
“Cattiva…”
 
“Cattiva…”
 
“Cattiva…”
 
 
 
 
Basta!!
Non ne posso più!!
 
La mia testa…
…fa male…!
 
Smettila!
 
 
 
 
“Cattiva…”
 
 
 
 
 
Claire perse nuovamente i sensi, intorpidita da un profondo malessere interiore che non la faceva tornare padrona di sé; le sue gambe erano pesanti, i suoi occhi gonfi, l’emicrania era violenta; questo mentre quella voce continuava a martoriarla, incurante di tutto.
 
Passarono minuti, ore e ore forse, non riusciva a stabilirlo; non faceva che svegliarsi e addormentarsi, passando lunghi momenti di solitudine e altrettanti con quelle parole orribili nelle orecchie, come se le volessero fare il lavaggio del cervello.
 
L’intorpidimento che aveva in corpo era tale da non permetterle di fare altro che soffrire…soffrire ininterrottamente.
 
Fece leva sulle braccia, cercando di mettersi faticosamente in piedi, trovò tuttavia resistenza all’altezza dei polsi. I suoi occhi erano ancora appesantiti, per cui faticò a gestire la sua lucidità; ben presto però quella sensazione le fu familiare.
Si accorse di essere accomodata su una poltrona morbida di velluto, e che all’altezza dei polsi e delle caviglie v’erano delle morse rugginose che la tenevano immobile. Era di nuovo prigioniera.
In quello stesso istante percepì una porta aprirsi in lontananza. Scrutò con lo sguardo appannato ma non vide nessuno, solo in un secondo momento istintivamente alzò gli occhi e distinse dietro di sé una figura vestita con una giacca rossa. Claire tuttavia non riuscì a mantenere oltre la sua attenzione che perse i sensi, cadendo in balia di quel malessere nauseante che la stava prosciugando.
 
A lei…
…quella sensazione…
…quel senso di impotenza…
…il dimenticarsi lentamente di tutto…
…la prigionia e l’isolamento più assoluto…
…tutto questo…era già accaduto.
 
Perché? Perché Alfred aveva deciso di imprigionarla di nuovo?
Perché in quel modo?
 
Disorientata, lo vedeva entrare fugacemente nella stanza, sussurrarle quelle parole, e poi andar via; come se lei fosse un’altra persona, come se non fosse accaduto assolutamente nulla da quel giorno in cui era fuggita dalla stanza in cui lui l’aveva relegata molto tempo addietro… agli albori di quel tragico inizio che però fu l’esordio del loro avvicinamento.
 
Gradualmente riuscì a distinguere il suo profilo, i suoi tratti delicati, la sua pelle chiara, ma non vi vedeva più quegli occhi affranti che aveva imparato a comprendere; intravedeva invece un volto carico d’odio e di disprezzo, mascherato dalla sua delicata faccia d’angelo.
Alfred stavolta si piegò su di lei e le accarezzò il viso col dorso della mano, un gesto che Claire trovò fastidioso dopo tutto quel tempo che egli aveva passato a ripeterle che era “cattiva”.
I narcotici che le aveva somministrato le impedivano di avere una qualsiasi reazione, ma era certa che lui potesse comunque leggere nitidamente il suo disprezzo.
Egli abbozzò un sadico sorriso, le sue labbra si allargarono avidamente, subito dopo sollevò la mano e colpì la rossa con veemenza.
La Redfield sentì la sua guancia bruciare, fino a quel momento non era mai successo che egli arrivasse a farle del male con le sue mani.
Gli mostrò i suoi occhi lucidi, ma la sua vista appannata e la mente anchilosata rallentarono crudelmente i suoi movimenti. Intanto lui sollevò l’altra mano e colpì l’altra guancia, continuando a ripetere il movimento più e più volte.
In poco tempo la ragazza ebbe il viso in fiamme, ma non riuscì in nessun modo a ribellarsi.
Nemmeno le lacrime poterono sgorgare dai suoi occhi, tanto si sentiva depressa…e umiliata.
Umiliata per i suoi inutili sforzi, per quanto l’avesse presa in giro, per quanto fosse stato tutto un amaro gioco violento senza speranze….
 
“Crudele e avida Regina, sola e dannata da un dono inestimabile, che ti ha dilaniato fino a trasformarti in un essere privo di cuore.”
 
Perché le stava parlando così?
Claire non riusciva a capire, il suo cuore sbatteva in petto, non trovando risposte ma solo dolore.
Intanto Alfred cominciò a girarle attorno, come una pantera bramosa.
 
“Quanto dolore ho patito? Quanta immensa solitudine ho attraversato in onore a un destino che solo tu potevi compiere. Tu soltanto, mia amata Regina.” Sospirò in silenzio. “Quanto sono stato sciocco…quanto ho dovuto perdere…per poi avere che cosa?”
 
Si fermò e si inginocchiò davanti a lei, poggiando le mani sul suo grembo. Fu in quel momento che Claire riuscì finalmente a vederlo in viso, a specchiarsi nelle sue malinconiche iridi infrante.
 
“Guarda…guarda, ho detto!” e le afferrò il viso. “Hai…distrutto…tutto. Non vedi cosa hai combinato?”
 
I suoi occhi afflitti volevano trafiggerle l’anima, trasmettevano una tale rabbia interiore che cominciò a sentirsi spaurita. Guardandolo da quella corta distanza si accorse di non riconoscerlo affatto.
Egli…non era Alfred…
Era qualcuno che gli assomigliava moltissimo…ma non era lui; oppure cosa gli era successo? Per quale motivo era ridotto così? Cosa l’aveva addolorato fino a quel punto?
Non riuscì a comprendere più nulla.
Ebbe l’amara sensazione che quell’uomo non stesse nemmeno parlando con lei, che vedesse tutt’altra donna davanti ai suoi occhi.
Egli le strinse le dita delle mani fino a farle male, costringendola a mugugnare di dolore, superando quella sensazione di pesantezza che sentiva addosso e che le aveva impedito di manifestare esplicitamente il suo malessere fino a quel momento.
Sentì le ossa scricchiolare, poteva avvertire l’intensità dei sentimenti di Alfred in tutto il suo corpo.
Tutto a un tratto la lasciò andare e si rimise in piedi. Con un dito le sollevò il mento costringendola a guardarlo.
 
“Cosa ne pensi? Sei contenta…oh, mia Regina?” disse con voce sottile. “Goditi il regno che hai distrutto con le tue stesse mani, gioisci dell’inferno in cui hai deciso di svegliarti, ammira la potenza che d’ora in avanti ti sarà attribuita da queste ceneri funeste. Adesso che hai tutto quello che hai sempre sognato…onore e gloria a te, oh, mia Regina.”
 
Girò i tacchi e se ne andò con passo lesto, facendole quasi perdere l’equilibrio.
Claire lo seguì con lo sguardo fino a che la vista glielo permise; la nausea si fece più forte, dovette deglutire più volte pur di non vomitare. La sua mente era confusa e terrorizzata. Temeva sia per Alfred che per se stessa…eppure non poteva far a meno di pensare che c’era qualcosa di sbagliato.
Lei…Lei non era Claire in quel momento.
No, stavolta era diverso. Era esattamente il contrario.
 
Alfred…lui…stava parlando con Alexia.
 
Passò molto più tempo da sola stavolta; ovviamente non aveva modo di stabilire quanto, ma rimase seduta su quella poltrona in completo silenzio molto a lungo.
Abbastanza da poter finalmente tornare padrona di sé.
Quel senso di stordimento era lo stesso che all’inizio di tutto le aveva fatto perdere conoscenza di se stessa…trasformandola nell’adorato genio della famiglia Ashford.
Sì, adesso ne era certa, ricordava ancora molto bene quella sensazione.
Attualmente non vaneggiava a tal punto da non rammentare chi fosse, nei suoi ricordi vigevano ancora i suoi ricordi quindi era in tempo a riprendere in mano la situazione.
Cosa era accaduto? Come era finita in quel modo?
Scrutò faticosamente intorno, mentre la testa girava vorticosamente non permettendole ancora la lucidità che sperava; non riconosceva il luogo, ma era sicura di trovarsi ancora nei laboratori dell’Umbrella.
Stavolta non era stata rinchiusa in una stanza sgombra illuminata solo da una finestra; era invece in una copia perfetta della camera dei gemelli Ashford; la stessa che aveva ritrovato riprodotta un po’ dappertutto, sia nei laboratori che a Rockfort.
Lo sguardo cadde sulle sue gambe, coperte da un sottile raso pregiato che alternava un viola intenso a un viola più scuro. Indossava di nuovo l’abito di Alexia.
Sbirciò verso le sue spalle e una cascata di capelli biondo pallido scendevano fin sul petto.
Poteva già immaginare cosa fosse accaduto frattanto, egli doveva essersi arrabbiato e la devastazione doveva aver fatto cadere nel dolore nuovamente il suo spirito ferito.
Era relativamente comprensibile per lei giustificarsi quella reazione. Tuttavia stavolta il suo atteggiamento nei confronti dell’onorata sorella era stato molto diverso.
Egli l’aveva disprezzata, offesa, l’aveva persino colpita…
Chi stava lacerando il suo cuore in quel momento, dunque?
Alexia…oppure Claire?
Perché era diventata di nuovo la sua “Bambola”? Perché aveva deciso di sfogare la sua rabbia travestendola da colei che più amava al mondo?
Si sentiva confusa, era certa che stava per scoprire qualcosa di nuovo sulla sua personalità e la sua tortuosa storia con l’idolo della sua famiglia.
Segreti arcani e maledetti si celavano dietro la figura di Alexia Ashford, qualcosa che era stato portato allo scoperto e che lui stava sfogando su di lei, come già aveva fatto all’epoca.
Doveva stare attenta, stavolta non era oggetto del suo amore, ma di una profonda e sconosciuta collera.
 
Non era La sua Unica Donna, l’Unica Regina. Ora…era La Crudele Regina.
 
Un’inversione di ruoli che aveva dell’inverosimile, e che per lei significava in quel momento solo una cosa: doveva scappare. Prima che perdesse definitivamente coscienza di sé e lui potesse trasformarla nella sua bambola dei divertimenti, da giostrare nel suo teatro dell’orrore.
Alfred era ferito, lo sapeva, e voleva ancora aiutarlo; tuttavia per farlo doveva prima di tutto prepararsi ad affrontarlo e venire a fondo di quella circostanza.
L’ultima volta riuscì a liberarsi stando al suo gioco, rievocò; finse di essere davvero Alexia e così lui la liberò dalle morse ferrose di sua spontanea volontà.
Si chiese se il trucco avesse funzionato anche stavolta, anche se aveva qualche dubbio.
Egli aveva qualcosa di profondamente diverso dal solito; fin da quando l’aveva intravisto la prima volta dopo la sua disfatta, si era accorta che era come non fosse più lui.
Non era difficile ipotizzare un suo crollo psicologico, però sentiva un forte senso di inquietudine in corpo, più forte del solito.
Quell’Alfred………………era pericoloso. Davvero pericoloso. Il suo istinto urlava, le imponeva di non ignorare tale sensazione.
Lui…non era l’Alfred Ashford che aveva conosciuto.
Era accaduto qualcosa…e lei doveva scoprire cosa.
Come se l’avesse chiamato col pensiero, il biondo entrò nuovamente nella stanza.
Era buio, le luci erano spente.
Egli sorreggeva una candela in mano, che poggiò sul comodino adiacente. In seguito si approssimò a lei, come faceva di solito.
Ultimamente il suo divertimento preferito era schiaffeggiarla, fino a gonfiarle il viso; il suo labbro inferiore si era spaccato l’ultima volta, sentiva ancora il sapore salmastro del sangue raggrumato ogni volta che lo sfiorava con la lingua.
L’ex comandante del centro d’addestramento dell’Umbrella si sedette sul suo letto a baldacchino e prese a osservarla da lì; stette immobile diversi secondi senza fare nulla.
Claire alzò gli occhi verso di lui, incerta; voleva mettere in atto il suo piano, eppure in quel momento si sentì mancare, qualcosa la bloccava.
Sentiva dentro di sé una sensazione d’allerta mai sentita, era confusa da tali sentimenti. Anche nei momenti più tormentati, le era bastato un attimo e aveva sempre poi ragionato e deciso con mente fredda.
Quell’Alfred invece riuscì a propagare la sua aurea nera fin dentro di lei, come un veleno tossico, altamente nocivo.
Le sue preoccupazioni furono presto interrotte da un tenue canto.
All'improvviso dalla bocca di Alfred uscì una voce melodica, dolce, molto malinconica….e femminile.
L’aveva sentito imitare un timbro vocale muliebre più e più volte, ma mai era capitato proprio davanti a lei e nelle sue spoglie da uomo.
Egli intonò le tristi sorti del Re protagonista della lullaby con cui spesso parafrasava la sua vita e le sue pene. La storia del Re Alfred e della Regina Alexia.
 
There was a friendly but naive king, who wed a very nasty queen. The king was loved but the queen was feared…
 
Alfred si fermò e posò i suoi occhi su di lei; Claire ricambiò il suo sguardo. Le parole le uscirono di bocca senza nemmeno rendersene conto.
 
“Cosa è successo…Alfred…?” disse con un filo di voce la rossa, guardandolo con tristezza, non riuscendo ad accettare quella regressione, quello stato mentale così leso e vendicativo.
 
“Sei stata cattiva.” ripeté lui, serio e fermo sulla sua posizione.
 
“Perché sono stata cattiva?” chiese a quel punto, sempre più consapevole che stesse parlando ad una ipotetica Alexia.
 
“Lo sei. Lo sei sempre stata.” seppe solo ripetere lui.
 
A quel punto Claire decise di prendere il toro per le corna e mettere in chiaro quel che pensava; basta recitare, oramai era stanca.
 
“Alexia è sempre stata la tua ancora, il tuo gioiello, il tuo ricordo più caro e prezioso. Perché adesso è cattiva?”
 
Alfred abbozzò un ghigno che inquietò la rossa, la quale non seppe assolutamente cosa aspettarsi.
L’uomo intanto si sollevò dal letto e scivolò verso di lei, muovendosi come una serpe.
Claire notò che era molto più magro e sottile del solito, anche le sue spalle erano rimpicciolite, così come in generale gli cadevano le vesti militari; era fin troppo sciupato.
Egli passò una mano fra i capelli biondi, scostando una ciocca che frattanto gli era caduta sul viso.
 
“Tu che ne sai…cosa ne puoi sapere? Un’inutile, piccola e sporca formica come te…cosa ne può capire della storia e la Potenza di noi Ashford!”
 
Allargò le braccia e il suo tono di voce si fece molto più grave, quasi come ci fosse una platea ad ascoltarlo.
 
“Ho fatto una scelta, ho immolato il mio corpo e la mia vita, pronta a diventare la padrona assoluta di questo mondo lercio popolato da indegni.
Col mio potere avrei dominato le menti di voi tutti portando l’umanità a uno stadio evolutivo avanzato che mai avrebbe potuto raggiungere da solo.
Ma voi…voi stolti fratelli, non avete fatto che distruggere…e distruggere tutto! Ed ora…eccomi, non sono che la fatale e crudele Regina che vaga solitaria. Capisci?
Mi avete tolto tutto. Ma vi sbagliate, non è così. Il mio sacrificio non è stato vano…io ho accolto il mio potere, vive dentro di me. Ed io vi annienterò, uno ad uno, cominciando da chi mi ha fatto del male!”
 
Claire osservò quel delirio, impotente, con gli occhi spalancati, non sapendo cosa fare. Chi era la persona davanti a lei? Cosa stava succedendo?
 
“…a partire da te, mia amara e cara Alexia, ahahah!!”
 
“Chi sei?! Tu non sei Alfred Ashford….cosa è successo??”
 
Oramai non era più padrone di sé; l’uomo di fronte a sé rideva follemente, caduto nella pazzia.
Il suo tono tornò a imitare quello della losca sorella gemella, nella quale lui si rifugiava quando era oppresso.
Nei suoi occhi vigeva uno squilibrio mentale che la sconvolse completamente, non riuscendo neppure a farle riconoscere l’uomo che aveva imparato a comprendere meglio; stavolta era diverso, era completamente folle.
Egli rideva di gusto, la guardava con insofferenza senza la minima intenzione di ragionare con lei.
Elogiava e malediceva Alexia, impersonandola lui stesso, ma allo stesso tempo disprezzandola.
Da una parte lui interpretava Alexia, la Regina gloriosa e funesta; dall’altra aveva vestito anche Claire da Alexia, la quale ed era invece la Regina Cattiva.
Erano Alexia…contro Alexia.
Non riusciva a venir capo di quell’enigma che ancora una volta avvolgeva la controversa figura della donna dai lunghi capelli biondi, sentiva però di essere nel mezzo di un disastro mentale che aveva sconvolto decisamente l’altolocato comandante.
Se era davvero lui…
La Redfield prese a dondolare con tutte le sue forze con la speranza di cappottare la poltrona e scappare in qualche modo; fu l’unica cosa che l’istinto le suggerì di fare.
Il delirio dell’Ashford era tale da renderlo più irriconoscibile, si chiese dove fosse finito il ragazzo col quale era riuscita finalmente ad approcciarsi; quella risata acuta e malsana, il viso adirato, la penombra che rendeva cupa la sua figura…fu una scena agghiacciante.
Riuscì in fine nel suo intento. Cadde rovinosamente sul pavimento e gli ingranaggi si rivelarono fragili come immaginava; infatti una maniglia si aprì in due e grazie a quel capitombolo riuscì a liberarsi subito un polso.
Con l’altra mano giocò col meccanismo dell’altra chiusura, decisamente più arrugginita e rigida.
Non sapeva se l’aveva fatto apposta o era stato incauto, fatto stava che bastò tirare energicamente una stecca di ferro che univa le due parti per smanettarsi. 
Toccava ora alle caviglie, ma a quel punto il biondo portò di nuovo le attenzioni su di lei, rinvenendo dal suo lungo delirio.
 
“Vuoi scappare…eh? Povera sciocca…non puoi fuggire dalla bara che tu stessa hai creato. Hai sacrificato i tuoi anni migliori, sorella mia. Ora vuoi andartene? Ora che la tua festa funebre è cominciata, finalmente? Quanto sei ingrata…disdegnare il mio sacrificio, i lunghissimi e interminabili quindici anni in cui sono rimasto ad attenderti. Che crudele…crudele…crudele Regina.”
 
Claire riuscì ad allontanarlo da sé sferrando un vigoroso calcio; nel farlo si ferì la caviglia ma al contempo almeno si liberò anche dalla morsa.
Ignorò il dolore di quel taglio e sgattaiolò via dalla stanza, via da quella follia, via da quei spietati deliri.
Questo mentre sentiva ancora sogghignare di gusto la persona dall’altra parte della stanza. L’uomo mentecatto e distinto che pensava di poter aiutare, del quale aveva toccato il cuore, e che adesso stentava a riconoscere del tutto.
Non faceva che vedere riaffiorare nella sua mente il suo viso, non capacitandosi di nulla; era convinta di non sbagliarsi, che per quanto somigliasse all’Ashford da lei conosciuto, egli non fosse lui.
Come poteva però non esserlo? Era comunque…identico. Diverso…ma…identico.
Era il suo viso, i suoi tratti….ma non i suoi occhi.
Poche differenze, ma abbastanza evidenti da averle innestato quel dubbio.
La sua mente era in panne, non sapeva che pensare; in quel momento si ritrovò soltanto a correre con tutte le sue forze, disperata.
Il tappeto attutiva i passi dei suoi piedi nudi; sollevò la lunga gonna con una mano portandola tutta di lato, scoprendo interamente le lunghe gambe pallide; la parrucca dai sottili filamenti dorati scivolò dalla sua testa, rivelando la sua reale chioma rosso-castano.
Era di nuovo…l’inizio di tutto.
 
Nella camera da letto dei gemelli Ashford intanto, l’uomo presentatosi a lei sotto le spoglie di Alfred Ashford ripose in ordine la poltrona elegante; la prese per lo schienale e la mise in piedi.
Posò una mano sul collo, massaggiandolo, dopodiché da sotto il colletto della giacca tirò su una lunga coda di cavallo, nascosta abilmente tra le vesti.
Tirò via l’elastico che teneva uniti i capelli e passò una mano fra essi, movimentando la lunghissima capigliatura platinata.
Sorrise.
 
“Il mio nome è Lady Alexia Ashford, e nel nome mio e di mio fratello, ci vendicheremo di tutti. Nessuno resterà vivo. Ahahahah!”
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
NdA:
 
Salve e grazie per essere arrivati a leggere fino a questo punto. Da questo capitolo in avanti seguirà una nuova fase della storia. La fase della Regina.
Quando immaginai questa storia, mi chiedevo se sarei arrivata davvero a scriverla fino a questo cruciale momento in quanto desideravo a un certo punto aprire il sipario su di lei…il genio della famiglia Ashford: Lady Alexia.
In questo capitolo la donna ha cercato di impersonare Alfred, vivendo attraverso di lui il disprezzo verso se stessa, verso quel che ha perso, verso la solitudine e la morte nella quale si è risvegliata.
Diventa così la Regina Cattiva, la Regina che per suo egoismo ha lasciato Alfred morire. Dunque traveste se stessa da Alfred, e invece veste Claire da Alexia; questo proprio per punirla, per rinfacciare quanto era stata “cattiva”, rivolgendosi dunque in modo emblematico e contorto sia a Claire, come vittima del suo sfogo, ma anche a se stessa.
Intanto però nelle sue vene scorre la potenza che ha raggiunto tramite il T-Veronica Virus, che l’ha resa la padrona di quel mondo, oramai pronta a distruggerlo e dominarlo. Quindi diventa sia un Alfred ferito e arrabbiato con Alexia (interpretata da Claire), sia l’Alexia Regina e vendicativa, sia la donna sola e fragile abbandonata da tutti, al cui risveglio ha ritrovato solo morte.
Questi sentimenti saranno comunque abbondantemente spiegati all’interno della storia, almeno lo spero!
Un po’ di “confusione” è voluta proprio perché ritengo che questo gioco fra le parti contribuisca al fascino dei gemelli Ashford.
Vi lascio quindi nelle meravigliose e vendicative mani della Regina…!
Grazie per il sostegno di tutti coloro che mi leggono! Grazie davvero!
Un abbraccio!
 
Fiammah_Grace
 
 
 
 
 
  
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