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Autore: Piperilla    15/05/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Era trascorsa una settimana da quando Vera aveva visto Vittorio per l'ultima volta e, anche se non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, iniziava a essere preoccupata: dopo che Vittorio aveva litigato con sua moglie e se n'era andato, la ragazza non l'aveva più visto né sentito e, considerata la frequenza con cui si incontravano di solito, tutti quei giorni di silenzio assoluto l'avevano messa a disagio. Così quel giovedì, dopo aver finito il lavoro dal professor Maesa­ni, Vera era andata dritta al comando di Tor Sapienza e si era seduta su un muretto lì di fronte, decisa ad aspettare per tutto il tempo necessario che Vittorio emergesse dall'edificio.
   Erano quasi le quattro quando le volanti iniziarono a rientrare per il cambio turno. Vera non riuscì a individuare Vittorio nelle auto che le passavano davanti; fu lui a vederla, e non appe­na scese dalla macchina le andò incontro con un misto di perplessità e preoccupazione sul volto.
   «Ehi» disse; tese una mano per aiutare Vera ad alzarsi e lei l'accettò. «Che ci fai qui? È successo qualcosa? Da quanto sei seduta su questo muretto?»
   «È un interrogatorio, Valenti?» sbuffò divertita la ragazza.
   «Solo qualche domanda più che lecita» ribatté il carabiniere. «Allora?»
   Vera si strinse nelle spalle. «Come stai?»
   Lui la guardò in un modo che Vera non riuscì a decifrare. «Sei venuta qui per questo? Solo per questo?»
   «Sì» rispose Vera, come se passare più di due ore seduta su un muretto in attesa di qualcuno fosse la cosa più naturale del mondo. «È da una settimana che sei sparito ed è tipo un record: iniziavo a credere che qualche automobilista si fosse arrabbiato durante un controllo e ti aves­se investito» lo punzecchiò.
   «Scherza, scherza» mugugnò lui. «Un paio di volte ci hanno provato».
   Vera soffocò una risata prima di parlare ancora. «Allora, come stai? L'ultima volta che ci siamo visti eri arrabbiato di brutto».
   Vittorio s'infilò le mani in tasca e si guardò intorno, pensoso.
   «Sto... meglio, credo» disse infine. «Più tranquillo, sai: ho parlato con un avvocato e avvia­to le pratiche per la separazione» le rivelò. «Avrei dovuto farlo appena ho scoperto che mi tradiva...»
   La ragazza sgranò gli occhi. «Ti tradisce pure?»
   Lui si strinse nelle spalle. «Ha una relazione col suo capo che va avanti da un paio d'anni, non è più una novità. Adesso spero solo che quella stronza non faccia storie: voglio che que­sta farsa di matrimonio finisca il più presto possibile» aggiunse in un ringhio.
   «Mi sembri troppo nervoso perché possa essere la verità» disse cauta Vera. «Non ti senti... ferito? Neanche un po'?»
   L'uomo le rivolse uno sguardo incerto e parve riflettere attentamente sulla risposta. Dopo l'ultima lite telefonica con Emanuela, l'unica cosa che Vittorio aveva provato nei confronti di sua moglie era stata rabbia: per essersi allontanata da lui quanto lui si era allontanato da lei, per aver deciso di tradirlo con regolarità negli ultimi due anni, per non aver neanche provato a stargli vicino quando era stato trasferito a Roma. Quella stessa rabbia, simile a una fiamma­ta alimentata dalla benzina, l'aveva spinto a muoversi in modo rapido e deciso per avviare la separazione e rimuovere definitivamente Emanuela dalla propria vita, e non c'era stato posto per nient'altro: adesso che Vera gliel'aveva chiesto, però – adesso che con la sua solita sfac­ciataggine l'aveva costretto a pensarci – Vittorio si era reso conto di aver agito in quel modo nella speranza che risolvere velocemente la situazione diminuisse il dolore, così come si strappa via un cerotto con un colpo secco per non sentire nulla.
   Era ferito, proprio come aveva suggerito Vera con quella domanda. Ferito dal fatto che vent'anni della sua vita stessero finendo così: con rabbia, con risentimento, e con la sensazione del tradimento sempre annidata in fondo allo stomaco.
   Vittorio sbuffò e annuì controvoglia prima di guardare Vera. «Come fai a sapere meglio di me quello che provo?» chiese con sincera curiosità.
   «Ti guardo, Valenti» replicò lei. «Se uno ti osserva abbastanza a lungo, riesce a leggerti in faccia buona parte di quello che pensi».
   Vittorio s'imbronciò. «Mi sa che non ci parlo più, con te» bofonchiò.
   «Perché? Hai forse qualcosa da nascondermi?» lo stuzzicò Vera; per accentuare il tutto gli affondò un dito tra le costole.
   Il carabiniere le schiaffeggiò con delicatezza la mano per allontanarla. «No, ma comunque un po' mi scoccia, che tu possa capire quello che mi passa per la testa».
   «Dai, Valenti, non tenermi il muso» disse allegramente Vera, per metà divertita e per metà soddisfatta dal fastidio di lui. «Qualsiasi cosa vedrò sulla tua faccia, prometto di non usarla contro di te. Così va bene?»
   Vittorio ci rifletté con attenzione. «Immagino di non poter ottenere nulla di meglio» sospirò infine.
   «Certo che ti lamenti sempre» commentò Vera. «Non te l'hanno mai detto che chi si accontenta, gode?»
   Lui si strinse nelle spalle. «Io non mi accontento. Odio le cose a metà: o tutto, o niente».
   «E questo spiega il tuo essere costantemente scontento».
   «Scusa, ma tu non eri venuta qui per sapere come sto? O era solo una scusa per infastidirmi come tuo solito?»
   «Guarda che quello fastidioso sei tu». Vera tacque per un momento e arricciò il naso. «Per­ché finiamo sempre per bisticciare?»
   «Perché abbiamo entrambi un carattere impossibile» rispose pronto Vittorio. «Hai da fare?»
   La ragazza, spiazzata dalla domanda inaspettata, rimase in silenzio per qualche istante. «No» rispose infine. «Perché?»
   «Perché se mi dai mezz'ora sbrigo le formalità di fine turno, mi cambio e andiamo a man­giarci un tramezzino: sto morendo di fame» spiegò lui.
   «Ecco, questa è un'idea» esclamò Vera. «Allora ogni tanto anche tu ne hai di buone!»
   «Simpatica» borbottò Vittorio; la punzecchiò tra le costole con un dito per ripagarla di quanto aveva fatto poco prima e sorrise nel sentire il verso indignato di lei. «Allora aspettami – nella sala d'attesa, va bene? Non stare qui fuori da sola».
   Vera alzò gli occhi al cielo, ma lo affiancò comunque ed entrambi si avviarono in direzione dell'ingresso. «Sì, papà» disse con voce strascicata.
   Vittorio mise su una faccia nauseata. «Non dirlo neanche per scherzo».
   «Perché? Ti dà fastidio?» indagò Vera. Vittorio annuì e lei inarcò un sopracciglio. «Ecco, questo è un ottimo motivo per ripetertelo in continuazione» aggiunse compiaciuta.
   «Insolente» replicò l'uomo, ma senza vigore: ormai ci aveva preso gusto, a quei continui battibecchi. Varcarono la soglia e lui le indicò la stanzetta in questione. «Cerca di non combinare guai mentre mi aspetti».
   «Sì, papino» cinguettò Vera.
   Vittorio alzò gli occhi al cielo, esasperato. «E smettila» grugnì un istante prima di scoccarle un rapido bacio sulla guancia. Quel gesto sorprese Vera al punto da ammutolirla; Vittorio spa­rì oltre la porta a vetri e la ragazza rimase in attesa, lo sguardo perplesso e la punta delle dita appoggiate inconsciamente sul punto in cui le labbra del carabiniere l'avevano sfiorata.

******

Il pub traboccava di persone, com'era lecito aspettarsi il sabato sera: un gruppo rock si esibiva sul palco, e la musica e le voci degli avventori si intrecciavano in un mix di cui era difficile distinguere le singole componenti.
   Vittorio guardò con occhi distratti la band: allungato scompostamente sulla sedia, con la birra in mano e un piede che continuava a punzecchiare le caviglie di Claudio nella speranza d'infastidirlo, era l'immagine della tranquillità. Era così da un paio di giorni, ormai: dopo aver parlato con Vera, la furia che aveva provato nei confronti di sua moglie si era sgonfiata come un palloncino bucato e Vittorio era riuscito a calmarsi abbastanza da ammettere che forse tut­ta quella rabbia non nasceva soltanto dal tradimento di Emanuela, ma anche – e soprattutto – dal fatto che la cosa in sé aveva avuto il potere di ferirlo.
   Lo sbuffo irritato del collega lo riportò alla realtà.
   «La smetti?» si lamentò Claudio. «Se continui a prendermi a calci, domani sarò pieno di lividi».
   «Calci?» gli fece eco Vittorio. «Ti sto a malapena toccando!»
   «Continua a trattarmi male, e con te non ci esco più» minacciò Claudio. «Non ti meriti la mia compagnia una sera a settimana!»
   Vittorio sogghignò. «Da quando sei così permaloso?»
   L'altro mise il broncio e il ghigno di Vittorio si allargò: Claudio aveva trentaquattro anni, ma a volte gli ricordava un bambino petulante. O magari era solo una sua impressione: in fondo, Luciano pensava lo stesso di lui.
   «E tu da quando sei così simpatico?» disse Claudio di rimando. «Negli ultimi due giorni sei stato vergognosamente allegro».
   «Da quando essere allegri è una vergogna?» inquisì l'altro.
   Claudio gli rivolse un sorriso angelico. «Da quando si tratta di te: tu sei la quintessenza del­la rabbia, Vittò».
   Vittorio mugugnò qualcosa di incomprensibile, ma Claudio ebbe la netta sensazione che si trattasse di un insulto. La soddisfazione per aver cancellato il sorriso dalla faccia del collega, però, fu più forte di tutto il resto.
   «Allora? A cosa si deve tanta improvvisa gioia di vivere?» insisté in tono pomposo.
   «All'avvio delle pratiche per la separazione» annunciò; sollevò il bicchiere in un brindisi silenzioso e mandò giù un gran sorso di birra, mentre il volto dell'altro uomo si adombrava.
   «Mi dispiace, Vittorio. Non lo immaginavo» disse serio.
   «A me non dispiace» replicò Vittorio con una scrollata di spalle. «Anzi, adesso mi sento molto meglio: avrei dovuto farlo anni fa».
   Claudio lo guardò per un minuto buono prima di parlare ancora.
   «Perché adesso? Perché non prima?» chiese cauto.
   L'altro aprì la bocca, pronto a rispondere, ma una strana sensazione lo costrinse a richiuder­la senza dire nulla: a Vittorio occorse qualche istante per capire che quella specie di bolla tie­pida che gli si era accesa alla bocca dello stomaco era commozione. Il quarantenne si schiarì la voce un paio di volte: era passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui qualcuno che non fosse sua madre o sua sorella si era interessato alla sua vita tanto da chiedergli perché avesse preso una certa decisione invece di un'altra, e Vittorio si rese conto in quel momento di aver iniziato a considerare Claudio Pastore un amico.
   «Non ne sono sicuro» rispose con sincerità. «Forse allontanarmi fisicamente da Emanuela mi ha aiutato a capire che non c'è proprio più niente, del nostro rapporto, che sia possibile salvare».
   «E tu di questo sei proprio sicuro?» insisté Claudio, scettico. «Capita spesso che la lonta­nanza riavvicini le persone: questa potrebbe essere solo una fase».
   Vittorio scosse la testa. «Non credo. Il nostro rapporto si è guastato qualche anno fa e nessuno dei due si è mai impegnato per recuperarlo... e almeno per me, è troppo tardi».
   «Mh». L'altro uomo si piegò sul tavolo, vi appoggiò i gomiti e puntò il mento sui pugni. «E non c'entra niente quella ragazza che hai trascinato al comando... quanto, un mese e mezzo fa?»
   Il quarantenne si strozzò con la sua stessa saliva. Si colpì più volte il petto con il pugno, tossendo, mentre Claudio continuava a fissarlo senza battere ciglio.
   «Io... che... ma che domanda è?» farfugliò infine Vittorio quando riuscì a riprendere fiato.
   «Ho notato che era in caserma, la mattina in cui qualcuno ti ha mandato la colazione, e l'al­tro ieri era di nuovo lì e siete andati via insieme». Le sopracciglia di Claudio volarono verso l'attaccatura dei capelli. «È stato naturale farmi qualche domanda».
   Vittorio sbuffò. «L'ho incrociata, qualche volta, dopo quel giorno in cui l'abbiamo...» Clau­dio gli scoccò un'occhiataccia, «... l'ho fermata» si corresse. «A un certo punto abbiamo ini­ziato a comportarci da persone civili, senza passare il tempo a coprirci di insulti, e tra le altre cose si è parlato anche del mio matrimonio». Sbuffò di nuovo, stavolta con un mezzo sorriso stampato in volto. «Mi ha fatto notare che mi sono sposato per un motivo idiota e che se l'uni­ca cosa che provo nei confronti di mia moglie è rabbia, allora starò meglio dopo aver divorziato. E la cosa peggiore è che ha ragione».
   «Fammi capire» disse lentamente Claudio. «Tu stai divorziando perché una persona che a malapena conosci ti ha detto di farlo?»
   «No: io sto divorziando perché una pazza che a malapena conosco è stata più lucida di me, abbastanza da mostrarmi la cosa sotto un altro punto di vista e farmi capire che trascinare un matrimonio ormai finito mi faceva soltanto male» precisò l'altro in un tono che non ammette­va repliche.
   Claudio decise di cambiare tattica. «Non è che magari quella ragazza ti piace?» chiese a bruciapelo.
   «È pazza» rimarcò Vittorio. «Sarcastica, suscettibile, attaccabrighe...»
   «Aspetta, stiamo parlando di lei o di te?» lo interruppe Claudio con un ghigno provocatorio.
   L'altro appallottolò un tovagliolino e glielo tirò sul naso. «Non so neanche perché ti rispon­do» grugnì.
   «Perché anche se cerchi di nasconderlo, ti piaccio» rispose all'istante il trentaquattrenne. «E anche perché in fondo, molto in fondo, ma proprio in fondo, sai che ho ragione» aggiunse compiaciuto.
   Vittorio gli rivolse un'occhiata fosca ma non replicò; Claudio sollevò il pugno in un gesto di trionfo e l'altro decise che avrebbe impiegato meglio il proprio tempo ascoltando il gruppo che ancora suonava sul palco.

******

Nonostante fossero innamorati l'uno dell'altra e felici di avere una figlia c'erano alcune cose a cui Giulia e Tiziano non avevano mai voluto rinunciare, e una di quelle erano le uscite tra soli adulti. Prima che Giulia restasse incinta c'erano state parecchie serate memorabili, di cui alcu­ne in discoteca, in compagnia di Vera e Noemi; e anche se da quasi due anni avevano optato per dei programmi più tranquilli, continuavano a riservarsi una sera a settimana per stare tra di loro.
   Quel sabato sera non faceva eccezione: Ludovica era stata affidata ai nonni paterni e Tizia­no, Giulia e Vera se n'erano andati in un locale del centro dopo che le due donne avevano tentato inutilmente di convincere le rispettive madri ad andare con loro.
   Poco dopo le dieci, seduti a un tavolino dell'Hard Rock Cafe con il secondo cocktail della serata di fronte, i tre ridevano tanto da non riuscire a prendere fiato.
   «E allora» proseguì Tiziano, con le lacrime agli occhi per il gran divertimento, «Luca guar­da il direttore e gli fa: “Ah, ma le procedure di sicurezza bisogna seguirle per forza? Allora da lunedì vedrò di applicarle!”. E lui ha fatto una faccia... impagabile! È diventato verdastro, con gli occhi spalancati e ha iniziato a farfugliare: credevo che gli sarebbe venuto un colpo!».
   Le due donne eruppero in una nuova serie di risate: Vera fu costretta a posare il bicchiere per non rischiare di rovesciarsene addosso il contenuto mentre Giulia si batteva una mano sulla coscia.
   «Poveraccio» commentò la prima con ardore. «Certo che siete proprio perfidi, però!»
   Tiziano la liquidò agitando la mano con fare sbrigativo. «Esagerata! Per uno scherzetto innocente...»
   «Mica tanto innocente» s'intromise Giulia, che ancora sghignazzava. «L'hai detto tu che gli avete quasi fatto venire un infarto!»
   Suo marito scrollò le spalle. «Era da un pezzo che volevamo prenderlo un po' in giro: ades­so che finalmente è arrivato uno nuovo, non possiamo non approfittarne».
   «Siete solo fortunati che questo Luca sia disposto a reggervi il gioco» precisò Vera.
   L'uomo le rivolse un gran ghigno.
   «È troppo simpatico, non potete nemmeno immaginare quanto!». S'interruppe, meditabon­do: di fronte a lui Giulia decise di costruire una torre di tortilla chips mentre beveva il cock­tail con la cannuccia, ma Tiziano neanche se ne accorse, tanto era assorto nei propri pensieri. «Forse dovrei invitarlo a bere qualcosa con noi, una sera di queste» aggiunse, scoccando un'occhiata eloquente all'amica.
   A Vera quello sguardo non piacque affatto.
   «Non provare a incastrarmi con un appuntamento al buio, Tizià, o tua figlia si ritroverà or­fana prima ancora di aver compiuto un anno» lo minacciò.
   Tiziano s'imbronciò.
   «Però lasci che Valenti ti giri intorno» si lagnò.
   Giulia si strozzò; Vera le batté una mano in mezzo alla schiena con forza fino a quando l'al­tra non si riprese.
   «E tu che ne sai?» rantolò Giulia, lo sguardo fisso su suo marito. Lui esitò.
   «Non ho origliato!» sbottò infine; le due donne lo squadrarono con evidente scetticismo. «È che voi... voi... parlate forte, ecco!» aggiunse.
   Vera e Giulia si scambiarono uno sguardo.
   «Stai cercando di incolpare noi del fatto che tu origli le nostre conversazioni?» chiese la seconda, incredula.
   «Pensi davvero che io lasci che Valenti mi ronzi intorno?» sibilò Vera, indignata.
   «Oh, questo è vero» tagliò corto Giulia; la sua migliore amica le rivolse uno sguardo offeso e tradito, ma l'altra non se ne diede per inteso e tornò a rivolgersi a suo marito. «Lo sai che hai una bella faccia tosta, ficcanaso dei miei stivali?»
   Tiziano arrossì in zona collo. «Ha parlato la pettegola del condominio!»
   Sua moglie sgranò gli occhi. «Rimangiatelo!»
   «Mai» rispose fiero Tiziano.
   Giulia gli lanciò una manciata di noccioline in piena faccia: centrato negli occhi dai salatini, Tiziano emise un gemito da animale ferito e iniziò a tastarsi il viso.
   «Basta, voi due!» li redarguì Vera; prese la ciotola delle noccioline e la mise fuori portata. «Se volete farvi la guerra, aspettate di essere a casa vostra. E che non ci sia la mia figlioccia!» disse decisa.
   Marito e moglie incrociarono le braccia al petto e la guardarono con un'identica espressione contrariata.
   «Traditrice» l'accusò Giulia.
   «Svizzera» grugnì scontento Tiziano.
   «Svizzera?» gli fece eco Vera, incerta se ridere o essere perplessa.
   «Sì, Svizzera» ribadì Tiziano. «Resti neutrale solo per non doverti schierare!»
   L'ex ginnasta si sporse sul tavolino e gli sbuffò dritto in faccia. «Io non resto neutrale – io faccio da arbitro, e lo faccio per evitare che ci caccino» lo corresse.
   «Me, non mi caccerebbero mai» disse l'uomo con grande dignità. «Sono troppo carino!»
   Vera e Giulia lo scrutarono con aria scettica prima di scambiarsi uno sguardo d'intesa.
   «In quale Universo parallelo?» sogghignò Vera.
   Tiziano boccheggiò, indignato, ma prima che potesse mettere insieme una frase di senso compiuto, qualcuno scoppiò a ridere vicinissimo a loro: i tre amici si voltarono verso il punto da cui proveniva il suono, ma soltanto Vera riconobbe l'uomo che sghignazzava appoggiato al muro.
   «Fabio!» chiamò allegra. Si alzò, un gran sorriso sul volto; Fabio non perse tempo e la raggiunse con due passi per poi scoccarle due baci sulle guance. «Che ci fai qui?»
   Lui si strinse nelle spalle. «Avevi detto che saresti venuta qui stasera, e ho pensato di passa­re a salutarti».
   «Hai fatto bene» rispose Vera, senza smettere di sorridere. «È solo che non me l'aspettavo: mi hai presa alla sprovvista!»
   Dietro di lei Giulia, non vista, sollevò con cautela una gamba, avvicinò il piede al fondo­schiena dell'amica e le diede uno spintone: Vera barcollò e finì dritta addosso a Fabio.
   «Vera, non ci presenti il tuo nuovo amico?» disse Giulia in tono zuccherino.
   L'altra si raddrizzò e scoccò un'occhiata torva prima alla donna, che continuava a fissarla con espressione innocente, e poi a suo marito, che scrutava entrambe con malcelato diverti­mento. Ancora risentita, Vera fece un gesto vago con la mano. «Fabio, questi sono Giulia e Tiziano, i miei migliori amici; ragazzi, lui è Fabio, un ex studente del professor Maesani».
   «Immagino vi siate conosciuti nell'ufficio del professore» commentò Tiziano, mentre Fabio lasciava la mano di Giulia per stringere la sua.
   L'altro uomo annuì. «Proprio così: penso di non essere mai stato più felice di aver fatto visi­ta a un ex professore!» ridacchiò.
   «Ci credo!» intervenne Giulia. Rivolse un rapido sguardo a Vera e tornò a concentrarsi sul nuovo arrivato. «Perché non ti siedi, Fabio?»
   Lui scosse la testa.
   «Mi piacerebbe, ma i miei amici mi aspettano fuori: avevamo già deciso di andare in un lo­cale nuovo all'Esquilino» spiegò. Strinse brevemente Vera. «Io e te ci sentiamo domani, ma­gari la settimana prossima potremmo uscire» mormorò, in modo che solo lei lo sentisse.
   «Volentieri» sorrise Vera.
   Fabio ricambiò il sorriso; salutò gli altri due e si avviò deciso verso l'uscita. Quando fu lon­tano Vera tornò a sedersi, ma fece a malapena in tempo a sistemarsi che Giulia e Tiziano ini­ziarono a bombardarla di domande.
   «Certo che è un bel ragazzo! Da quant'è che lo conosci?»
   «Perché non ci hai detto di lui?»
   «Ti ha già invitata a uscire?»
   «Che lavoro fa? È economicamente solido?»
   «Com'è stato il vostro primo incontro?»
   «Aspetta, la cosa più importante! Per che squadra tifa?»
   Vera scoppiò a ridere.
   «Avete finito?» esalò tra una risata e l'altra. Quando gli altri due annuirono, si sforzò di controllarsi e prese un respiro profondo. «Con tutte le domande che mi avete fatto, non so a quale rispondere per prima...»
   «A quella più importante, ovviamente» la interruppe Tiziano. «Per che squadra tifa? Te l'ha detto?»
   Vera si accarezzò la mandibola, pensosa. «Onestamente non lo so» ammise. «Ci siamo sen­titi qualche volta e ho accennato al fatto che ogni tanto vado allo stadio, ma lui non ha ag­giunto nulla».
   Tiziano gemette sconfortato. «Dai, Vè, non ci posso credere! Come puoi sentire un ragazzo e non chiedergli se e per quale squadra tiene? È tipo una delle domande basilari per iniziare o meno una frequentazione!»
   «Be', Valenti tifa e credo che sia romanista» commentò distratta lei.
   «Lascia perdere quello lì!» disse sbrigativo l'uomo. «Che poi già non è un granché, ma se è pure romanista, lasciamo proprio perdere e stendiamo un velo pietoso!»
   «Lui ha detto una cosa simile quando ha scoperto che tifo Juve» sogghignò Vera.
   Tiziano aprì la bocca per ribattere, ma Giulia gli sferrò un gran calcio sotto il tavolo e lui tacque.
   «Tralasciando una cosa fondamentale come la fede calcistica» disse sarcastica Giulia, «quel Fabio è stato carino a passare a salutarti. Quindi adesso rispondi alla mia domanda: ti ha già invitata a uscire?»
   La sua migliore amica annuì, divertita. «Poco fa, appena prima di andare via».
   «Fantastico!» esultò Giulia. Batté le mani, entusiasta, ma smise quando si accorse dell'espressione di Vera, che era diventata pensosa. «Che hai che non va, Vè?»
   Lei scosse di nuovo la testa. «Non lo so» rispose, incerta. «È che non sono più uscita con nessuno da prima dell'incidente, se non contiamo la sera in cui sono andata a bere una cosa con Valenti...»
   «No, lui decisamente non lo contiamo» intervenne deciso Tiziano.
   «...e non... non so bene come comportarmi, né se sono pronta» concluse Vera, senza dare cenno d'aver sentito l'amico.
   Moglie e marito si scambiarono un lungo sguardo, uno di quelli in cui si concentra una conversazione silenziosa tra chi riesce a capirsi senza bisogno di parlare.
   «Ma questo Fabio ti piace?» si decise a chiedere Tiziano.
   Vera lo guardò in silenzio per un istante.
   «Sì, credo» rispose piano.
   «Allora esci con lui» intervenne Giulia. «Se va bene ne sarà valsa la pena, e se andrà male... be', in quel caso, nessuno ti costringe a vederlo ancora». Le prese la mano e la strinse. «È solo un appuntamento, Vè: non c'è niente di cui aver paura, e da qualche parte devi pur ripar­tire» disse incoraggiante.
   «E se non dovesse comportarsi bene, lo prenderò a schiaffi» aggiunse Tiziano in tono solenne.
   L'ex ginnasta annuì, un sorriso stiracchiato sulle labbra, e pensò che i suoi amici avevano ragione: da qualche parte doveva ricominciare.
   
 
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