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Autore: Red Owl    15/05/2018    3 recensioni
Vecchia versione non più aggiornata.
Genere: Avventura, Science-fiction, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
Capitoli:
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La tavoletta non suonava in continuazione, ma emetteva delle serie di tre bip consecutivi, intervallate da un breve silenzio.

«Guarda» fece Tito, inclinando l’oggetto verso di lei e avvicinandosi al letto su cui Lidia era seduta. Per una frazione di secondo, la ragazza si ritrovò a pensare che la presenza del giovane romano in quel luogo fosse in un certo senso sbagliata, ma poi accantonò quel pensiero, concentrandosi invece su quello che Tito stava cercando di mostrarle. Anche se non vi era più traccia degli archi azzurrini che si erano levati da essa qualche sera prima, nella capanna di Alexander, la superficie di vetro scuro della tavoletta era costellata da diversi punti rossi, piccoli e luminosi.

«Alexander pensava che fosse una mappa» le ricordò il ragazzo. «Credi che stia indicando qualcosa?»

Quando Lidia tese le mani, lui le consegnò il piccolo oggetto e la fanciulla si stupì di quanto fosse leggero: pesava decisamente meno di quanto un pezzo di vetro di quelle dimensioni avrebbe dovuto pesare. Sistemandosi meglio sul letto e posando la tavoletta sulle proprie gambe, Lidia esaminò con più attenzione quello che aveva sotto agli occhi.

La maggior parte dei punti rossi che aveva intravisto qualche istante prima si limitava a pulsare debolmente, aumentando e diminuendo la propria luminosità in maniera quasi impercettibile, simili alle fiammelle incerte di candele minuscole. Ve n’era però uno che lampeggiava in maniera decisa, quasi con insistenza, come per attirare l’attenzione su di sé. Quando la fanciulla lo sfiorò con la punta del dito, accanto a esso comparvero dei piccoli caratteri ordinati. Erding, lesse Lidia, con una smorfia. Perché la cosa non mi stupisce?

Tito fece per sedersi accanto a lei, sul letto. Quando però avvertì il modo istintivo in cui la giovane si era irrigidita, intuendo le sue intenzioni, si limitò ad accovacciarsi a terra davanti a lei, torcendo il collo per poter vedere meglio la superficie della tavoletta. «E quelli cosa sono, secondo te?» chiese, aggrottando la fronte in un’espressione concentrata.

Nell’istante stesso in cui aveva toccato il vetro scuro, su di esso erano comparsi due piccoli simboli gialli, di forma triangolare. L’uno era situato accanto al bordo destro della tavoletta, l’altro si trovava poco lontano dal margine inferiore. Quello che fece però scorrere un brivido freddo lungo la schiena della fanciulla fu il movimento lentissimo, ma inesorabile, con cui essi si spostavano verso il centro dello schermo. E non c’è assolutamente alcun dubbio su quale sarà il punto in cui si incontreranno, comprese la giovane, disegnando con gli occhi la traiettoria lungo la quale i due triangoli si sarebbero mossi.

«Non ne ho alcuna idea» rispose sottovoce, mentre il suo cuore accelerava i battiti. Per qualche secondo, il suo indice rimase sospeso a poca distanza dalla superficie liscia. C’era una vocina che le suggeriva che, forse, prendersi troppa libertà con quello strano oggetto non era una grande idea. Forse faremmo meglio a non toccare niente e a far vedere questa cosa ad Alexander. Sicuramente lui saprebbe cosa vogliono dire questi simboli… Ma Alexander era lontano, ferito, e forse sarebbero passate ancora molte ore, prima che potessero rivederlo. E io le risposte le voglio ora, pensò Lidia, caparbia. Inspirando a fondo per darsi coraggio e per scacciare il brutto presentimento che l’aveva colta, sfiorò con il polpastrello una delle due piccole icone gialle.

Era talmente convinta che sarebbe successo qualcosa che, quando la tavoletta non reagì in alcun modo, la ragazza provò una microscopica punta di delusione. Aggrottando appena la fronte, premette con più forza il dito sul simbolo luminoso e poi, non ottenendo ancora alcun risultato, lo colpì più volte con la punta dell’indice, picchiettando piano. Che cos’è questa roba? Si chiese, contrariata, mentre Tito le si faceva un po’ più vicino.

Come per rispondere alla sua domanda silenziosa, accanto al triangolino comparve una scritta simile a quella apparsa di fianco al punto che indicava il villaggio di Erding. Northern Lights, lesse la fanciulla, con qualche difficoltà.

«Cosa vuol dire?» le chiese immediatamente il giovane romano. «È scritto nella lingua del posto?»

Lidia scosse lentamente il capo, confusa. Non si era mai interrogata su come si scrivesse il dialetto germanico parlato al villaggio. Liecht, pensò, Liecht vuole dire… vuole dire luce. Che si scriva per caso “lights”?

Poco convinta dalla sua stessa spiegazione, la ragazza provò a colpire anche l’altro triangolo luminoso che si avvicinava sempre di più a Erding. Nel vedere la didascalia assolutamente incomprensibile che comparve sullo schermo, Lidia arricciò il naso. Greyhound. Questa non la capisco proprio.

«Sono parole che non mi dicono niente» disse allora, incontrando gli occhi scuri di Tito. «Per quello che ne so io, potrebbe anche essere un qualche dialetto germanico: però non sono termini che conosco… e, ovviamente, non saprei proprio a cosa si possano riferire.»

«Credo che si tratti di qualcosa che si sta avvicinando a noi» fece Tito, constatando l’ovvio. «Dei carri automatici, forse?»

O delle macchine volanti, aggiunse silenziosamente Lidia. Date le circostanze, non poteva fare a meno di pensare a ciò che Ulf le aveva raccontato. Possibile che quello che si ritrovava tra le mani fosse qualcosa che le persone che prelevavano le offerte – fossero esse romane o germaniche -  usavano per comunicare tra di loro? Sarebbe una scoperta interessante… e forse pericolosa. Ben guardandosi dal rivelare a Tito i suoi sospetti, la ragazza fece un vago cenno del capo. «È possibile» mormorò, senza sbilanciarsi.

«Io credo che questa cosa appartenga ai Sacerdoti: a Donna Erin, o forse all’altro tipo che abbiamo incontrato prima» replicò il giovane, giungendo inconsapevolmente a delle conclusioni simili a quelle a cui era giunta Lidia.

«Non mi è chiaro come abbia fatto Gaio ad avere questa mappa, però. Chi gliel’ha data?» indagò lei. Prima di rispondere, Tito esitò per un attimo e la soppesò con lo sguardo, come se stesse cercando di decidere se potesse veramente fidarsi di lei. Lidia nascose un sorriso amaro, pensando a quanto poco tempo bastasse per far svanire la fiducia costruita in anni di amicizia. «L’abbiamo trovata addosso a un sospettato germanico» disse poi il giovane, senza scendere nei dettagli. «Non so in che modo fosse arrivata a lui. Potrebbe averla rubata, per quanto ne so io.»

Lidia annuì lentamente, riflettendo. «Può essere» concesse, non trovando una spiegazione migliore. Dubitava fortemente che un comune minatore potesse essere il legittimo proprietario di un oggetto tanto bizzarro, dunque l’ipotesi di Tito poteva avere un qualche fondamento di verità. «Che cosa facciamo?» chiese, poi. Anche se la tavoletta in sé sembrava tutto sommato innocua, il fatto che non smettesse di suonare la rendeva inquieta.

Tito sospirò e, lentamente, si alzò in piedi. «Se Alexander fosse qui, la consegnerei a lui e fine della storia. Visto però che non è qui – e che non sembra nemmeno intenzionato a ritornare tanto presto – credo che la cosa migliore da fare sia riportarla al Sacerdote.»

Lidia lo guadò con gli occhi sgranati. «Vuoi riportarla a Fratello Kay?» esclamò, senza preoccuparsi di nascondere la propria incredulità. «Ma sei matto?»

Il giovane romano le rivolse uno sguardo corrucciato. «Non mi sembra una proposta tanto assurda. Perché dovrei essere matto?» La ragazza balzò in piedi, afferrando al volo la tavoletta un secondo prima che questa si schiantasse al suolo. «Prima di tutto, non sappiamo nemmeno se ‘sta cosa sia effettivamente sua: e se appartenesse a qualcun altro e, dandola a Kay, combinassimo qualche pasticcio? E poi… a me quel tipo non piace nemmeno un po’. Mi mette i brividi e non ho proprio nessuna voglia di andare da lui con un oggetto che qualcuno potrebbe avergli rubato. E se se la prendesse con noi? E se pensasse che siamo stati noi, a portargli via questo affare?»

Tito incrociò le braccia. «Mi pare improbabile» commentò, asciutto.

«Improbabile, ma non impossibile» ribatté lei testardamente.

I due si scrutarono torvamente per qualche secondo, ma, prima che il ragazzo potesse aggiungere dell’altro, qualcuno bussò alla porta d’ingresso e poi, senza aspettare risposta, l’aprì. Tito rivolse a Lidia uno sguardo allarmato e, istintivamente, lei gettò la tavoletta sul copriletto. «Sarà la persona che ha mandato Alexander» disse, a mezza voce, rispondendo alla domanda silenziosa del giovane romano.

Lasciando a passi rapidi la camera e raggiungendo la scala di legno, la ragazza si sporse per sbirciare verso il piano inferiore. In cuor suo, si ritrovò assurdamente a sperare che Ulf avesse avuto un ripensamento e che fosse tornato indietro a cercarla, ma quell’illusione ebbe vita breve. Del resto, perché accidenti avrebbe dovuto bussare, prima di entrare?

Quando i suoi occhi si posarono sul visitatore, però, Lidia provò comunque un tremito compiaciuto. «Hermann!» esclamò, ritrovandosi a rivolgere al giovane cognato un sorriso smagliante.

Alzando lo sguardo verso di lei, il ragazzo le sorrise in quella maniera che la fanciulla aveva sempre trovato adorabile e che aveva immancabilmente l’effetto di farle pensare che tutto sarebbe andato per il meglio. «Oh, sei ancora qui! Meno male! Avevo paura che fossi partita di corsa per cercare quell’idiota di mio fratello…»

Nel sentire Hermann riferirsi a Ulf in quel modo, Lidia provò un’ondata di profondo affetto nei confronti del più giovane dei figli di Gefrid. Ulf si è davvero comportato un po’ come un idiota, lasciandomi qui, si disse, trovando il pensiero stranamente consolatorio.

Scendendo velocemente le scale, Lidia si trattenne dal seguire l’istinto che la spingeva ad abbracciare di getto Hermann. Anche se il ragazzo sembrava sinceramente felice di vederla – e anche se i suoi rapporti con Karl non erano mai stati ottimi, se non ricordava male – il giovane germanico doveva essere sicuramente preoccupato per Unna e per il suo nipotino non ancora nato. E non è detto che, dopo tutto, non ce l’abbia almeno un po’ con me.

Giunta di fronte a lui, la ragazza si limitò allora a incrociare le braccia e a sorridergli nuovamente. «Sì, be’… a dire la verità, avevo veramente intenzione di andare a cercare Ulf. Poi, però, ho pensato che fosse meglio riordinare un po’ le idee… senza contare che non so proprio dove sia andato. Immagino che non sia a casa di vostro padre, giusto?»

Sospirando, Hermann scosse il capo e appoggiò sul tavolo un fagottino avvolto in uno strofinaccio dall’aspetto vagamente famigliare. «Tieni: ti ho portato il pranzo. La nonna ha pensato che non fossi dell’umore adatto per provare a cucinarti qualcosa.»

«Oh… è stata gentile» mormorò Lidia, commossa, prima di fissare Hermann, aspettando che il ragazzo rispondesse alla domanda che gli aveva posto qualche istante prima.

«No, Ulf non è da noi» fece allora il giovane germanico. «Mio padre non lo vede da ieri, da quando sono tornati dal loro viaggio. Quello che sappiamo, ce lo ha riferito Katti questa mattina. Ci ha detto che Karl era morto e che Ulf intendeva andare via con Unna. Dove volesse andare esattamente, non ce lo ha detto: sospetto che non lo sapesse nemmeno lei.»

Lidia aggrottò la fronte. «Katti?» chiese. Hermann annuì. «Sì, è la madre di Rolf.» La fanciulla sentì crescere ulteriormente la propria confusione. «Ma… non capisco. Lei era qui, quando Ulf e Unna sono passati di qua. Era con loro. Com’è possibile che non sappia dove sono andati?»

Quell’informazione parve sorprendere il ragazzo. «Ah. Non lo sapevo. In effetti, è…» Hermann lasciò sfumare la frase e, seguendo il suo sguardo, Lidia vide che Tito, evidentemente insospettito dalla sua assenza prolungata e dalle voci che sentiva giungere dal piano inferiore, era sceso fino a metà scala.

Dèi, datemi la forza, pensò la fanciulla, sentendosi improvvisamente esausta. Tutto d’un tratto, aveva una gran voglia di dormire, di appallottolarsi sotto alle coperte e di lasciare che il mondo andasse avanti senza di lei. Vorrei solo addormentarmi e svegliarmi quand’è tutto finito, pensò, serrando gli occhi per qualche secondo.

Ovviamente, quella non era un’opzione a sua disposizione e allora, gonfiando i polmoni per farsi coraggio, la ragazza riaprì gli occhi. «Tito», esalò, «vieni qui.» Voltandosi poi verso Hermann, indicò con un cenno della mano il giovane romano. «Hermann, questo è…»

«… il tuo amico?» fece per lei il ragazzo, inclinando un poco il capo sulla spalla.

«… sì» confermò la fanciulla, presa leggermente in contropiede dal tono neutrale del cognato. «Possiamo affrontare una cosa alla volta? Vi va?»

Lidia si sentiva stanca, sia fisicamente che emotivamente. Curiosamente, quella spossatezza le sembrò fungere quasi da anestetico: di punto in bianco, la giovane si rese conto che Hermann la intimoriva decisamente meno di Ulf. Se, per un qualche motivo che non si era mai fermata ad analizzare, Lidia si era sentita sempre lievemente inferiore al marito – se non intellettivamente, quantomeno a livello di status sociale – Hermann le pareva in tutto e per tutto un suo pari. Discutere con lui era facile, comprese, e di Tito non si doveva preoccupare.

Per la prima volta in molti giorni, la giovane ebbe l’impressione di essere all’altezza della situazione, di controllarla completamente. Adesso voglio solo fare un po’ di ordine, si disse, sentendo un’inaspettata sensazione di calma scendere su di lei. Voglio fare chiarezza per bene e ripartire da qui. E al passato ci penseremo poi più tardi.

Forte di quella nuova determinazione, Lidia si lasciò cadere sulla sedia più vicina. «Sedetevi» ordinò ai due ragazzi che si guardavano in silenzio a pochi metri da lei. Tito farà bene a non combinare più guai di quelli che ha già combinato, e Hermann è solo un ragazzino: sono io quella che ha il diritto di prendere le decisioni, qui. C’era, ovviamente, una vocina che, nel fondo della sua testa, le sussurrava che dare per scontato che Hermann si piegasse completamente al suo volere era un grosso errore, ma Lidia la mise a tacere – almeno per il momento. «Allora», disse, rivolgendosi al giovane germanico, «immagino che di lui sai già un paio di cose, giusto?»

Il ragazzo fece un cenno d’assenso e i suoi occhi verdi scintillarono. «Quello che so è che è un romano e che ha ammazzato Karl. Quello che suppongo è che sia venuto per portarti via e che… non sia semplicemente un tuo amico? Questo è quello che Ulf ha detto a nostro padre, quanto meno.» Dopo una brevissima pausa, Hermann riprese: «Quello che mi chiedo, invece, è cosa cavolo ci faccia qui».

«L’ho fatto per difendermi!» sbottò Tito, prima di venire azzittito da Lidia con un gesto della mano. «Sulle circostanze che hanno portato alla… morte di Karl ci sarebbe da discutere» fece la ragazza. La sua voce tremò leggermente, ma Lidia si impose di non lasciarsi sopraffare dai sensi di colpa e di fare del proprio meglio per mantenere la sua neonata sicurezza. «Se tutti avessimo agito in modo diverso non saremmo qui a parlarne… o forse non sarebbe cambiato e noi ci ritroveremmo nella stessa identica situazione. Quello che è certo, però, è che mi dispiace. Tanto. Più di quanto avessi creduto.» In preda a un saliscendi emotivo che la lasciava leggermente frastornata, Lidia sentì una famigliare tensione stringerle la gola e sbatté più volte le palpebre, cercando di allontanare lo spettro delle lacrime che, per una frazione di secondo, rischiarono di riempirle di nuovo gli occhi.

Hermann sospirò. «Karl non era il mio migliore amico e non posso certo dire che il fatto che non ci sia più non mi farà dormire dalla disperazione» disse, schietto. «Però io voglio bene a Unna e lui per lei era importante. Non ho mai capito quanto, non ho mai capito quanto l’amasse veramente, ma… be’, se non gli avesse voluto bene, non ci avrebbe fatto un figlio.»

Lidia annuì e il ragazzo fissò Tito. «Quindi, il fatto che tu abbia in un modo o nell’altro causato la sua morte mi irrita parecchio.» Davanti allo sguardo torvo di Hermann, Tito si irrigidì, come preparandosi per uno scontro, ma poi il germanico esalò lentamente, come per allontanare la tensione. «Ma immagino che di questo si possa discutere in futuro, quando non abbiamo due membri della nostra famiglia in procinto di scappare chissà dove, giusto?»

«Esatto» confermò Lidia, sollevata dal modo in cui il giovane aveva liquidato la questione. «E, per la cronaca: io e Tito eravamo fidanzati, a Roma, ma ora non lo siamo più, ovviamente. Tra noi due non c’è più niente. Gli ho spiegato in lungo e in largo che io voglio stare con Ulf: non è così?»

Tito sbuffò, sarcastico. «Direi che sei stata assolutamente cristallina.»

«Se non ho detto a Ulf che lui era qui», riprese la fanciulla, guardando con la coda dell’occhio il giovane romano. «era solo perché non sapevo come avrebbe potuto reagire. Un giorno mi ha detto delle cose, mi ha parlato di alcuni discorsi che lui e Karl avevano fatto prima che io arrivassi in Germanica e io mi sono un po’ spaventata. Avevo paura che a Tito potesse succedere qualcosa…» Quando Hermann le rivolse un’occhiata dubbiosa, Lidia piegò le labbra in una smorfia esasperata. «Non stiamo più insieme, ma questo non significa che non me ne freghi più niente di lui. È un mio amico, è normale che gli voglia ancora bene. No?»

«Così parrebbe» sbuffò di nuovo Tito, ma nei suoi occhi la ragazza scorse una luce calda che sciolse un po’ della tensione che si stava accumulando nelle sue spalle.

«Immagino che sia normale, sì» confermò Hermann. «Però continuo a non capire perché lui sia qui.»

«Ecco, questa… questa è una storia un po’ lunga» abbozzò Lidia, mordicchiandosi pensosamente l’unghia del pollice. «Cercando di farla breve. Quando mi hanno costretta a partire – a proposito, hai trovato il mio biglietto?» chiese, interrompendo immediatamente la spiegazione. «Sì, l’ho trovato» replicò il ragazzo, facendole cenno di proseguire.

«Bene. Stavo dicendo: quando mi hanno portato via da qui, ci siamo fermati una notte nella capanna di un certo Alexander. Il giorno dopo, io e Tito ci siamo separati e Karl mi ha trovata e ha cercato di riportarmi a Erding. Dopo che è successo quello che è successo, ho comunque chiesto di essere riportata al villaggio e Alexander si è offerto di accompagnarci con un carro automatico. È venuto fino a qui, ma quando è arrivata Unna, lei l’ha ferito e…»

«Unna l’ha ferito?» la interruppe Hermann, sporgendosi verso di lei. La ragazza annuì. «Sì, con il coltellino di Rolf. Mirava a Tito, ma lui si è messo in mezzo e si è beccato una coltellata alla spalla.»

Hermann fischiò e a Lidia parve quasi ammirato dal coraggio della sorella. «Sì, be’, morale della storia: lui è andato a farsi ricucire e ci ha detto di aspettarlo qui, visto che andarsene in giro per il villaggio da soli è diventato pericoloso» concluse la ragazza, prima di puntare gli occhi in quelli del cognato. «Il che mi fa sorgere due domande. Uno: cosa ci fai tu, da solo? E due: come sapevi che mi avresti trovato qui?»

Sorvolando completamente sulla prima domanda, il ragazzo si concentrò sulla seconda. «Sapevo che eri tornata a Erding e che ti avrei trovata a casa perché è stato Fratello Kay a dircelo. Ci ha detto che questa mattina eri passata da lui e ci ha raccomandato di tenerti d’occhio per evitare che te ne andassi in giro per il villaggio a fare cose strane. Non chiedermi cosa volesse dire, esattamente, perché non ne ho proprio idea.»

«Nemmeno io» replicò Lidia. Cercò gli occhi di Tito in cerca di suggerimenti, ma quello si limitò a scrollare le spalle.

Per alcuni lunghi secondi, i tre giovani si guardarono in silenzio, poi Hermann si sporse verso Lidia. «Allora… quali sono i piani?»

«Ritrovare tuo fratello» rispose prontamente la ragazza. «Ritrovarlo, e costringerlo ad ascoltare quello che ho da dire. Se crede di poter scappare via così, si sbaglia di grosso!» Anche se con qualche ora di ritardo, l’oltraggio per il trattamento riservatole dal marito iniziava a farsi sentire e Lidia sentì l’indignazione arrossarle le guance. «Non può dirmi di tornarmene a Roma e pretendere che io obbedisca come un cagnolino! Deve starmi a sentire: almeno quello, me lo deve. Non metto in dubbio di aver sbagliato, anzi! Ne sono ben consapevole, adesso, ma devo avere il diritto di difendermi. Se poi vorrà comunque andare via, me ne farò una ragione. Ma almeno potrò dire di averci provato.»

Sì, come no, le sussurrò malignamente la sua coscienza. Se davvero, dopo quell’ultimo tentativo, Ulf l’avesse comunque rispedita a casa, Lidia non era affatto certa di come avrebbe reagito. Sarebbe davvero stata in grado di sopportare il dolore e l’umiliazione?

Hermann le rivolse uno sguardo strano. «Non metto in dubbio che tu abbia le tue colpe», disse lentamente, «ma Ulf ti ha mai raccontato cos’è successo a Unna? No, perché se non l’ha fatto, ti assicuro che anche lui ha la sua bella dose di colpa, sai?»

«No, non mi ha mai detto niente di specifico» mormorò lei, scuotendo appena il capo. «Ha sempre detto che toccava a Unna parlarmene…»

«Sì, come no!» sbottò Hermann. «Come se Unna fosse una che va in giro a raccontare i fatti suoi così a cuor leggero! No, mio fratello avrebbe dovuto spiegarti come stavano esattamente le cose!» Il ragazzo si interruppe bruscamente, facendo danzare lo sguardo tra i due romani. «Lo farei io, ma non è il momento più opportuno – e poi mi scuserete, se non ho tanta voglia di parlarne davanti a lui

«Nemmeno mi interessa» lo informò Tito, incrociando le braccia davanti al petto e lasciandosi scivolare contro lo schienale della sedia.

«Be’, in ogni caso… in ogni caso, voglio dare a Ulf un’altra possibilità» borbottò il giovane germanico. «Se poi continua a non dirti niente, ti racconto io come sono andate le cose… e poi vedremo se non era una cosa che avresti dovuto sapere, visto che sei romana e che i romani hanno avuto un piccolissimo ruolo in quello che è successo a nostra sorella.»

Lidia fece per dire qualcosa, ma Hermann la interruppe di nuovo. «E poi, voglio dire, andarsene via così! C’è proprio da essere cretini! Ti ha lasciato qui da sola? Con tutto quello che sta succedendo in questi giorni? E se ti fosse successo qualcosa?»

Davanti allo sdegno del ragazzo, la fanciulla si sentì in dovere di difendere almeno in parte il marito. «Non è che mi abbia lasciato qui proprio da sola. Con me c’erano Tito e Alexander: Ulf mi aveva detto di andare via con loro. Non mi ha abbandonato a me stessa…» ricordò, ripercorrendo la conversazione, breve e dolorosa, avuta poche ore prima.

Hermann parve preso alla sprovvista da quell’informazione, ma incrociò caparbiamente le braccia sul tavolo, riflettendo inconsciamente la posa assunta da Tito. «Be’, in ogni caso, si è comportato come un idiota! Nostro padre avrà una o due cosette da dirgli, quando torna.»

Nella sua indignazione, Hermann dimostrava tutta la sua giovane età e Lidia non riuscì a trattenere un sorriso. «Sì, effettivamente non si è comportato in maniera particolarmente intelligente» decise, lasciando che le parole del ragazzo rinfrancassero la sua autostima.

«Tutto questo è molto interessante, ma cosa ci facciamo, con quell’affare che abbiamo lasciato di sopra?» chiese Tito, ostentando un’espressione palesemente annoiata. Hermann aggrottò la fronte. «Quale affare? E, già che ci siamo: cos’è questo rumore?»

Tendendo le orecchie, Lidia si rese conto che il suono emesso a intervalli regolari dalla tavoletta era ora chiaramente udibile anche dalla sala da pranzo. «È aumentato il volume?» chiese, rivolta a Tito. «A me pare proprio che sia aumentato…»

Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Non lo so, può essere. Credi che sia il caso di andare a prenderla?» Quando la fanciulla gli rivolse un cenno d’assenso, il giovane balzò in piedi e corse di sopra, lasciando Lidia nuovamente sola con Hermann. «Dunque, ci sarebbe anche un’altra cosa che dovresti sapere» sospirò lei, sistemandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio. «I soldati che hanno cercato di riportarmi a Roma avevano con sé una specie di tavoletta che, se non ho capito male, hanno sottratto a uno dei minatori che hanno fermato. Alexander – il tipo di cui ti ho parlato prima – crede che possa trattarsi di una mappa… e forse non ha tutti i torti, considerato che, poco fa, è saltata fuori una dicitura con scritto “Erding”. Sospettiamo che in origine appartenesse a uno dei nostri Sacerdoti.»

«Il fatto è che non è proprio una comune mappa. Sembra fatta di vetro e ogni tanto su di essa compaiono come dei pallini luminosi, dei nomi, delle… tracce. Io non ho mai visto una cosa del genere e, da quanto ho capito, nemmeno il Prefetto Caleno. Alexander dev’essere una specie di esperto di queste cose, ma anche lui mi è sembrato perplesso. E adesso si è messa a suonare, e non riusciamo a farla smettere.»

«Com’è che questa cosa è rimasta a voi?» la interrogò Hermann. Lidia esitò. «Be’, uno dei soldati l’ha affidata a Tito. A un certo punto ci siamo dovuti dividere e… non siamo più riusciti a ricongiungerci.»

Dopo qualche istante, Tito scese di nuovo in sala da pranzo, tenendo tra le mani la tavoletta scura. «Posso vederla?» chiese Hermann, allungando una mano in direzione del giovane romano. «Sì», replicò quello, «ma cerca di non toccare niente. Non abbiamo ben capito come funziona ed è meglio non schiacciare cose a caso…»

Hermann gli rivolse un’occhiata storta, ma poi afferrò la tavoletta con delicatezza, quasi temesse che l’oggetto potesse avere delle reazioni inconsulte. «Mh» mormorò poi, dopo averla studiata in silenzio per alcuni secondi. «Cosa sono ‘ste cose gialle?»

Tito e Lidia si scambiarono un’occhiata tesa. «Non lo sappiamo» disse poi la fanciulla. «Tu riesci a capire cosa vogliono dire quelle parole che ci sono scritte accanto?» Il ragazzo scosse subito la testa. «No. No capisco nemmeno in che lingua siano…»

«Perfetto» ringhiò Tito trai denti, attirandosi lo sguardo confuso del ragazzo più giovane.

«Fino a poco prima che tu arrivassi qui, quelle due cose non c’erano» spiegò rapidamente Lidia. «Sono comparse solo nel momento in cui la tavoletta ha iniziato a suonare. Non siamo riusciti a capire che cosa siano, però, se guardi bene, vedrai che si stanno avvicinando a Erding… e la cosa ci preoccupa un po’. Soprattutto alla luce di quello che hanno detto Kay e Alexander» concluse poi la ragazza, tracciando per la prima volta un collegamento che fino a quel momento era rimasto implicito.

«Perché, che cosa hanno detto?» chiese immediatamente Hermann, posando la tavoletta sul tavolo e voltandosi per guardarla meglio.

Lidia si mordicchiò nervosamente l’unghia del pollice. Le minacce velate del Sacerdote e il criptico avvertimento di Alexander l’avevano impressionata e nella sua testa la convinzione che qualcosa di brutto stesse per accadere prendeva sempre più forma. Tuttavia, ora che le veniva chiesto di dar voce alle sue preoccupazioni, esse le sembravano solo sciocche suggestioni. Ma non si può mai sapere, si disse la ragazza, sollevando il mento.

«L’altro giorno, quando Donna Erin ha convocato me e Ulf, Fratello Kay mi ha fatto tutto un discorso a proposito di come gli Dèi potrebbero decidere di punirci, se la gente del villaggio continua a comportarsi in maniera contraria alle loro leggi» disse, allora, incontrando gli occhi del cognato. «In più, come sai, questa mattina abbiamo incontrato di nuovo il Sacerdote. Be’… con noi c’era anche Alexander, e il fatto che Kay sia qui al villaggio l’ha fatto preoccupare. Infatti ci ha consigliato di andarcene via il prima possibile, perché, a quanto pare, quando quelli come lui arrivano in un posto, le cose iniziano ad andare male.»

Hermann aggrottò la fronte, impensierito. «Cosa vorrebbe dire?» chiese, con una nota di turbamento nella voce. Lidia storse le labbra. «Non ci ha detto altro, purtroppo» mormorò, dispiaciuta.

«Per farla breve, crediamo che la cosa migliore da fare sia riportare questa cosa al Sacerdote» si intromise Tito. «E, magari, approfittarne per cercare di capire qualcosa di più a proposito di questa ipotetica punizione divina…»

La fanciulla si voltò immediatamente verso di lui. «Aspetta un attimo: non è che avessimo esattamente deciso di fare così. Quando Hermann è arrivato, ne stavamo ancora discutendo. E io ribadisco quello che ho detto prima: non mi sembra una grande idea.»

«Perché no?» la interrogò il giovane germanico. Lidia si mordicchiò appena le labbra. «A me quel tipo non piace nemmeno un po’. Ogni volta che lo vedo, ho come un brutto presentimento: l’idea di andarlo a cercare di mia spontanea volontà mi disturba, ecco.»

«Però lui non ha tutti i torti» obiettò il ragazzo, indicando Tito con un cenno del capo. «Magari si tratta solo di una delle solite balle dei Sacerdoti e non c’è nulla di cui preoccuparsi, però, se non fosse così…»

«Se non fosse così, cosa faremmo?» controbatté la fanciulla. «Se davvero stesse per succedere qualcosa di brutto, non è che parlandone con Fratello Kay risolveremmo qualcosa. Anche ammesso che lui sia disposto a riceverci e a starci a sentire, non credo proprio che riusciremmo a convincerlo a fare qualcosa. Non mi sembra il tipo di persona che si preoccupa dei problemi degli altri, o che accetta di buon grado i suggerimenti.»

«Forse no», concordò Hermann, «ma potrebbe essere utile riuscire quanto meno a farsi un’idea di come stanno veramente le cose, non credi?»

Lidia scrollò le spalle. Certo che sarebbe utile, pensò, abbassando pensosamente lo sguardo sul tavolo. Peccato che non mi sembra proprio che questa gente sia abituata a parlare chiaro. Perché mai dovrebbe dirci la verità? Non l’ha fatto nemmeno Alexander… figuriamoci se lo farebbe Kay!

«Sono d’accordo» intervenne Tito, stringendo le mani in un pugno. «Io dico di andare. Alla peggio, ci libereremo di questa cosa, così che nessuno possa accusarci di averla nascosta o di aver cercato di tenerla per noi.»

«E poi», rincarò la dose Hermann, «una volta che non dovremo più gestire questa cosa, potremmo preoccuparci di ritrovare i miei fratelli, prima che vadano troppo lontano.»

«Ecco, questa è la cosa più importante» sospirò Lidia, giocherellando nervosamente con i propri capelli. «Non vorrei aver già perso troppo tempo, aspettando che Alexander venisse a recuperarci.»

«E allora è deciso» concluse Tito, alzandosi in piedi. «Non perdiamone altro: portiamo la mappa al Sacerdote e sentiamo se ha qualcosa di interessante da dirci. Fatto ciò, io me ne tornerò dal Prefetto e tu… tu potrai andare a cercare il tuo amato, se è questo che vuoi. Prima, però, sarebbe il caso di riuscire a far star zitto questo affare: inizia a darmi sui nervi» aggiunse il giovane romano, ignorando lo sguardo velenoso che la fanciulla gli aveva appena rivolto.

«Hai qualche idea?» fece Lidia, vagamente beffarda. Tito si strinse nelle spalle. «Be’…» Il ragazzo raccolse la tavoletta dal tavolo e se la rigirò tra le mani, alla ricerca di qualche tasto che potesse arrestare il suono incessante. «Non capisco nemmeno da dove esca il suono» borbottò, provando a colpire lo schermo un po’ a caso.

Dopo un paio di colpetti, l’oggetto prese a vibrare intensamente. Tito sgranò gli occhi, spaventato e, istintivamente, Lidia balzò verso di lui, posando le proprie mani su quelle del ragazzo. «Shh!» sibilò, chinandosi inconsciamente sulla tavoletta. «Basta!»

Di punto in bianco, suono e vibrazione si arrestarono come per magia. «Che cosa avete fatto?» chiese cautamente Hermann. I due romani si scambiarono un’occhiata perplessa. «Io… niente» mormorò Lidia, perplessa da quel silenzio improvviso.

«Va be’, l’importante è che non faccia più quel bip-bip irritante» tagliò corto Tito, posando nuovamente l’oggetto sul tavolo. «Mangiamo qualcosa e poi vediamo di disfarci una volta per tutte di questo coso

***

Meno di un’ora più tardi, i tre giovani si ritrovarono a fissare la porta chiusa della casa che fino a poco tempo prima era stata di Donna Erin. Malgrado la brezza tiepida che spirava in quel caldo pomeriggio di luglio, Lidia rabbrividì e si passò inconsciamente le mani sulle braccia nude, cercando di placare il tremore che l’aveva colta all’improvviso. «La Sacerdotessa se n’è andata» mormorò, a beneficio di Hermann. Il ragazzo annuì. «Sì, lo so: quando Fratello Kay è venuto a parlare con mio padre, ci ha detto che ha preso il posto di Donna Erin.»

«Ah, lo sapevi già» fece la fanciulla, tornando a fissare la porta in legno scuro. «Cosa facciamo? Entriamo?» Accanto a lei, Tito piegò le labbra in una smorfia che aveva solo una vaghissima somiglianza con un sorriso. «Direi proprio di sì. Non siamo venuti qui per ammirare il panorama, no?»

Stringendo la tavoletta sotto il braccio sinistro, il giovane romano bussò con decisione. Quando, dopo alcuni istanti, dall’interno non giunse alcuna risposta, il ragazzo impugnò la maniglia e spinse fino a quando la porta non ruotò silenziosamente sui cardini. «Be’, per lo meno è aperta» commentò, asciutto.

Senza esitare, Tito si introdusse nella casa della Sacerdotessa e Hermann lo seguì a ruota. Lidia indugiò qualche secondo sull’uscio, in preda alla netta sensazione di essere in procinto di fare qualcosa che sarebbe stato decisamente più giusto – e più saggio – non fare. Non si entra in casa di estranei senza esservi stati invitati. La voce di sua madre le risuonò in testa dopo mesi di silenzio e la ragazza deglutì, sentendosi a disagio davanti alla prospettiva di trasgredire a uno dei primi principi di buona educazione che le fossero mai stati impartiti.

Oh, che idiozia! La sferzò pochi istanti dopo la sua coscienza. Nemmeno fosse la prima volta che ti comporti in maniera poco onorevole. E poi è per una buona causa, no?

«C’è nessuno?»

La voce di Tito la costrinse a riscuotersi e Lidia raggiunse i due giovani uomini nella sala in cui Donna Erin era solita fare aspettare i propri ospiti. «Credi che Fratello Kay sia in casa?» chiese la fanciulla, facendo danzare gli occhi tutt’intorno a sé. Anche se si era decisa a entrare, non poteva certamente dire di sentirsi a proprio agio. La sensazione di essere fuori posto – o forse di trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato – si era acuita e la ragazza aveva i nervi a fior di pelle.

«Non c’è motivo di essere nervosi» le disse gentilmente Hermann, percependo il suo turbamento. «In fin dei conti, non stiamo facendo nulla di male: vogliamo solo consegnare al Sacerdote un oggetto che forse gli appartiene.» Malgrado quel tentativo di rassicurarla, Lidia vide che il ragazzo pareva nervoso almeno quanto lei, e così si astenne dal commentare.

«Sembrerebbe proprio che non ci sia nessuno» mormorò Tito, con in viso un’espressione che a Lidia parve quasi delusa. «Cosa facciamo? Lasciamo la mappa da qualche parte oppure proviamo a dare un’occhiata in giro, nel caso il Sacerdote non ci avesse sentito?»

«Questo posto non è esattamente una reggia: se Fratello Kay fosse in casa, ci avrebbe risposto» replicò la giovane. «Credo che sarebbe meglio lasciargli la tavoletta sul tavolo e andarcene via… magari prima che lui faccia ritorno. Sarò paranoica, ma a me la situazione continua a sembrare un pochino equivoca. Credo proprio che, al di là delle nostre intenzioni, non sarebbe felicissimo di trovarci qui.»

Tito storse le labbra, dubbioso, e abbassò ancora una volta lo sguardo sulla tavoletta scura. Avvicinandosi a lui, Lidia vide che, anche se ora l’oggetto era completamente silenzioso, i due triangoli gialli dai nomi impronunciabili non si erano fermati e distavano ormai solo pochi centimetri dal puntino che indicava Erding.

«Se ce ne andiamo così, però, non riusciremo a scoprire niente di più sul pericolo che incombe sul villaggio.» Senza che i due romani se ne accorgessero, Hermann era giunto alle loro spalle e stava a sua volta osservando la mappa con aria concentrata. «E se provassimo a dare un’occhiata in giro? Giusto una cosa veloce, per assicurarci che non ci siano altre cose strane. Magari riusciamo a trovare qualcosa di utile...»

Lidia scosse immediatamente la testa. «Assolutamente no!» sbottò, portandosi le mani ai fianchi. «Non possiamo metterci a ficcare il naso in giro: se Kay arrivasse e ci cogliesse sul fatto, non avremmo più nessunissima giustificazione. Non facciamo idiozie: lasciamo qui la mappa e andiamocene via.»

«Il ragazzo ha ragione: se davvero vogliamo chiarirci le idee, dobbiamo approfittarne» mormorò Tito lentamente, ignorando completamente le proteste di Lidia. «Sbrighiamoci, però. Facciamo solo un giro veloce e, se sembra tutto normale, ce la filiamo.»

La ragazza non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Ma cosa state dicendo?» sibilò, guardando i due giovani. «Ma siete impazziti o cosa? Non è un gioco! Non stiamo facendo una caccia al tesoro, non siamo… non siamo investigatori alla ricerca di indizi. Cosa cavolo vi aspettate di trovare? Un manuale pratico che spiattella tutti i dettagli della punizione divina che cadrà su Erding? E che magari spiega pure come affrontarla?»

Tito le lanciò uno sguardo irritato. «Ovviamente no» scandì. «Per quanto mi riguarda, voglio solo vedere che non ci siano altri oggetti tipo questo o altre cose altrettanto strane. Non voglio portarmi via niente, sia chiaro: se però dovessi imbattermi in qualcosa di insolito, vorrei vederlo da vicino per poi andare a fare rapporto al Prefetto.»

Fare rapporto, ripeté silenziosamente Lidia. Ma è mai possibile che questo qui si crede già un soldato? È poco più che un ragazzino senza alcun addestramento!

«Io, invece, non so proprio cosa aspettarmi, perché non ho idea di cosa ci sia in ballo» fece a sua volta Hermann. «Però un’occhiata voglio darla lo stesso.»

Lidia scosse lentamente il capo, mentre la tensione che le nasceva a livello dello stomaco le avvolgeva a spire lente gambe e braccia, facendola tremare in maniera quasi impercettibile. Avrebbe protestato ancora, se non avesse avuto la netta sensazione che l’unico risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato di perdere ancora più tempo. «E va bene» sospirò, assolutamente poco convinta. «Diamoci una mossa, però. Non voglio rischiare di venire scoperta e, soprattutto, non voglio perdere troppo tempo: te lo ricordi, vero, che dobbiamo andare a cercare Ulf?» chiese, rivolta a Hermann.

«Certo che me lo ricordo» annuì il giovane germanico. «Saremo velocissimi, vedrai. Se vuoi, però, tu puoi restare qui e controllare che non arrivi nessuno.»

Lidia valutò quella proposta, ma la prospettiva di rimanere da sola in quella casa che ormai le metteva i brividi era decisamente poco allettante. «No, grazie» declinò. «Vengo con voi, così vi metto anche un po’ di fretta.» Tito alzò platealmente gli occhi al cielo. «Muoviamoci, allora.»

Trovandosi al piano inferiore, i tre iniziarono con l’ispezionare i locali situati al pianterreno. Trovarono una cucina talmente lucida e ordinata che ebbero l’impressione che qualcuno l’avesse pulita minuziosamente e poi non l’avesse più utilizzata, una dispensa ampia, ma nella quale erano stati sistemati solamente pochi prodotti di prima necessità, un piccolo bagno spoglio e la sala con le poltrone bianche che Lidia aveva imparato a conoscere piuttosto bene. «Questo è una specie di studio» fece la fanciulla, quasi sottovoce. «Quando Donna Erin abitava ancora qua, lo usava per accogliere gli ospiti. E anche Kay fa la stessa cosa, per quanto ho avuto modo di vedere: quando sono stata convocata qui, lui era seduto proprio lì, alla scrivania…»

Non appena quelle parole lasciarono la sua bocca, Lidia si pentì di averle pronunciate, ma oramai era troppo tardi. Tito si diresse a grandi passi verso lo scrittoio e, dopo aver percorso rapidamente con lo sguardo il ripiano pulito e ordinato, occupato da un unico portapenne, scostò la sedia e si accovacciò di fronte ai cassetti. «Vediamo un po’» mormorò, aprendone uno.

Il ragazzo frugò velocemente nei diversi scomparti e Lidia sbiancò. «Non lasciare le cose in disordine» gli ordinò, in un sussurro urgente.

«Sono solo cianfrusaglie inutili» annunciò lui, una manciata di minuti più tardi. «Però c’è un blocco di appunti scritti in una lingua strana. Immagino che non ci sia alcuna speranza che voi riusciate a leggerla, giusto?» Così dicendo mostrò ai compagni un quadernino con la copertina di cartoncino verde, le cui pagine erano piene di parole scritte in lettere piccole, ordinate, leggermente oblique. Lidia seguì con gli occhi gli svolazzi delle “g” e le linee decise delle “l”, stentando a riconoscere le lettere scritte in una grafia che non le era famigliare e che le appariva diversa da quelle che aveva conosciuto fino a quel momento.

«Io non ci capisco un tubo» dichiarò Hermann, lanciando un’occhiata scettica alla pagina che Tito gli stava esibendo. «E io nemmeno» sospirò Lidia, con una punta di frustrazione.

Di fronte a quelle risposte, Tito sfogliò rapidamente il quadernetto e poi, quando trovò un foglio che non apparteneva al blocchetto, ma vi era stato inserito in un secondo momento, lo piegò in quattro e se lo infilò in tasca.

«Rimettilo subito al suo posto!» sbottò la ragazza. «Avevi detto che non avresti preso nulla!»

Il giovane scrollò le spalle. «Ma chi vuoi che si accorga della sparizione di un pezzo di carta?»

Lidia esalò con forza dal naso, irritata dalla leggerezza con cui Tito stava affrontando l’intera vicenda. «Non sappiamo nemmeno che cosa ci sia scritto, su quel pezzo di carta: e se si trattasse di cose importanti?»

«Dubito che le avrebbero scritte su un foglietto volante, in quel caso.» Le fece notare lui. «Questa lingua mi incuriosisce: e se si trattasse della stessa utilizzata nella mappa? Al campo abbiamo un traduttore: se riuscisse a decifrare questo foglio, potrebbe aiutarci a capire cosa sono quei due simboli gialli che si stanno avvicinando al villaggio.»

Anche se riusciva a vedere la logica nel discorso del ragazzo, Lidia si rifiutò di dargliela vinta. «Fai un po’ come credi, allora» ringhiò. «Se Kay se ne accorgerà e verrà a cercarti, però, non aspettarti che io ti difenda.»

«Tu non preoccuparti» replicò Tito, secco. «Piuttosto, dimmi: sai cosa c’è al piano superiore?» La ragazza si strinse nelle spalle, ancora infastidita dall’atteggiamento dell’amico. «Non ci sono mai stata, ma suppongo che ci siano le camere da letto. E forse un altro bagno?»

Mentre salivano le scale di legno che portavano al primo piano, Lidia sentì aumentare il nervosismo che l’accompagnava fin dal primo momento in cui aveva messo piede in casa. Ci stiamo mettendo troppo tempo, pensò, lanciando un’occhiata inquieta alla porta. Fratello Kay potrebbe rientrare da un momento all’altro e ci beccherebbe con le mani nel sacco.

Quando raggiunsero il pianerottolo, Hermann si diresse immediatamente verso la porta che avevano di fronte. «Questa è una camera» disse. «A colpo d’occhio, direi che non c’è nulla di strano, però, se volete, possiamo controllare un po’ meglio…»

«Venite un po’ qui, invece» replicò Tito, senza dargli modo di terminare la frase. «Questa porta è chiusa a chiave: scommetto che, se c’è qualcosa di interessante, si trova qui dentro.»

Il giovane romano era fermo davanti alla stanza che si trovava all’estremità sinistra del corto corridoio che occupava parte del piano superiore. Quando Lidia lo raggiunse, vide che la porta era tenuta chiusa da una leva di ferro. Automaticamente, la fanciulla impugnò l’anello che fungeva da maniglia e lo strattonò un paio di volte. «È proprio chiusa» commentò, attirando su di sé lo sguardo sarcastico del ragazzo. «Mi sa che ci tocca lasciar perdere…»

«Questa serratura non mi sembra un gran ché» commentò Hermann, raggiungendoli. «Non so dove sia andato il Sacerdote, ma immagino che sia partito piuttosto di fretta, se ha chiuso la porta solo in questo modo…»

La fanciulla aggrottò la fronte. «A me sembra che l’abbia chiusa in modo più che adeguato: a meno che tu non abbia una chiave nascosta da qualche parte, non vedo proprio come potremmo fare ad entrare…»

Il ragazzo le rivolse un sorriso sghembo. «Stai un po’ a vedere!» Avvicinandosi ulteriormente all’uscio, Hermann mise mano ai piccoli bulloni situati accanto alla leva e li svitò uno ad uno, con una perizia e una rapidità che fecero capire a Lidia che quella non era la prima volta che il cognato faceva una cosa del genere. Sentendosi osservato, il ragazzo le sorrise ancora. «Lo sai quante volte Unna e Ulf mi hanno chiuso nelle stalle, quando ero bambino? Se non avessi imparato a svitare i catenacci, ci avrei passato delle giornate intere…»

Quando anche l’ultimo bullone fu svitato, dall’altra parte della porta giunse un piccolo tonfo sordo. Arretrando di mezzo passo, il giovane germanico sollevò una gamba e sferrò un calcio alla porta, che tremò e si socchiuse di qualche centimetro. La leva oppose resistenza, ma Hermann la spinse e manovrò fino a quando la porta non fu libera di aprirsi del tutto. «Prima di andarcene, dobbiamo solo ricordarci di sistemare il tutto. Mi ci vorrà qualche minuto, quindi è meglio non passarci troppo tempo, qui dentro.»

Senza dire una parola, Tito rivolse al ragazzo un cenno di ringraziamento e poi scivolò nella stanza. Lidia preferì fermarsi sull’uscio, esaminando per qualche istante sul catenaccio che pendeva, storto e inutile, sull’altro lato del pannello di legno. Il fatto che quella sembrasse una serratura fatta apposta per chiudere fuori qualcuno le parve sospetto, ma l’esclamazione dei suoi due accompagnatori la distrasse da quei pensieri. «Lo sapevo, io, che ci avremmo trovato qualcosa di interessante!» fece Tito, con un sorriso eccitato disegnato sul volto.

La stanza che si apriva davanti ai loro occhi era profondamente diversa da quelle che avevano trovato nel resto della casa. Se gli altri locali rientravano perfettamente nello stile delle abitazioni germaniche, con i loro pavimenti di legno, le pareti di calce e i soffitti con le spesse travi d’abete a vista, quella in cui si trovavano ora era un semplice vano completamente bianco. Bianche erano le mattonelle che ricoprivano il pavimento e le pareti fino all’altezza di un metro e mezzo, bianco era lo smalto di cui era dipinto il soffitto, bianche le luci che si erano accese al loro ingresso e che correvano lungo il bordo superiore delle pareti. La finestra sul fondo della stanza era sbarrata da degli scuri che impedivano alla luce del sole di penetrare nel locale.

«Non capisco» disse Hermann, guardandosi attorno confuso. «Che cos’è questo posto? Un ripostiglio?»

Non v’erano tappeti, né vasi, né alcuna suppellettile che potesse rendere la stanza vagamente accogliente. Gli unici elementi d’arredo erano il minuscolo tavolino quadrato posto al centro del locale, la sedia di acciaio posizionata accanto ad esso ed alcuni armadietti metallici disposti lungo le pareti. Nel locale, che a Lidia parve angusto e claustrofobico, regnava un odore strano: polvere, umidità e qualcosa di aspro e sottile che la fanciulla non seppe identificare.

«Non… non lo so» mormorò Tito, con gli occhi sgranati, rispondendo alla domanda che Hermann aveva posto poco prima. Avvicinandosi a Lidia, le porse la tavoletta. «Tienila un attimo, per favore. Facciamo una ricerca veloce: è probabile che troveremo solo altre scartoffie, però…»

La ragazza afferrò la mappa con le mani sudate e se la fece scivolare nella tasca del grembiule. «D’accordo, però cercate di toccare il meno possibile. Questo posto non mi piace. E, Tito, mi raccomando: da qui non portiamo via niente, chiaro? Assolutamente nulla!»

Il ragazzo le rivolse uno sguardo teso. «Non sono cretino: questo posto non piace nemmeno a me. Però mi pare la prova lampante che i vostri Sacerdoti nascondono qualcosa di strano. Non possiamo rinunciare a quest’occasione di scoprire qualcosa di più.»

Lidia avrebbe voluto replicare che in realtà sì, potevano benissimo girare sui tacchi e lasciare Kay ai suoi misteri e alle sue stanze bianche. Avrebbero potuto fare ciò che Alexander aveva raccomandato loro di fare: recuperare Ulf e abbandonare il castello in tutta fretta. Tuttavia, c’era qualcosa che le impediva di dar voce a quei pensieri: una curiosità strisciante, la sensazione di essere a un passo dallo scoprire qualcosa di importante. «Certo, però state attenti» mormorò, con la voce un po’ strozzata, stringendo istintivamente le dita sullo stipite della porta.

Rivolgendole un cenno d’assenso, Hermann fece scorrere lentamente l’anta dell’armadietto più vicino. Lidia si ritrovò a trattenere il fiato, poi esalò un sospiro quando scorse l’espressione delusa del giovane. Il ragazzo estrasse un fascicoletto scritto nella stessa lingua incomprensibile che avevano avuto modo di osservare nello studio di Donna Erin. «Ecco, appunto» disse, sventolando affinché i due compagni potessero vederlo. «Scartoffie. Qui ci sono solo un mucchio di scartoffie.»

«Qui invece potrebbe esserci qualcosa di interessante» disse Tito che, nel frattempo, aveva raggiunto l’armadietto più vicino alla finestra sbarrata. «Non è un’altra mappa, né niente di simile, però…» Con estrema attenzione, il giovane romano posò sul tavolino una specie di cubo di plastica in cui erano inseriti una moltitudine di cilindretti colorati. Hermann gli rivolse uno sguardo incuriosito. «Cos’è quell’affare?» Tito si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. Parrebbero… contenitori?»

Dalla sua postazione accanto alla porta, Lidia allungò il collo per vedere meglio, senza però trovare la forza di volontà di entrare in quella stanza che le faceva mancare il respiro. Dopo aver sistemando il fascicolo là dove l’aveva trovato, Hermann raggiunse il romano accanto al tavolo. «Contenitori con dentro cosa, esattamente?»

Dopo un istante di esitazione, Tito scelse un cilindretto dal tappo giallo e lo estrasse dal contenitore. La parte inferiore della provetta era trasparente e il ragazzo se la accostò al volto, osservando la polvere biancastra che vi era contenuta. «Sembrerebbe quasi talco, ma dubito che lo sia, no?» chiese, lanciando un’occhiata veloce a Hermann.

Rapido, il giovane svitò il tappo del piccolo recipiente e provò ad annusarne il contenuto. «Non sa di niente» decretò, stringendosi nelle spalle. Riposta la prima provetta nel contenitore, ne estrasse un’altra dal tappo verde e poi una con il tappo blu. «Sinceramente, non capisco proprio cosa accidenti siano queste cose» mormorò, alzandole contro la luce. Nella prima era contenuta una sorta di fanghiglia grigiastra, mente la seconda pareva custodire delle foglie secche, tritate in frammenti minuscoli.

«Forse sono dei campioni di qualche tipo?» propose Lidia, sporgendosi leggermente verso di loro. «Non so cosa facciano i Sacerdoti durante tutto il giorno. Un po’ pregheranno, ma poi? Magari fanno degli studi, delle ricerche…»

«Secondo me, si limitano a complottare ai nostri danni» ridacchiò Hermann, sarcastico.

Tito sorrise. «Mi sa che Lidia ha ragione. Dopotutto, temo che questo affare non sia poi così interessante.»

«Allora ce ne andiamo?» chiese la ragazza, che iniziava a provare una certa insofferenza. «Da quanto saremo qui? Sarà passata almeno mezz’ora dal momento in cui siamo entrati in casa: è decisamente ora di andare.» Il giovane romano annuì. «Sì, sì, adesso ce ne andiamo» concesse, sistemando il contenitore con le provette all’interno dell’armadietto e richiudendo l’anta. «Lasciaci solo dare un’occhiata rapida agli altri scaffali.»

«Se proprio dovete…» mormorò lei, torcendosi le mani in preda al nervosismo. Nei minuti successivi, i due giovani passarono rapidamente in rassegna ai ripiani di tutti gli altri armadietti: vi trovarono altri contenitori di provette simili a quello esaminato da Tito, altri fascicoletti incomprensibili, alcuni libri sulle piante medicinali della Germanica e quello che a Lidia parve una specie di elenco o indice, ma nulla di veramente degno di nota.

Quando giunsero all’ultima teca, quella più vicina alla porta, Tito si irrigidì, aggrappandosi pesantemente all’intelaiatura di ferro dell’armadio. Hermann, che era di fianco a lui, gli posò istintivamente una mano su un braccio, prima di ritrarla come se fosse stato scottato.

«Tito?» chiese Lidia. «Va tutto bene?»

Il ragazzo annuì. «Sì, mi è solo venuta una fitta di mal di testa. Mi sembra che in questo posto inizi a mancare l’aria…»

«Pare proprio anche a me» concordò lei, indietreggiando di un passo e riportandosi in corridoio. «Direi che abbiamo cercato abbastanza. Abbiamo buttato via un sacco di tempo in maniera del tutto inutile: adesso andiamo. Tu te ne torni da Caleno, e io e Hermann vediamo di rintracciare mio marito. Che ne dite?»

Hermann parve leggermente combattuto e lanciò un’ultima occhiata alla stanza, ma, dopo qualche secondo, annuì a sua volta. «D’accordo: fuori tutti, che devo sistemare il catenaccio.»

***

Capitolo molto significativo, come potete vedere *insert sarcasm here*

Nelle prossime settimane vedrò di rimaneggiarlo un pochino e magari di cambiare un po’ di cose che non mi convincono. Il prossimo aggiornamento non sarà a breve: causa matrimonio di perfetto sconosciuto e ricerca di un vestito decente rimandata all’inverosimile, fino a lunedì non scriverò nemmeno una parola.

In più, stimo che, per buttare giù praticamene ex-novo il prossimo capitolo mi ci vorranno almeno due settimane.

Eh, va be’… pazienza!

   
 
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