La
tavoletta non suonava in
continuazione, ma emetteva delle serie di tre bip
consecutivi, intervallate da un breve silenzio.
«Guarda»
fece Tito, inclinando
l’oggetto verso di lei e avvicinandosi al letto su cui Lidia
era seduta. Per
una frazione di secondo, la ragazza si ritrovò a pensare che
la presenza del
giovane romano in quel luogo fosse in un certo senso sbagliata,
ma poi accantonò quel pensiero, concentrandosi invece su
quello che Tito stava cercando di mostrarle. Anche se non vi era
più traccia
degli archi azzurrini che si erano levati da essa qualche sera prima,
nella
capanna di Alexander, la superficie di vetro scuro della tavoletta era
costellata da diversi punti rossi, piccoli e luminosi.
«Alexander
pensava che fosse una
mappa» le ricordò il ragazzo. «Credi che
stia indicando qualcosa?»
Quando
Lidia tese le mani, lui le
consegnò il piccolo oggetto e la fanciulla si
stupì di quanto fosse leggero:
pesava decisamente meno di quanto un pezzo di vetro di quelle
dimensioni avrebbe
dovuto pesare. Sistemandosi meglio sul letto e posando la tavoletta
sulle
proprie gambe, Lidia esaminò con più attenzione
quello che aveva sotto agli
occhi.
La
maggior parte dei punti rossi che
aveva intravisto qualche istante prima si limitava a pulsare
debolmente,
aumentando e diminuendo la propria luminosità in maniera
quasi impercettibile,
simili alle fiammelle incerte di candele minuscole. Ve n’era
però uno che
lampeggiava in maniera decisa, quasi con insistenza, come per attirare
l’attenzione su di sé. Quando la fanciulla lo
sfiorò con la punta del dito,
accanto a esso comparvero dei piccoli caratteri ordinati. Erding, lesse Lidia, con una smorfia. Perché la cosa non mi stupisce?
Tito
fece per sedersi accanto a
lei, sul letto. Quando però avvertì il modo
istintivo in cui la giovane si era
irrigidita, intuendo le sue intenzioni, si limitò ad
accovacciarsi a terra
davanti a lei, torcendo il collo per poter vedere meglio la superficie
della
tavoletta. «E quelli cosa sono, secondo te?»
chiese, aggrottando la fronte in
un’espressione concentrata.
Nell’istante
stesso in cui aveva
toccato il vetro scuro, su di esso erano comparsi due piccoli simboli
gialli,
di forma triangolare. L’uno era situato accanto al bordo
destro della
tavoletta, l’altro si trovava poco lontano dal margine
inferiore. Quello che
fece però scorrere un brivido freddo lungo la schiena della
fanciulla fu il
movimento lentissimo, ma inesorabile, con cui essi si spostavano verso
il
centro dello schermo. E non
c’è
assolutamente alcun dubbio su quale sarà il punto in cui si
incontreranno,
comprese la giovane, disegnando con gli occhi la traiettoria lungo la
quale i
due triangoli si sarebbero mossi.
«Non
ne ho alcuna idea» rispose
sottovoce, mentre il suo cuore accelerava i battiti. Per qualche
secondo, il
suo indice rimase sospeso a poca distanza dalla superficie liscia.
C’era una
vocina che le suggeriva che, forse, prendersi troppa libertà
con quello strano
oggetto non era una grande idea. Forse
faremmo meglio a non toccare niente e a far vedere questa cosa ad
Alexander.
Sicuramente lui saprebbe cosa vogliono dire questi simboli… Ma
Alexander
era lontano, ferito, e forse sarebbero passate ancora molte ore, prima
che potessero
rivederlo. E io le risposte le voglio ora, pensò Lidia, caparbia.
Inspirando a
fondo per darsi coraggio e per scacciare il brutto presentimento che
l’aveva
colta, sfiorò con il polpastrello una delle due piccole
icone gialle.
Era
talmente convinta che sarebbe
successo qualcosa che, quando la tavoletta non reagì in
alcun modo, la ragazza
provò una microscopica punta di delusione. Aggrottando
appena la fronte,
premette con più forza il dito sul simbolo luminoso e poi,
non ottenendo ancora
alcun risultato, lo colpì più volte con la punta
dell’indice, picchiettando piano.
Che cos’è questa roba? Si
chiese,
contrariata, mentre Tito le si faceva un po’ più
vicino.
Come
per rispondere alla sua
domanda silenziosa, accanto al triangolino comparve una scritta simile
a quella
apparsa di fianco al punto che indicava il villaggio di Erding. Northern Lights, lesse la fanciulla, con
qualche difficoltà.
«Cosa
vuol dire?» le chiese
immediatamente il giovane romano. «È scritto nella
lingua del posto?»
Lidia
scosse lentamente il capo,
confusa. Non si era mai interrogata su come si scrivesse il dialetto
germanico parlato
al villaggio. Liecht,
pensò, Liecht vuole
dire… vuole dire luce. Che si
scriva per caso “lights”?
Poco
convinta dalla sua stessa
spiegazione, la ragazza provò a colpire anche
l’altro triangolo luminoso che si
avvicinava sempre di più a Erding. Nel vedere la didascalia
assolutamente
incomprensibile che comparve sullo schermo, Lidia arricciò
il naso. Greyhound. Questa
non la capisco proprio.
«Sono
parole che non mi dicono
niente» disse allora, incontrando gli occhi scuri di Tito.
«Per quello che ne
so io, potrebbe anche essere un qualche dialetto germanico:
però non sono
termini che conosco… e, ovviamente, non saprei proprio a
cosa si possano
riferire.»
«Credo
che si tratti di qualcosa
che si sta avvicinando a noi» fece Tito, constatando
l’ovvio. «Dei carri
automatici, forse?»
O delle macchine volanti, aggiunse
silenziosamente Lidia. Date le
circostanze, non poteva fare a meno di pensare a ciò che Ulf
le aveva
raccontato. Possibile che quello che si ritrovava tra le mani fosse
qualcosa
che le persone che prelevavano le offerte – fossero esse
romane o germaniche
- usavano per
comunicare tra di loro? Sarebbe una scoperta
interessante… e forse
pericolosa. Ben guardandosi dal rivelare a Tito i suoi
sospetti, la ragazza
fece un vago cenno del capo. «È
possibile» mormorò, senza sbilanciarsi.
«Io
credo che questa cosa
appartenga ai Sacerdoti: a Donna Erin, o forse all’altro tipo
che abbiamo
incontrato prima» replicò il giovane, giungendo
inconsapevolmente a delle
conclusioni simili a quelle a cui era giunta Lidia.
«Non
mi è chiaro come abbia fatto
Gaio ad avere questa mappa,
però. Chi
gliel’ha data?» indagò lei. Prima di
rispondere, Tito esitò per un attimo e la
soppesò con lo sguardo, come se stesse cercando di decidere
se potesse
veramente fidarsi di lei. Lidia nascose un sorriso amaro, pensando a
quanto
poco tempo bastasse per far svanire la fiducia costruita in anni di
amicizia.
«L’abbiamo trovata addosso a un sospettato
germanico» disse poi il giovane, senza scendere nei dettagli.
«Non so in che
modo fosse arrivata a lui. Potrebbe averla rubata, per quanto ne so
io.»
Lidia
annuì lentamente,
riflettendo. «Può essere» concesse, non
trovando una spiegazione migliore.
Dubitava fortemente che un comune minatore potesse essere il legittimo
proprietario di un oggetto tanto bizzarro, dunque l’ipotesi
di Tito poteva
avere un qualche fondamento di verità. «Che cosa
facciamo?» chiese, poi. Anche
se la tavoletta in sé sembrava tutto sommato innocua, il
fatto che non
smettesse di suonare la rendeva inquieta.
Tito
sospirò e, lentamente, si
alzò in piedi. «Se Alexander fosse qui, la
consegnerei a lui e fine della
storia. Visto però che non è qui – e
che non sembra nemmeno intenzionato a
ritornare tanto presto – credo che la cosa migliore da fare
sia riportarla al
Sacerdote.»
Lidia
lo guadò con gli occhi
sgranati. «Vuoi riportarla a Fratello Kay?»
esclamò, senza preoccuparsi di
nascondere la propria incredulità. «Ma sei
matto?»
Il
giovane romano le rivolse uno
sguardo corrucciato. «Non mi sembra una proposta tanto
assurda. Perché dovrei
essere matto?» La ragazza balzò in piedi,
afferrando al volo la tavoletta un
secondo prima che questa si schiantasse al suolo. «Prima di
tutto, non sappiamo
nemmeno se ‘sta cosa sia effettivamente sua: e se
appartenesse a qualcun altro
e, dandola a Kay, combinassimo qualche pasticcio? E poi… a
me quel tipo non
piace nemmeno un po’. Mi mette i brividi e non ho proprio
nessuna voglia di
andare da lui con un oggetto che qualcuno potrebbe avergli rubato. E se
se la
prendesse con noi? E se pensasse che siamo stati noi, a portargli via
questo
affare?»
Tito
incrociò le braccia. «Mi
pare improbabile» commentò, asciutto.
«Improbabile,
ma non impossibile»
ribatté lei testardamente.
I
due si scrutarono torvamente per
qualche secondo, ma, prima che il ragazzo potesse aggiungere
dell’altro,
qualcuno bussò alla porta d’ingresso e poi, senza
aspettare risposta, l’aprì.
Tito rivolse a Lidia uno sguardo allarmato e, istintivamente, lei
gettò la
tavoletta sul copriletto. «Sarà la persona che ha
mandato Alexander» disse, a
mezza voce, rispondendo alla domanda silenziosa del giovane romano.
Lasciando
a passi rapidi la
camera e raggiungendo la scala di legno, la ragazza si sporse per
sbirciare
verso il piano inferiore. In cuor suo, si ritrovò
assurdamente a sperare che
Ulf avesse avuto un ripensamento e che fosse tornato indietro a
cercarla, ma
quell’illusione ebbe vita breve. Del
resto, perché accidenti avrebbe dovuto bussare, prima di
entrare?
Quando
i suoi occhi si posarono sul
visitatore, però, Lidia provò comunque un tremito
compiaciuto. «Hermann!»
esclamò, ritrovandosi a rivolgere al giovane cognato un
sorriso smagliante.
Alzando
lo sguardo verso di lei,
il ragazzo le sorrise in quella maniera che la fanciulla aveva sempre
trovato
adorabile e che aveva immancabilmente l’effetto di farle
pensare che tutto
sarebbe andato per il meglio. «Oh, sei ancora qui! Meno male!
Avevo paura che
fossi partita di corsa per cercare quell’idiota di mio
fratello…»
Nel
sentire Hermann riferirsi a
Ulf in quel modo, Lidia provò un’ondata di
profondo affetto nei confronti del
più giovane dei figli di Gefrid. Ulf
si è
davvero comportato un po’ come un idiota, lasciandomi qui,
si disse,
trovando il pensiero stranamente consolatorio.
Scendendo
velocemente le scale,
Lidia si trattenne dal seguire l’istinto che la spingeva ad
abbracciare di
getto Hermann. Anche se il ragazzo sembrava sinceramente felice di
vederla – e
anche se i suoi rapporti con Karl non erano mai stati ottimi, se non
ricordava
male – il giovane germanico doveva essere sicuramente
preoccupato per Unna e
per il suo nipotino non ancora nato. E
non è detto che, dopo tutto, non ce l’abbia almeno
un po’ con me.
Giunta
di fronte a lui, la
ragazza si limitò allora a incrociare le braccia e a
sorridergli nuovamente.
«Sì, be’… a dire la
verità, avevo veramente intenzione di andare a cercare Ulf.
Poi, però, ho pensato che fosse meglio riordinare un
po’ le idee… senza contare
che non so proprio dove sia andato. Immagino che non sia a casa di
vostro
padre, giusto?»
Sospirando,
Hermann scosse il
capo e appoggiò sul tavolo un fagottino avvolto in uno
strofinaccio
dall’aspetto vagamente famigliare. «Tieni: ti ho
portato il pranzo. La nonna ha
pensato che non fossi dell’umore adatto per provare a
cucinarti qualcosa.»
«Oh…
è stata gentile» mormorò
Lidia, commossa, prima di fissare Hermann, aspettando che il ragazzo
rispondesse alla domanda che gli aveva posto qualche istante prima.
«No,
Ulf non è da noi» fece
allora il giovane germanico. «Mio padre non lo vede da ieri,
da quando sono
tornati dal loro viaggio. Quello che sappiamo, ce lo ha riferito Katti
questa
mattina. Ci ha detto che Karl era morto e che Ulf intendeva andare via
con
Unna. Dove volesse andare esattamente, non ce lo ha detto: sospetto che
non lo
sapesse nemmeno lei.»
Lidia
aggrottò la fronte.
«Katti?» chiese. Hermann annuì.
«Sì, è la madre di Rolf.» La
fanciulla sentì
crescere ulteriormente la propria confusione. «Ma…
non capisco. Lei era qui,
quando Ulf e Unna sono passati di qua. Era con loro.
Com’è possibile che non
sappia dove sono andati?»
Quell’informazione
parve
sorprendere il ragazzo. «Ah. Non lo sapevo. In effetti,
è…» Hermann lasciò
sfumare la frase e, seguendo il suo sguardo, Lidia vide che Tito,
evidentemente
insospettito dalla sua assenza prolungata e dalle voci che sentiva
giungere dal
piano inferiore, era sceso fino a metà scala.
Dèi, datemi la forza,
pensò la fanciulla, sentendosi
improvvisamente esausta. Tutto d’un tratto, aveva una gran
voglia di dormire,
di appallottolarsi sotto alle coperte e di lasciare che il mondo
andasse avanti
senza di lei. Vorrei solo addormentarmi e
svegliarmi quand’è tutto finito,
pensò, serrando gli occhi per qualche
secondo.
Ovviamente,
quella non era
un’opzione a sua disposizione e allora, gonfiando i polmoni
per farsi coraggio,
la ragazza riaprì gli occhi. «Tito»,
esalò, «vieni qui.» Voltandosi poi verso
Hermann, indicò con un cenno della mano il giovane romano.
«Hermann, questo è…»
«…
il tuo amico?» fece per lei il
ragazzo, inclinando un poco il capo sulla spalla.
«…
sì» confermò la fanciulla,
presa leggermente in contropiede dal tono neutrale del cognato.
«Possiamo
affrontare una cosa alla volta? Vi va?»
Lidia
si sentiva stanca, sia
fisicamente che emotivamente. Curiosamente, quella spossatezza le
sembrò
fungere quasi da anestetico: di punto in bianco, la giovane si rese
conto che
Hermann la intimoriva decisamente
meno di Ulf. Se, per un qualche motivo che non si era mai fermata ad
analizzare, Lidia si era sentita sempre lievemente inferiore al marito
– se non
intellettivamente, quantomeno a livello di status sociale –
Hermann le pareva
in tutto e per tutto un suo pari. Discutere con lui era facile,
comprese, e di
Tito non si doveva preoccupare.
Per
la prima volta in molti
giorni, la giovane ebbe l’impressione di essere
all’altezza della situazione,
di controllarla completamente. Adesso
voglio solo fare un po’ di ordine, si disse,
sentendo un’inaspettata
sensazione di calma scendere su di lei. Voglio
fare chiarezza per bene e ripartire da qui. E al passato ci penseremo
poi più
tardi.
Forte
di quella nuova
determinazione, Lidia si lasciò cadere sulla sedia
più vicina. «Sedetevi»
ordinò ai due ragazzi che si guardavano in silenzio a pochi
metri da lei. Tito farà bene a non
combinare più guai di
quelli che ha già combinato, e Hermann è solo un
ragazzino: sono io quella che
ha il diritto di prendere le decisioni, qui. C’era,
ovviamente, una vocina
che, nel fondo della sua testa, le sussurrava che dare per scontato che
Hermann
si piegasse completamente al suo volere era un grosso errore, ma Lidia
la mise
a tacere – almeno per il momento.
«Allora», disse, rivolgendosi al giovane
germanico, «immagino che di lui sai già un paio di
cose, giusto?»
Il
ragazzo fece un cenno
d’assenso e i suoi occhi verdi scintillarono.
«Quello che so è che è un romano
e che ha ammazzato Karl. Quello che suppongo
è che sia venuto per portarti via e che… non sia
semplicemente un tuo amico?
Questo è quello che Ulf ha detto a nostro padre, quanto
meno.» Dopo una
brevissima pausa, Hermann riprese: «Quello che mi chiedo,
invece, è cosa cavolo
ci faccia qui».
«L’ho
fatto per difendermi!»
sbottò Tito, prima di venire azzittito da Lidia con un gesto
della mano. «Sulle
circostanze che hanno portato alla… morte di Karl ci sarebbe
da discutere» fece
la ragazza. La sua voce tremò leggermente, ma Lidia si
impose di non lasciarsi
sopraffare dai sensi di colpa e di fare del proprio meglio per
mantenere la sua
neonata sicurezza. «Se tutti avessimo agito in modo diverso
non saremmo qui a
parlarne… o forse non sarebbe cambiato e noi ci ritroveremmo
nella stessa
identica situazione. Quello che è certo, però,
è che mi dispiace. Tanto. Più di
quanto avessi creduto.» In preda a un saliscendi emotivo che
la lasciava
leggermente frastornata, Lidia sentì una famigliare tensione
stringerle la gola
e sbatté più volte le palpebre, cercando di
allontanare lo spettro delle
lacrime che, per una frazione di secondo, rischiarono di riempirle di
nuovo gli
occhi.
Hermann
sospirò. «Karl non era il
mio migliore amico e non posso certo dire che il fatto che non ci sia
più non
mi farà dormire dalla disperazione» disse,
schietto. «Però io voglio bene a
Unna e lui per lei era importante. Non ho mai capito quanto, non ho mai
capito
quanto l’amasse veramente, ma… be’, se
non gli avesse voluto bene, non ci
avrebbe fatto un figlio.»
Lidia
annuì e il ragazzo fissò
Tito. «Quindi, il fatto che tu abbia in un modo o
nell’altro causato la sua
morte mi irrita
parecchio.» Davanti
allo sguardo torvo di Hermann, Tito si irrigidì, come
preparandosi per uno
scontro, ma poi il germanico esalò lentamente, come per
allontanare la
tensione. «Ma immagino che di questo si possa discutere in
futuro, quando non
abbiamo due membri della nostra famiglia in procinto di scappare
chissà dove,
giusto?»
«Esatto»
confermò Lidia,
sollevata dal modo in cui il giovane aveva liquidato la questione.
«E, per la
cronaca: io e Tito eravamo fidanzati, a Roma, ma ora non lo siamo
più, ovviamente.
Tra noi due non c’è più niente. Gli ho
spiegato in lungo e in largo che io
voglio stare con Ulf: non è così?»
Tito
sbuffò, sarcastico. «Direi
che sei stata assolutamente cristallina.»
«Se
non ho detto a Ulf che lui
era qui», riprese la fanciulla, guardando con la coda
dell’occhio il giovane
romano. «era solo perché non sapevo come avrebbe
potuto reagire. Un giorno mi
ha detto delle cose, mi ha parlato
di
alcuni discorsi che lui e Karl avevano fatto prima che io arrivassi in
Germanica e io mi sono un po’ spaventata. Avevo paura che a
Tito potesse
succedere qualcosa…» Quando Hermann le rivolse
un’occhiata dubbiosa, Lidia
piegò le labbra in una smorfia esasperata. «Non
stiamo più insieme, ma questo
non significa che non me ne freghi più niente di lui.
È un mio amico, è normale
che gli voglia ancora bene. No?»
«Così
parrebbe» sbuffò di nuovo
Tito, ma nei suoi occhi la ragazza scorse una luce calda che sciolse un
po’
della tensione che si stava accumulando nelle sue spalle.
«Immagino
che sia normale, sì»
confermò Hermann. «Però continuo a non
capire perché lui sia qui.»
«Ecco,
questa… questa è una
storia un po’ lunga» abbozzò Lidia,
mordicchiandosi pensosamente l’unghia del
pollice. «Cercando di farla breve. Quando mi hanno costretta
a partire – a
proposito, hai trovato il mio biglietto?» chiese,
interrompendo immediatamente
la spiegazione. «Sì, l’ho
trovato» replicò il ragazzo, facendole cenno di
proseguire.
«Bene.
Stavo dicendo: quando mi
hanno portato via da qui, ci siamo fermati una notte nella capanna di
un certo
Alexander. Il giorno dopo, io e Tito ci siamo separati e Karl mi ha
trovata e
ha cercato di riportarmi a Erding. Dopo che è successo
quello che è successo,
ho comunque chiesto di essere riportata al villaggio e Alexander si
è offerto
di accompagnarci con un carro automatico. È venuto fino a
qui, ma quando è
arrivata Unna, lei l’ha ferito e…»
«Unna
l’ha ferito?» la interruppe
Hermann, sporgendosi verso di lei. La ragazza annuì.
«Sì, con il coltellino di
Rolf. Mirava a Tito, ma lui si è messo in mezzo e si
è beccato una coltellata
alla spalla.»
Hermann
fischiò e a Lidia parve
quasi ammirato dal coraggio della sorella. «Sì,
be’, morale della storia: lui è
andato a farsi ricucire e ci ha detto di aspettarlo qui, visto che
andarsene in
giro per il villaggio da soli è diventato
pericoloso» concluse la ragazza,
prima di puntare gli occhi in quelli del cognato. «Il che mi
fa sorgere due
domande. Uno: cosa ci fai tu, da solo? E due: come sapevi che mi
avresti
trovato qui?»
Sorvolando
completamente sulla prima
domanda, il ragazzo si concentrò sulla seconda.
«Sapevo che eri tornata a
Erding e che ti avrei trovata a casa perché è
stato Fratello Kay a dircelo. Ci
ha detto che questa mattina eri passata da lui e ci ha raccomandato di
tenerti
d’occhio per evitare che te ne andassi in giro per il
villaggio a fare cose strane. Non
chiedermi cosa volesse dire,
esattamente, perché non ne ho proprio idea.»
«Nemmeno
io» replicò Lidia. Cercò
gli occhi di Tito in cerca di suggerimenti, ma quello si
limitò a scrollare le spalle.
Per
alcuni lunghi secondi, i tre
giovani si guardarono in silenzio, poi Hermann si sporse verso Lidia.
«Allora…
quali sono i piani?»
«Ritrovare
tuo fratello» rispose
prontamente la ragazza. «Ritrovarlo, e costringerlo ad
ascoltare quello che ho
da dire. Se crede di poter scappare via così, si sbaglia di
grosso!» Anche se
con qualche ora di ritardo, l’oltraggio per il trattamento
riservatole dal
marito iniziava a farsi sentire e Lidia sentì
l’indignazione arrossarle le
guance. «Non può dirmi di tornarmene a Roma e
pretendere che io obbedisca come
un cagnolino! Deve starmi a sentire: almeno quello, me lo deve. Non
metto in
dubbio di aver sbagliato, anzi! Ne sono ben consapevole, adesso, ma
devo avere
il diritto di difendermi. Se poi vorrà comunque andare via,
me ne farò una
ragione. Ma almeno potrò dire di averci provato.»
Sì, come no, le
sussurrò malignamente la sua coscienza. Se davvero,
dopo quell’ultimo tentativo, Ulf l’avesse comunque
rispedita a casa, Lidia non
era affatto certa di come avrebbe reagito. Sarebbe davvero stata in
grado di
sopportare il dolore e l’umiliazione?
Hermann
le rivolse uno sguardo
strano. «Non metto in dubbio che tu abbia le tue
colpe», disse lentamente, «ma
Ulf ti ha mai raccontato cos’è successo a Unna?
No, perché se non l’ha fatto,
ti assicuro che anche lui ha la sua bella dose di colpa, sai?»
«No,
non mi ha mai detto niente
di specifico» mormorò lei, scuotendo appena il
capo. «Ha sempre detto che
toccava a Unna parlarmene…»
«Sì,
come no!» sbottò Hermann.
«Come se Unna fosse una che va in giro a raccontare i fatti
suoi così a cuor
leggero! No, mio fratello avrebbe dovuto spiegarti come stavano
esattamente le
cose!» Il ragazzo si interruppe bruscamente, facendo danzare
lo sguardo tra i
due romani. «Lo farei io, ma non è il momento
più opportuno – e poi mi
scuserete, se non ho tanta voglia di parlarne davanti a lui.»
«Nemmeno
mi interessa» lo informò
Tito, incrociando le braccia davanti al petto e lasciandosi scivolare
contro lo
schienale della sedia.
«Be’,
in ogni caso… in ogni caso,
voglio dare a Ulf un’altra possibilità»
borbottò il giovane germanico. «Se poi
continua a non dirti niente, ti racconto io come sono andate le
cose… e poi
vedremo se non era una cosa che avresti dovuto sapere, visto che sei
romana e
che i romani hanno avuto un piccolissimo
ruolo in quello che è successo a nostra sorella.»
Lidia
fece per dire qualcosa, ma
Hermann la interruppe di nuovo. «E poi, voglio dire,
andarsene via così! C’è
proprio da essere cretini! Ti ha lasciato qui da sola? Con tutto quello
che sta
succedendo in questi giorni? E se ti fosse successo qualcosa?»
Davanti
allo sdegno del ragazzo,
la fanciulla si sentì in dovere di difendere almeno in parte
il marito. «Non è
che mi abbia lasciato qui proprio da sola. Con me c’erano
Tito e Alexander: Ulf
mi aveva detto di andare via con loro. Non mi ha abbandonato a me
stessa…»
ricordò, ripercorrendo la conversazione, breve e dolorosa,
avuta poche ore
prima.
Hermann
parve preso alla
sprovvista da quell’informazione, ma incrociò
caparbiamente le braccia sul
tavolo, riflettendo inconsciamente la posa assunta da Tito.
«Be’, in ogni caso,
si è comportato come un idiota! Nostro padre avrà
una o due cosette da dirgli,
quando torna.»
Nella
sua indignazione, Hermann
dimostrava tutta la sua giovane età e Lidia non
riuscì a trattenere un sorriso.
«Sì, effettivamente non si è comportato
in maniera particolarmente
intelligente» decise, lasciando che le parole del ragazzo
rinfrancassero la sua
autostima.
«Tutto
questo è molto
interessante, ma cosa ci facciamo, con quell’affare che
abbiamo lasciato di
sopra?» chiese Tito, ostentando un’espressione
palesemente annoiata. Hermann
aggrottò la fronte. «Quale affare? E,
già che ci siamo: cos’è questo
rumore?»
Tendendo
le orecchie, Lidia si
rese conto che il suono emesso a intervalli regolari dalla tavoletta
era ora
chiaramente udibile anche dalla sala da pranzo. «È
aumentato il volume?»
chiese, rivolta a Tito. «A me pare proprio che sia
aumentato…»
Il
ragazzo si strinse nelle
spalle. «Non lo so, può essere. Credi che sia il
caso di andare a prenderla?»
Quando la fanciulla gli rivolse un cenno d’assenso, il
giovane balzò in piedi e
corse di sopra, lasciando Lidia nuovamente sola con Hermann.
«Dunque, ci
sarebbe anche un’altra cosa che dovresti sapere»
sospirò lei, sistemandosi una
ciocca di capelli dietro un orecchio. «I soldati che hanno
cercato di
riportarmi a Roma avevano con sé una specie di tavoletta
che, se non ho capito
male, hanno sottratto a uno dei minatori che hanno fermato. Alexander
– il tipo
di cui ti ho parlato prima – crede che possa trattarsi di una
mappa… e forse
non ha tutti i torti, considerato che, poco fa, è saltata
fuori una dicitura
con scritto “Erding”. Sospettiamo che in origine
appartenesse a uno dei nostri
Sacerdoti.»
«Il
fatto è che non è proprio una
comune mappa. Sembra fatta di vetro e ogni tanto su di essa compaiono
come dei
pallini luminosi, dei nomi, delle… tracce.
Io non ho mai visto una cosa del genere e, da quanto ho capito, nemmeno
il
Prefetto Caleno. Alexander dev’essere una specie di esperto
di queste cose, ma
anche lui mi è sembrato perplesso. E adesso si è
messa a suonare, e non
riusciamo a farla smettere.»
«Com’è
che questa cosa è rimasta
a voi?» la interrogò Hermann. Lidia
esitò. «Be’, uno dei soldati
l’ha affidata
a Tito. A un certo punto ci siamo dovuti dividere e… non
siamo più riusciti a
ricongiungerci.»
Dopo
qualche istante, Tito scese
di nuovo in sala da pranzo, tenendo tra le mani la tavoletta scura.
«Posso
vederla?» chiese Hermann, allungando una mano in direzione
del giovane romano.
«Sì», replicò quello,
«ma cerca di non toccare niente. Non abbiamo ben capito
come funziona ed è meglio non schiacciare cose a
caso…»
Hermann
gli rivolse un’occhiata
storta, ma poi afferrò la tavoletta con delicatezza, quasi
temesse che l’oggetto
potesse avere delle reazioni inconsulte. «Mh»
mormorò poi, dopo averla studiata
in silenzio per alcuni secondi. «Cosa sono ‘ste
cose gialle?»
Tito
e Lidia si scambiarono
un’occhiata tesa. «Non lo sappiamo» disse
poi la fanciulla. «Tu riesci a capire
cosa vogliono dire quelle parole che ci sono scritte
accanto?» Il ragazzo
scosse subito la testa. «No. No capisco nemmeno in che lingua
siano…»
«Perfetto»
ringhiò Tito trai
denti, attirandosi lo sguardo confuso del ragazzo più
giovane.
«Fino
a poco prima che tu
arrivassi qui, quelle due cose non c’erano»
spiegò rapidamente Lidia. «Sono
comparse solo nel momento in cui la tavoletta ha iniziato a suonare.
Non siamo
riusciti a capire che cosa siano, però, se guardi bene,
vedrai che si stanno
avvicinando a Erding… e la cosa ci preoccupa un
po’. Soprattutto alla luce di
quello che hanno detto Kay e Alexander» concluse poi la
ragazza, tracciando per
la prima volta un collegamento che fino a quel momento era rimasto
implicito.
«Perché,
che cosa hanno detto?»
chiese immediatamente Hermann, posando la tavoletta sul tavolo e
voltandosi per
guardarla meglio.
Lidia
si mordicchiò nervosamente
l’unghia del pollice. Le minacce velate del Sacerdote e il
criptico
avvertimento di Alexander l’avevano impressionata e nella sua
testa la
convinzione che qualcosa di brutto stesse per accadere prendeva sempre
più
forma. Tuttavia, ora che le veniva chiesto di dar voce alle sue
preoccupazioni,
esse le sembravano solo sciocche suggestioni. Ma
non si può mai sapere, si disse la ragazza,
sollevando il mento.
«L’altro
giorno, quando Donna
Erin ha convocato me e Ulf, Fratello Kay mi ha fatto tutto un discorso
a
proposito di come gli Dèi potrebbero decidere di punirci, se
la gente del
villaggio continua a comportarsi in maniera contraria alle loro
leggi» disse,
allora, incontrando gli occhi del cognato. «In
più, come sai, questa mattina
abbiamo incontrato di nuovo il Sacerdote. Be’… con
noi c’era anche Alexander, e
il fatto che Kay sia qui al villaggio l’ha fatto preoccupare.
Infatti ci ha
consigliato di andarcene via il prima possibile, perché, a
quanto pare, quando
quelli come lui arrivano in un posto, le cose iniziano ad andare
male.»
Hermann
aggrottò la fronte, impensierito.
«Cosa vorrebbe dire?» chiese, con una nota di
turbamento nella voce. Lidia
storse le labbra. «Non ci ha detto altro,
purtroppo» mormorò, dispiaciuta.
«Per
farla breve, crediamo che la
cosa migliore da fare sia riportare questa cosa al Sacerdote»
si intromise
Tito. «E, magari, approfittarne per cercare di capire
qualcosa di più a
proposito di questa ipotetica punizione
divina…»
La
fanciulla si voltò
immediatamente verso di lui. «Aspetta un attimo: non
è che avessimo esattamente
deciso di fare così.
Quando Hermann è
arrivato, ne stavamo ancora discutendo. E io ribadisco quello che ho
detto
prima: non mi sembra una grande idea.»
«Perché
no?» la interrogò il
giovane germanico. Lidia si mordicchiò appena le labbra.
«A me quel tipo non piace
nemmeno un po’. Ogni volta che lo vedo, ho come un brutto
presentimento: l’idea
di andarlo a cercare di mia spontanea volontà mi disturba,
ecco.»
«Però
lui non ha tutti i torti»
obiettò il ragazzo, indicando Tito con un cenno del capo.
«Magari si tratta
solo di una delle solite balle dei Sacerdoti e non
c’è nulla di cui
preoccuparsi, però, se non fosse
così…»
«Se
non fosse così, cosa
faremmo?» controbatté la fanciulla. «Se
davvero stesse per succedere qualcosa
di brutto, non è che parlandone con Fratello Kay
risolveremmo qualcosa. Anche
ammesso che lui sia disposto a riceverci e a starci a sentire, non
credo
proprio che riusciremmo a convincerlo a fare qualcosa. Non mi sembra il
tipo di
persona che si preoccupa dei problemi degli altri, o che accetta di
buon grado
i suggerimenti.»
«Forse
no», concordò Hermann, «ma
potrebbe essere utile riuscire quanto meno a farsi un’idea di
come stanno
veramente le cose, non credi?»
Lidia
scrollò le spalle. Certo che
sarebbe utile, pensò,
abbassando pensosamente lo sguardo sul tavolo. Peccato
che non mi sembra proprio che questa gente sia abituata a
parlare chiaro. Perché mai dovrebbe dirci la
verità? Non l’ha fatto nemmeno
Alexander… figuriamoci se lo farebbe Kay!
«Sono
d’accordo» intervenne Tito,
stringendo le mani in un pugno. «Io dico di andare. Alla
peggio, ci libereremo
di questa cosa, così che nessuno possa accusarci di averla
nascosta o di aver
cercato di tenerla per noi.»
«E
poi», rincarò la dose Hermann,
«una volta che non dovremo più gestire questa cosa, potremmo preoccuparci di ritrovare
i miei fratelli, prima che
vadano troppo lontano.»
«Ecco,
questa è la cosa più
importante» sospirò Lidia, giocherellando
nervosamente con i propri capelli.
«Non vorrei aver già perso troppo tempo,
aspettando che Alexander venisse a
recuperarci.»
«E
allora è deciso» concluse
Tito, alzandosi in piedi. «Non perdiamone altro: portiamo la
mappa al Sacerdote
e sentiamo se ha qualcosa di interessante da dirci. Fatto
ciò, io me ne tornerò
dal Prefetto e tu… tu potrai andare a cercare il tuo amato, se è questo che vuoi.
Prima, però, sarebbe il caso di
riuscire a far star zitto questo affare: inizia a darmi sui
nervi» aggiunse il
giovane romano, ignorando lo sguardo velenoso che la fanciulla gli
aveva appena
rivolto.
«Hai
qualche idea?» fece Lidia,
vagamente beffarda. Tito si strinse nelle spalle.
«Be’…» Il ragazzo raccolse la
tavoletta dal tavolo e se la rigirò tra le mani, alla
ricerca di qualche tasto
che potesse arrestare il suono incessante. «Non capisco
nemmeno da dove esca il
suono» borbottò, provando a colpire lo schermo un
po’ a caso.
Dopo
un paio di colpetti,
l’oggetto prese a vibrare intensamente. Tito
sgranò gli occhi, spaventato e,
istintivamente, Lidia balzò verso di lui, posando le proprie
mani su quelle del
ragazzo. «Shh!» sibilò, chinandosi
inconsciamente sulla tavoletta. «Basta!»
Di
punto in bianco, suono e
vibrazione si arrestarono come per magia. «Che cosa avete
fatto?» chiese
cautamente Hermann. I due romani si scambiarono un’occhiata
perplessa. «Io…
niente» mormorò Lidia, perplessa da quel silenzio
improvviso.
«Va
be’, l’importante è che non
faccia più quel bip-bip
irritante»
tagliò corto Tito, posando nuovamente l’oggetto
sul tavolo. «Mangiamo qualcosa
e poi vediamo di disfarci una volta per tutte di questo coso.»
***
Meno
di un’ora più tardi, i tre
giovani si ritrovarono a fissare la porta chiusa della casa che fino a
poco
tempo prima era stata di Donna Erin. Malgrado la brezza tiepida che
spirava in
quel caldo pomeriggio di luglio, Lidia rabbrividì e si
passò inconsciamente le
mani sulle braccia nude, cercando di placare il tremore che
l’aveva colta
all’improvviso. «La Sacerdotessa se
n’è andata» mormorò, a
beneficio di
Hermann. Il ragazzo annuì. «Sì, lo so:
quando Fratello Kay è venuto a parlare
con mio padre, ci ha detto che ha preso il posto di Donna
Erin.»
«Ah,
lo sapevi già» fece la
fanciulla, tornando a fissare la porta in legno scuro. «Cosa
facciamo?
Entriamo?» Accanto a lei, Tito piegò le labbra in
una smorfia che aveva solo
una vaghissima somiglianza con un sorriso. «Direi proprio di
sì. Non siamo
venuti qui per ammirare il panorama, no?»
Stringendo
la tavoletta sotto il
braccio sinistro, il giovane romano bussò con decisione.
Quando, dopo alcuni
istanti, dall’interno non giunse alcuna risposta, il ragazzo
impugnò la
maniglia e spinse fino a quando la porta non ruotò
silenziosamente sui cardini.
«Be’, per lo meno è aperta»
commentò, asciutto.
Senza
esitare, Tito si introdusse
nella casa della Sacerdotessa e Hermann lo seguì a ruota.
Lidia indugiò qualche
secondo sull’uscio, in preda alla netta sensazione di essere
in procinto di
fare qualcosa che sarebbe stato decisamente più giusto
– e più saggio – non
fare. Non si entra in casa di estranei
senza esservi stati invitati. La voce di sua madre le
risuonò in testa dopo
mesi di silenzio e la ragazza deglutì, sentendosi a disagio
davanti alla
prospettiva di trasgredire a uno dei primi principi di buona educazione
che le
fossero mai stati impartiti.
Oh, che idiozia! La sferzò
pochi istanti dopo la sua coscienza. Nemmeno
fosse la prima volta che ti comporti
in maniera poco onorevole. E poi è per una buona causa, no?
«C’è
nessuno?»
La
voce di Tito la costrinse a
riscuotersi e Lidia raggiunse i due giovani uomini nella sala in cui
Donna Erin
era solita fare aspettare i propri ospiti. «Credi che
Fratello Kay sia in
casa?» chiese la fanciulla, facendo danzare gli occhi
tutt’intorno a sé. Anche
se si era decisa a entrare, non poteva certamente dire di sentirsi a
proprio
agio. La sensazione di essere fuori posto – o forse di
trovarsi nel posto
sbagliato, al momento sbagliato – si era acuita e la ragazza
aveva i nervi a
fior di pelle.
«Non
c’è motivo di essere
nervosi» le disse gentilmente Hermann, percependo il suo
turbamento. «In fin
dei conti, non stiamo facendo nulla di male: vogliamo solo consegnare
al
Sacerdote un oggetto che forse gli appartiene.» Malgrado quel
tentativo di
rassicurarla, Lidia vide che il ragazzo pareva nervoso almeno quanto
lei, e
così si astenne dal commentare.
«Sembrerebbe
proprio che non ci
sia nessuno» mormorò Tito, con in viso
un’espressione che a Lidia parve quasi
delusa. «Cosa facciamo? Lasciamo la mappa da qualche parte
oppure proviamo a
dare un’occhiata in giro, nel caso il Sacerdote non ci avesse
sentito?»
«Questo
posto non è esattamente
una reggia: se Fratello Kay fosse in casa, ci avrebbe
risposto» replicò la
giovane. «Credo che sarebbe meglio lasciargli la tavoletta
sul tavolo e
andarcene via… magari prima che lui faccia ritorno.
Sarò paranoica, ma a me la
situazione continua a sembrare un pochino equivoca. Credo proprio che,
al di là
delle nostre intenzioni, non sarebbe felicissimo di trovarci
qui.»
Tito
storse le labbra, dubbioso,
e abbassò ancora una volta lo sguardo sulla tavoletta scura.
Avvicinandosi a
lui, Lidia vide che, anche se ora l’oggetto era completamente
silenzioso, i due
triangoli gialli dai nomi impronunciabili non si erano fermati e
distavano ormai
solo pochi centimetri dal puntino che indicava Erding.
«Se
ce ne andiamo così, però, non
riusciremo a scoprire niente di più sul pericolo che incombe
sul villaggio.»
Senza che i due romani se ne accorgessero, Hermann era giunto alle loro
spalle
e stava a sua volta osservando la mappa con aria concentrata.
«E se provassimo
a dare un’occhiata in giro? Giusto una cosa veloce, per
assicurarci che non ci
siano altre cose strane. Magari
riusciamo
a trovare qualcosa di utile...»
Lidia
scosse immediatamente la
testa. «Assolutamente no!» sbottò,
portandosi le mani ai fianchi. «Non possiamo
metterci a ficcare il naso in giro: se Kay arrivasse e ci cogliesse sul
fatto,
non avremmo più nessunissima giustificazione. Non facciamo
idiozie: lasciamo
qui la mappa e andiamocene via.»
«Il
ragazzo ha ragione: se
davvero vogliamo chiarirci le idee, dobbiamo approfittarne»
mormorò Tito
lentamente, ignorando completamente le proteste di Lidia.
«Sbrighiamoci, però.
Facciamo solo un giro veloce e, se sembra tutto normale,
ce la filiamo.»
La
ragazza non riusciva a credere
alle proprie orecchie. «Ma cosa state dicendo?»
sibilò, guardando i due
giovani. «Ma siete impazziti o cosa? Non è un
gioco! Non stiamo facendo una
caccia al tesoro, non siamo… non siamo investigatori
alla ricerca di indizi. Cosa cavolo vi aspettate di trovare? Un manuale
pratico
che spiattella tutti i dettagli della punizione divina che
cadrà su Erding? E
che magari spiega pure come affrontarla?»
Tito
le lanciò uno sguardo irritato.
«Ovviamente no» scandì. «Per
quanto mi riguarda, voglio solo vedere che non ci
siano altri oggetti tipo questo o altre cose altrettanto strane. Non
voglio
portarmi via niente, sia chiaro: se però dovessi imbattermi
in qualcosa di
insolito, vorrei vederlo da vicino per poi andare a fare rapporto al
Prefetto.»
Fare rapporto, ripeté
silenziosamente Lidia. Ma è mai
possibile che questo qui si crede già un soldato?
È poco più
che un ragazzino senza alcun addestramento!
«Io,
invece, non so proprio cosa
aspettarmi, perché non ho idea di cosa ci sia in
ballo» fece a sua volta
Hermann. «Però un’occhiata voglio darla
lo stesso.»
Lidia
scosse lentamente il capo,
mentre la tensione che le nasceva a livello dello stomaco le avvolgeva
a spire
lente gambe e braccia, facendola tremare in maniera quasi
impercettibile.
Avrebbe protestato ancora, se non avesse avuto la netta sensazione che
l’unico
risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato di perdere ancora
più tempo. «E va
bene» sospirò, assolutamente poco convinta.
«Diamoci una mossa, però. Non
voglio rischiare di venire scoperta e, soprattutto, non voglio perdere
troppo
tempo: te lo ricordi, vero, che dobbiamo andare a cercare
Ulf?» chiese, rivolta
a Hermann.
«Certo
che me lo ricordo» annuì
il giovane germanico. «Saremo velocissimi, vedrai. Se vuoi,
però, tu puoi
restare qui e controllare che non arrivi nessuno.»
Lidia
valutò quella proposta, ma
la prospettiva di rimanere da sola in quella casa che ormai le metteva
i
brividi era decisamente poco allettante. «No,
grazie» declinò. «Vengo con voi,
così vi metto anche un po’ di fretta.»
Tito alzò platealmente gli occhi al
cielo. «Muoviamoci, allora.»
Trovandosi
al piano inferiore, i
tre iniziarono con l’ispezionare i locali situati al
pianterreno. Trovarono una
cucina talmente lucida e ordinata che ebbero l’impressione
che qualcuno
l’avesse pulita minuziosamente e poi non l’avesse
più utilizzata, una dispensa
ampia, ma nella quale erano stati sistemati solamente pochi prodotti di
prima
necessità, un piccolo bagno spoglio e la sala con le
poltrone bianche che Lidia
aveva imparato a conoscere piuttosto bene. «Questo
è una specie di studio» fece
la fanciulla, quasi sottovoce. «Quando Donna Erin abitava
ancora qua, lo usava
per accogliere gli ospiti. E anche Kay fa la stessa cosa, per quanto ho
avuto
modo di vedere: quando sono stata convocata qui, lui era seduto proprio
lì,
alla scrivania…»
Non
appena quelle parole
lasciarono la sua bocca, Lidia si pentì di averle
pronunciate, ma oramai era
troppo tardi. Tito si diresse a grandi passi verso lo scrittoio e, dopo
aver
percorso rapidamente con lo sguardo il ripiano pulito e ordinato,
occupato da
un unico portapenne, scostò la sedia e si
accovacciò di fronte ai cassetti.
«Vediamo un po’» mormorò,
aprendone uno.
Il
ragazzo frugò velocemente nei
diversi scomparti e Lidia sbiancò. «Non lasciare
le cose in disordine» gli
ordinò, in un sussurro urgente.
«Sono
solo cianfrusaglie inutili»
annunciò lui, una manciata di minuti più tardi.
«Però c’è un blocco di
appunti
scritti in una lingua strana. Immagino che non ci sia alcuna speranza
che voi
riusciate a leggerla, giusto?» Così dicendo
mostrò ai compagni un quadernino
con la copertina di cartoncino verde, le cui pagine erano piene di
parole
scritte in lettere piccole, ordinate, leggermente oblique. Lidia
seguì con gli
occhi gli svolazzi delle “g” e le linee decise
delle “l”, stentando a
riconoscere le lettere scritte in una grafia che non le era famigliare
e che le
appariva diversa da quelle che aveva conosciuto fino a quel momento.
«Io
non ci capisco un tubo»
dichiarò Hermann, lanciando un’occhiata scettica
alla pagina che Tito gli stava
esibendo. «E io nemmeno» sospirò Lidia,
con una punta di frustrazione.
Di
fronte a quelle risposte, Tito
sfogliò rapidamente il quadernetto e poi, quando
trovò un foglio che non
apparteneva al blocchetto, ma vi era stato inserito in un secondo
momento, lo
piegò in quattro e se lo infilò in tasca.
«Rimettilo
subito al suo posto!»
sbottò la ragazza. «Avevi detto che non avresti
preso nulla!»
Il
giovane scrollò le spalle. «Ma
chi vuoi che si accorga della sparizione di un pezzo di
carta?»
Lidia
esalò con forza dal naso,
irritata dalla leggerezza con cui Tito stava affrontando
l’intera vicenda. «Non
sappiamo nemmeno che cosa ci sia scritto, su quel pezzo
di carta: e se si trattasse di cose importanti?»
«Dubito
che le avrebbero scritte
su un foglietto volante, in quel caso.» Le fece notare lui.
«Questa lingua mi
incuriosisce: e se si trattasse della stessa utilizzata nella mappa? Al
campo
abbiamo un traduttore: se riuscisse a decifrare questo foglio, potrebbe
aiutarci a capire cosa sono quei due simboli gialli che si stanno
avvicinando
al villaggio.»
Anche
se riusciva a vedere la logica
nel discorso del ragazzo, Lidia si rifiutò di dargliela
vinta. «Fai un po’ come
credi, allora» ringhiò. «Se Kay se ne
accorgerà e verrà a cercarti, però,
non
aspettarti che io ti difenda.»
«Tu
non preoccuparti» replicò
Tito, secco. «Piuttosto, dimmi: sai cosa
c’è al piano superiore?» La ragazza si
strinse nelle spalle, ancora infastidita dall’atteggiamento
dell’amico. «Non ci
sono mai stata, ma suppongo che ci siano le camere da letto. E forse un
altro
bagno?»
Mentre
salivano le scale di legno
che portavano al primo piano, Lidia sentì aumentare il
nervosismo che
l’accompagnava fin dal primo momento in cui aveva messo piede
in casa. Ci stiamo mettendo troppo tempo,
pensò,
lanciando un’occhiata inquieta alla porta. Fratello
Kay potrebbe rientrare da un momento all’altro e ci
beccherebbe con le mani nel
sacco.
Quando
raggiunsero il
pianerottolo, Hermann si diresse immediatamente verso la porta che
avevano di
fronte. «Questa è una camera» disse.
«A colpo d’occhio, direi che non
c’è nulla
di strano, però, se volete, possiamo controllare un
po’ meglio…»
«Venite
un po’ qui, invece»
replicò Tito, senza dargli modo di terminare la frase.
«Questa porta è chiusa a
chiave: scommetto che, se c’è qualcosa di
interessante, si trova qui dentro.»
Il
giovane romano era fermo
davanti alla stanza che si trovava all’estremità
sinistra del corto corridoio
che occupava parte del piano superiore. Quando Lidia lo raggiunse, vide
che la
porta era tenuta chiusa da una leva di ferro. Automaticamente, la
fanciulla
impugnò l’anello che fungeva da maniglia e lo
strattonò un paio di volte. «È
proprio chiusa» commentò, attirando su di
sé lo sguardo sarcastico del ragazzo.
«Mi sa che ci tocca lasciar perdere…»
«Questa
serratura non mi sembra
un gran ché» commentò Hermann,
raggiungendoli. «Non so dove sia andato il
Sacerdote, ma immagino che sia partito piuttosto di fretta, se ha
chiuso la
porta solo in questo modo…»
La
fanciulla aggrottò la fronte.
«A me sembra che l’abbia chiusa in modo
più che adeguato: a meno che tu non
abbia una chiave nascosta da qualche parte, non vedo proprio come
potremmo fare
ad entrare…»
Il
ragazzo le rivolse un sorriso
sghembo. «Stai un po’ a vedere!»
Avvicinandosi ulteriormente all’uscio, Hermann
mise mano ai piccoli bulloni situati accanto alla leva e li
svitò uno ad uno,
con una perizia e una rapidità che fecero capire a Lidia che
quella non era la
prima volta che il cognato faceva una cosa del genere. Sentendosi
osservato, il
ragazzo le sorrise ancora. «Lo sai quante volte Unna e Ulf mi
hanno chiuso
nelle stalle, quando ero bambino? Se non avessi imparato a svitare i
catenacci,
ci avrei passato delle giornate intere…»
Quando
anche l’ultimo bullone fu
svitato, dall’altra parte della porta giunse un piccolo tonfo
sordo. Arretrando
di mezzo passo, il giovane germanico sollevò una gamba e
sferrò un calcio alla
porta, che tremò e si socchiuse di qualche centimetro. La
leva oppose
resistenza, ma Hermann la spinse e manovrò fino a quando la
porta non fu libera
di aprirsi del tutto. «Prima di andarcene, dobbiamo solo
ricordarci di sistemare
il tutto. Mi ci vorrà qualche minuto, quindi è
meglio non passarci troppo
tempo, qui dentro.»
Senza
dire una parola, Tito
rivolse al ragazzo un cenno di ringraziamento e poi scivolò
nella stanza. Lidia
preferì fermarsi sull’uscio, esaminando per
qualche istante sul catenaccio che
pendeva, storto e inutile, sull’altro lato del pannello di
legno. Il fatto che
quella sembrasse una serratura fatta apposta per chiudere
fuori qualcuno le parve sospetto, ma l’esclamazione
dei
suoi due accompagnatori la distrasse da quei pensieri. «Lo
sapevo, io, che ci
avremmo trovato qualcosa di interessante!» fece Tito, con un
sorriso eccitato
disegnato sul volto.
La
stanza che si apriva davanti
ai loro occhi era profondamente diversa da quelle che avevano trovato
nel resto
della casa. Se gli altri locali rientravano perfettamente nello stile
delle
abitazioni germaniche, con i loro pavimenti di legno, le pareti di
calce e i
soffitti con le spesse travi d’abete a vista, quella in cui
si trovavano ora
era un semplice vano completamente bianco. Bianche erano le mattonelle
che
ricoprivano il pavimento e le pareti fino all’altezza di un
metro e mezzo,
bianco era lo smalto di cui era dipinto il soffitto, bianche le luci
che si
erano accese al loro ingresso e che correvano lungo il bordo superiore
delle
pareti. La finestra sul fondo della stanza era sbarrata da degli scuri
che
impedivano alla luce del sole di penetrare nel locale.
«Non
capisco» disse Hermann,
guardandosi attorno confuso. «Che cos’è
questo posto? Un ripostiglio?»
Non
v’erano tappeti, né vasi, né
alcuna suppellettile che potesse rendere la stanza vagamente
accogliente. Gli
unici elementi d’arredo erano il minuscolo tavolino quadrato
posto al centro
del locale, la sedia di acciaio posizionata accanto ad esso ed alcuni
armadietti metallici disposti lungo le pareti. Nel locale, che a Lidia
parve
angusto e claustrofobico, regnava un odore strano: polvere,
umidità e qualcosa
di aspro e sottile che la fanciulla non seppe identificare.
«Non…
non lo so» mormorò Tito,
con gli occhi sgranati, rispondendo alla domanda che Hermann aveva
posto poco
prima. Avvicinandosi a Lidia, le porse la tavoletta. «Tienila
un attimo, per
favore. Facciamo una ricerca veloce: è probabile che
troveremo solo altre
scartoffie, però…»
La
ragazza afferrò la mappa con
le mani sudate e se la fece scivolare nella tasca del grembiule.
«D’accordo,
però cercate di toccare il meno possibile. Questo posto non
mi piace. E, Tito,
mi raccomando: da qui non portiamo via niente, chiaro? Assolutamente
nulla!»
Il
ragazzo le rivolse uno sguardo
teso. «Non sono cretino: questo posto non piace nemmeno a me.
Però mi pare la
prova lampante che i vostri Sacerdoti nascondono qualcosa di strano.
Non
possiamo rinunciare a quest’occasione di scoprire qualcosa di
più.»
Lidia
avrebbe voluto replicare
che in realtà sì, potevano benissimo girare sui
tacchi e lasciare Kay ai suoi
misteri e alle sue stanze bianche. Avrebbero potuto fare ciò
che Alexander
aveva raccomandato loro di fare: recuperare Ulf e abbandonare il
castello in
tutta fretta. Tuttavia, c’era qualcosa che le impediva di dar
voce a quei pensieri:
una curiosità strisciante, la sensazione di essere a un
passo dallo scoprire
qualcosa di importante. «Certo, però state
attenti» mormorò, con la voce un po’
strozzata, stringendo istintivamente le dita sullo stipite della porta.
Rivolgendole
un cenno d’assenso,
Hermann fece scorrere lentamente l’anta
dell’armadietto più vicino. Lidia si
ritrovò a trattenere il fiato, poi esalò un
sospiro quando scorse l’espressione
delusa del giovane. Il ragazzo estrasse un fascicoletto scritto nella
stessa
lingua incomprensibile che avevano avuto modo di osservare nello studio
di
Donna Erin. «Ecco, appunto» disse, sventolando
affinché i due compagni
potessero vederlo. «Scartoffie. Qui ci sono solo un mucchio
di scartoffie.»
«Qui
invece potrebbe esserci
qualcosa di interessante» disse Tito che, nel frattempo,
aveva raggiunto l’armadietto
più vicino alla finestra sbarrata. «Non
è un’altra mappa, né niente di simile,
però…» Con estrema attenzione, il
giovane romano posò sul tavolino una specie
di cubo di plastica in cui erano inseriti una moltitudine di
cilindretti
colorati. Hermann gli rivolse uno sguardo incuriosito.
«Cos’è
quell’affare?»
Tito si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea.
Parrebbero… contenitori?»
Dalla
sua postazione accanto alla
porta, Lidia allungò il collo per vedere meglio, senza
però trovare la forza di
volontà di entrare in quella stanza che le faceva mancare il
respiro. Dopo aver
sistemando il fascicolo là dove l’aveva trovato,
Hermann raggiunse il romano
accanto al tavolo. «Contenitori con dentro cosa,
esattamente?»
Dopo
un istante di esitazione,
Tito scelse un cilindretto dal tappo giallo e lo estrasse dal
contenitore. La parte
inferiore della provetta era trasparente e il ragazzo se la
accostò al volto,
osservando la polvere biancastra che vi era contenuta.
«Sembrerebbe quasi
talco, ma dubito che lo sia, no?» chiese, lanciando
un’occhiata veloce a
Hermann.
Rapido,
il giovane svitò il tappo
del piccolo recipiente e provò ad annusarne il contenuto.
«Non sa di niente»
decretò, stringendosi nelle spalle. Riposta la prima
provetta nel contenitore,
ne estrasse un’altra dal tappo verde e poi una con il tappo
blu. «Sinceramente,
non capisco proprio cosa accidenti siano queste cose»
mormorò, alzandole contro
la luce. Nella prima era contenuta una sorta di fanghiglia grigiastra,
mente la
seconda pareva custodire delle foglie secche, tritate in frammenti
minuscoli.
«Forse
sono dei campioni di
qualche tipo?» propose Lidia, sporgendosi leggermente verso
di loro. «Non so
cosa facciano i Sacerdoti durante tutto il giorno. Un po’
pregheranno, ma poi? Magari
fanno degli studi, delle ricerche…»
«Secondo
me, si limitano a
complottare ai nostri danni» ridacchiò Hermann,
sarcastico.
Tito
sorrise. «Mi sa che Lidia ha
ragione. Dopotutto, temo che questo affare non sia poi così
interessante.»
«Allora
ce ne andiamo?» chiese la
ragazza, che iniziava a provare una certa insofferenza. «Da
quanto saremo qui?
Sarà passata almeno mezz’ora dal momento in cui
siamo entrati in casa: è
decisamente ora di andare.» Il giovane romano
annuì. «Sì, sì, adesso ce ne
andiamo» concesse, sistemando il contenitore con le provette
all’interno dell’armadietto
e richiudendo l’anta. «Lasciaci solo dare
un’occhiata rapida agli altri
scaffali.»
«Se
proprio dovete…» mormorò lei,
torcendosi le mani in preda al nervosismo. Nei minuti successivi, i due
giovani
passarono rapidamente in rassegna ai ripiani di tutti gli altri
armadietti: vi
trovarono altri contenitori di provette simili a quello esaminato da
Tito,
altri fascicoletti incomprensibili, alcuni libri sulle piante
medicinali della
Germanica e quello che a Lidia parve una specie di elenco o indice, ma
nulla di
veramente degno di nota.
Quando
giunsero all’ultima teca,
quella più vicina alla porta, Tito si irrigidì,
aggrappandosi pesantemente all’intelaiatura
di ferro dell’armadio. Hermann, che era di fianco a lui, gli
posò
istintivamente una mano su un braccio, prima di ritrarla come se fosse
stato
scottato.
«Tito?»
chiese Lidia. «Va tutto
bene?»
Il
ragazzo annuì. «Sì, mi è
solo
venuta una fitta di mal di testa. Mi sembra che in questo posto inizi a
mancare
l’aria…»
«Pare
proprio anche a me»
concordò lei, indietreggiando di un passo e riportandosi in
corridoio. «Direi
che abbiamo cercato abbastanza. Abbiamo buttato via un sacco di tempo
in
maniera del tutto inutile: adesso andiamo. Tu te ne torni da Caleno, e
io e
Hermann vediamo di rintracciare mio marito. Che ne dite?»
Hermann
parve leggermente
combattuto e lanciò un’ultima occhiata alla
stanza, ma, dopo qualche secondo,
annuì a sua volta. «D’accordo: fuori
tutti, che devo sistemare il catenaccio.»
***
Capitolo molto significativo, come potete vedere
*insert sarcasm here*
Nelle prossime settimane vedrò di
rimaneggiarlo un pochino e magari di
cambiare un po’ di cose che non mi convincono. Il prossimo
aggiornamento non
sarà a breve: causa matrimonio di perfetto sconosciuto e
ricerca di un vestito
decente rimandata all’inverosimile, fino a lunedì
non scriverò nemmeno una
parola.
In più, stimo che, per buttare
giù praticamene ex-novo il prossimo
capitolo mi ci vorranno almeno due settimane.
Eh, va be’… pazienza!