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Autore: Francine    24/05/2018    2 recensioni
You remember me when the west wind moves
Upon the fields of barley
You'll forget the sun in his jealous sky
As we walk in fields of gold

È giunto il tempo di pagare i debiti. Do ut des, dicevano i romani. Ed è giunto anche per Saori il momento di saldare i suoi, di debiti. Cominciando col riscuoterne uno che risale a qualche anno addietro...
Genere: Avventura, Fantasy, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio, Saori Kido
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Will you stay with me, will you be my love
Among the fields of barley
We’ll forget the sun in his jealous sky
As we lie in the fields of gold

 
 


Quando il sole sta tingendo i tetti bassi di Roma, puoi avere la sensazione che, mentre dietro ai vetri e alle persiane cotte dal sole le massaie stanno preparando la cena, alla Città Eterna piaccia avviarsi verso la notte come una biglia colorata che rotoli piano, con dolcezza, senza troppa convinzione. Come se non potesse fare altro. Come se qualcuno si fosse dimenticato di inserire un freno, un’ancora, qualcosa con cui arrestare il proprio moto.

E, forse, è meglio così, pensa Saori avanzando nella luce aranciata che scalda le insegne antiquate delle botteghe che occhieggiano accanto ai portoni dei palazzi. Un ciabattino, due frutterie, un’edicola, un pastaio, un panettiere, un sarto, una ferramenta con delle bolle di sapone in vetrina…

Lui avanza a passo spedito, come se fosse di casa in quel quartiere aggrappato alle pendici della Casilina, macinando il marciapiede tra gli odori esotici e le insegne straniere che si amalgamano, curiosamente, col murales gigantesco che campeggia su tutto il muro bianchissimo del mercato coperto, al centro di una piazza: è il profilo nerissimo di un lupo a fauci spalancate, chiuso dentro due cerchi, uno giallo e l’altro rosso, con l’unico occhio color rosso porpora che sembra guardare proprio te.

È un quartiere di lupi, pensa Saori proseguendo la marcia.
«Carino, qui…»
«Pittoresco, gli si addice di più», risponde lui, la camicia rosso bordeaux che spunta dai pantaloni a sigaretta. Saori s’accorge di non conoscere questo lato della sua vita terrena. Non conosco niente, di lui, pensa. Le ha chiesto fiducia e libertà - «Semmai dovessi organizzare qualcosa, te ne accorgeresti subito. Sei troppo intelligente perché ti sfuggano certi dettagli», le ha detto – e lei è stata più che lieta di concedergliele. Un gesto di buona volontà. Eppure, queste zone grigie non le piacciono. Non le odia, anzi; la incuriosiscono, la intrigano, la spingono a volerle conoscere, esplorare, per ammirarne il panorama, qualunque esso sia.
Ma ci sarà un dopo, in cui poter esplorare questi tuoi lati nascosti? E ammesso che ci sia, mi farai entrare?, si chiede Saori fissando il cielo che si tinge di rosso melagrana e oro zecchino, i sandali di cuoio e la borsa a tracolla che ondeggia al suo fianco.

Lui continua a camminare, rispettando i suoi silenzi e svoltando in strade via via meno trafficate, lasciandosi alle spalle i palazzi di sette, otto piani, e avanzando tra casette basse dall’aria rilassata, coi rumori della cena che arrivano da dietro alle persiane accostate e ai cancelli in ferro battuto dietro i quali spuntano rose in fiore e gelsomini odorosi. Un piccolo paradiso nel logorante caos della città.
Lui le scocca uno sguardo soddisfatto: s’è accorto del sorriso stupito che è sbocciato sulle labbra rosee della Fanciulla e non può fare a meno di domandarle: «Carino, vero?». Pausa. «Il luogo ideale dove mettere su famiglia…»
Una stilettata in pieno petto avrebbe fatto meno male.
È la mia natura, disse lo Scorpione alla Rana. «Come si chiama questa zona?»
«Certosa», risponde. Le indica col mento l’insegna di una trattoria di quartiere. «Siamo arrivati»

Saori sbatte le palpebre, perplessa. L’entrata al regno dei morti si cela nel retrobottega di un ristorante?
«Fidati», le sussurra Lui, posandole una mano su una spalla per poi spingerla con delicatezza verso la porta di legno. In quel momento esce una ragazza dal locale. La scopa che tiene tra le dita magre è più grossa di lei.
«Siamo ancora chiusi», annuncia, senza alzare lo sguardo su di loro.
Lui si limita ad un colpo di tosse, e lei si volta. I suoi grandi occhi scuri, messi in evidenza da una spessa linea di eye-liner nero, si fissano sul suo viso. Le labbra a cuore, di un color carne opaco, si arricciano in un sorriso.
«Buonasera!», trilla, come un uccellino ammaestrato. Abbandona la scopa contro la porta d’ingresso e aggiunge: «Seguitemi, prego.», precendendoli all’interno.
«Che le hai fatto?», domanda Saori, tra i denti.
«Lascio mance generose», ribatte Lui, scortandola verso un pergolato che occhieggia dalla porta in fondo alla stanza.
«Ecco il vostro tavolo», cinguetta la ragazza, indicando loro un angolino tranquillo. Ha più tatuaggi che pelle, pensa Saori. «Accomodatevi, vi porto subito l’acqua e i menu»,dice, e poi sparisce all’interno a passi lunghi e ben distesi.
Lui le scosta la sedia, Saori abbandona la borsa sulla spalliera accanto a sé e si accomoda. Quando le si siede di fronte, gli lancia un’occhiata di rimprovero.

«Lo so, lo so», dice Lui, posando le mani sulla tovaglia di carta a quadretti bianchi e verdi. «L’ambiente è un po’ spartano, ma la cucina è favolosa. Spettacolare. Ci viene mezza città, sai?»
«Non si era parlato di una cena…»
«A pancia piena si ragiona meglio.»
«Non cambierò idea.»
«Perfetto. Dunque, cosa vuoi che sia una piccola dilazione?»
«Il tempo fugge.»
«Sì. Ha questa brutta abitudine», ribatte Lui, serafico.
«Ho delle responsabilità.» Lo sguardo di Saori si fa più deciso. «Ci sono delle persone che dipendono da me.»
«Punto primo, quelle persone sono morte. E per loro, il tempo è un concetto relativo», le spiega Lui, paziente, il capo leggermente piegato verso la sua spalla destra, le punte dei capelli che sfiorano la stoffa della camicia di buona fattura. «Punto secondo, dove si trovano loro, il tempo non scorre. È congelato in un eterno presente.»

Tacciono, fissandosi negli occhi, lo splendore argentato delle foglie d’ulivo contro il verde impossibile di un laghetto di montagna. O di cocci aguzzi di bottiglia in controluce.
La cameriera ritorna – ha trovato il tempo per allacciarsi un grembiule nero attorno ai fianchi – posa due bicchieri e una bottiglia d’acqua, e sparisce, lasciandoli soli.
«Tutto il contrario di quello che succede qui. Ti volti un attimo, uno solo, e loro sono già cresciuti…» commenta Lui fissando la porta alle spalle di Saori. E lei capisce.
«È tua…»
«…figlia. Sì. Si chiama Layla. Come la canzone.»
«Non sapevo avessi una figlia.»
«Ma come, tesoro? Ma se proprio tu mi hai chiesto di presentarti mia figlia
Touché… «Non questa figlia», ribatte lei. «L’altra.»
«Quale? Quella che vive a New York e fa la commessa da Embryo Concept? O quella che ha un’azienda agricola in Madagascar? Oppure alludi a…»
«Smettila.»
Lui piega la testa da un lato, come un cane che non ha capito il comando datogli dal padrone.
«Okay, okay. D’accordo. Crystal lavora da Barnes e Nobles. Embryo Concept non esiste, giusto. Non sapevo avessi visto anche tu Cenerentola a Parigi.» Sorride. «Ti piacciono le interiora?», le domanda, cambiando argomento.
«Non proprio…»
«Allora lascia perdere i rigatoni con la pajata. Qui fanno una carbonara da urlo…» Fa un cenno verso la porta e Layla si materializza accanto a Saori. «Una porzione di rigatoni alla carbonara, una di bucatini all’amatriciana, due carciofi alla giudia, e mezzo litro di vino della casa.»
«Bianco o rosso? Vengono tutti e due dai Castelli.»
«Rosso», e, come per magia, Layla sparisce, tornando una ventina di minuti più tardi, depositando due piatti fumanti e una caraffa di vetro piena di liquido rosso sangue. «Buon appetito», dice, lasciandoli da soli a soli con la loro cena.
«Mangia, Fanciulla. Il cibo è buono caldo», le dice, armandosi di forchetta ed arrotolando la prima forchettata di bucatini.
Lei lo imita, dubbiosa, infilzando una coppia di rigatoni e portandosela alle labbra. Squisito.

«Com’è?», le chiede.
«Delizioso», ribatte.
«Che t’avevo detto?»
«Non credevo avessi altri figli, oltre ai tre che hai avuto dalla Sposa.»
«E allo stallone che ho regalato al Viandante», le rammenta Lui. «Non è stato un parto facile, sai? Anzi. Una vera e propria impresa, ecco cos'è stato! Eppure, tutti se ne dimenticano.»
«Non è usuale che un maschio partorisca.»
«Certo che no. Ma ero diventato una giumenta. Rammenti?»
«Rammento.»
«Non essere gelosa, Fanciulla», le dice, e la voce del Viandante si fa strada nella memoria di Saori.

«La presenza della Sposa non gli ha mai impedito di procreare altri figli fuori dal talamo. È un dio norreno. È un maschio. Fai bene attenzione, Fanciulla, quando giochi col Fuoco.»

Ma lei non vuole partorire un figlio. Ne ha dodici – tredici – da salvare, da riportare indietro dal Regno delle Ombre. Non può darne uno al Fuoco – Vorresti?, le chiede la voce di Athena, senza nascondere una risata - perché è questo il motivo che l'ha costretta ad imbracciare la verginità. Per non partorire un figlio, che potesse rivendicare diritti sul trono del Fulmine. Eppure…

«E poi, dimentichi Lukas», dice la voce del Fuoco, perforando i suoi pensieri e rompendo un incantesimo.
«Lukas?»
«Loki di Asgard», specifica Lui, arrotolando un’altra forchettata.
«Adesso ricordo. Sì, è vero. C’era qualcosa di familiare, in lui, e adesso capisco cosa. Avete gli stessi occhi.» Di un verde impossibile. Luminosissimo. Profondo. Come cocci aguzzi di bottiglia in controluce. Che ravvivano una fiamma che sonnecchia con una sola, singola, fugace occhiata. Come fa il vento accarezzando distrattamente le braci accese. 
«Avevamo», replica Lui, «fino a quando il tuo Pegaso non me l’ha ammazzato. Ma non ce l’ho con quel ragazzo. Lukas se l’è cercata.» Sospira. «Quel ragazzo mancava di fantasia», commenta. «Ma adesso, mangia, tesoro. Altrimenti si raffredda.»
 


Note:
Oramai ho rinunciato a chidervi perdono per i ritardi clamorosi (e ridicoli) con cui aggiorno le mie storie. Non ci sono scuse, questa è la verità, ché quando la tua vita assomiglia ad una specie di frullatore impazzito le scuse diventano superflue. Sicché, prendetemi per come sono, ché non c'è speranza; solo, tanta buona volontà.

Ho ritrovato i file - gli appunti - che avevo scritto a suo tempo, e che erano finiti in fondo ad una memoria esterna quando sono stata costretta a far formattare il pc. Li avevo dati per dispersi, e siccome la storia è praticamente finita, mi era presa malissimo all'idea di dover riscrivere tutto daccapo. Ma anche no. Invece, spulciando spulciando, ho ritrovato la cartella dedicata a questa storia, i file coi capitoli e altre cose che stavo cercando - che sono poi il motivo e la cagione che mi hanno spinto ad esplorare una memoria estarna da 1 Tera...

Semmai ci fosse qualcuno all'ascolto che s'era letto i primi due capitoli, bel bello, lo pregherei di lanciare i pomodori a destra e le carote a sinistra. Se, invece, è la prima volta in assoluto che leggi di questa vicenda, benvenuto. O benvenuta.

Il quartiere di cui parlo in questo capitolo è la Certosa, una zona di un quartiere molto popolare di Roma. E sì, il Padre dei Lupi dove può vivere, se non all'ombra della lupa?
Il murales di cui parlo esiste davvero: è apparso all'alba dello scudetto del 1983 e fino al 2016 c'era ancora, rinnovato anno dopo anno. No, non sono romanista. Sono juventina. È una vitaccia...
Esiste anche la trattoria a cui accenno, proprio in quel quartiere, specializzata in cucina romana (la fiera delle interiora). Se vi capita, fateci un salto, pure se siete vegetariani: fanno una versione veg della carbonara da urlo!
   
 
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