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Autore: Watson_my_head    25/05/2018    6 recensioni
Sherlock è morto. Cosa è successo in quei due anni prima del suo ritorno?
Questa è la storia di John, un uomo distrutto costretto a venire a patti con se stesso e a trovare la forza, forse, di cambiare il proprio destino.
#introspettivo #friendstolover #fixingpostreichenbach #happyending #dontbescared!
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti. 
Riecomi con un aggiornamento un po' tardivo, lo so, ma c'è una cosa che continua a mettersi in mezzo, la vita. Spero che questo capitolo vi piaccia.
I need some love, c'mon.


 


 


“Di questo per me si tratta, di essere il resto di alcune persone, delle loro sottrazioni.

Porto il vuoto che mi hanno lasciato.”

Erri De Luca, “Non ora, non qui”

 

 

 

 

Non puoi sapere che rumore fanno i tuoi pensieri se non hai mai camminato da solo di notte. Ed io lo so, fin troppo bene, ormai. Hanno il suono di sussurri segreti e parole non dette. Che rumore fa una parola non detta? E' come uno sguardo non ricambiato. E' un silenzio condiviso. E consapevolezza. O forse no. Ma se non c'è nessuno ad ascoltare, non c'è rumore. Eppure io lo sento. Solo io. E' qui dentro.

Guardo il cielo. E' stranamente limpido. Stelle, niente luna. Sto cercando di tornare a casa, credo. Cammino da un po'. Sono ubriaco. Ho bevuto whisky e tristezza, a dosi alterne. Cammino, ma non so dove sto andando. Vai a casa John. Si vado a casa. Cosa direbbe Ella se ti vedesse adesso? Ella ha ragione. Sono costantemente sulla difensiva. Non voglio parlare, non voglio affrontare. Non voglio restituire, come dice lei. Cosa devo restituire? Io non ho niente. Niente. L'unica cosa che mi resta è questo. E se lo restituisco sarò più vuoto. Non posso lasciarlo andare. Non voglio nemmeno provarci. Se lascio andare, sarà finita davvero. Niente ultimo miracolo per me. Niente. Continuo a camminare. Mi gira un po' la testa e va bene così. Annebbiamento. E' davvero come galleggiare. Morbido, lento, lasciarsi andare. Se non fosse per l'irrefrenabile corso dei miei pensieri, potrei decidere di restare annebbiato sempre. Non è da te John. No, non lo è. Nemmeno questo sono io. Non so più chi sono in realtà. Forse nemmeno l'uomo seduto in cucina a scrivere file a caso sul suo pc. Forse nemmeno lui. E non sono più il dottore diligente. Diligente. Forse non ho mai usato questa parola da sobrio. Non sono nemmeno lui comunque. E non sono questo tizio ubriaco che cammina per Londra di notte, da solo. Dove sono? Stai andando a casa, John, continua a camminare. E non sono l'uomo che parla con Ella. Ah, di certo non sono lui. Quello non dice mai niente di sè. Credo che lei lo sappia bene. Forse semplicemente sono tutte queste cose messe insieme. Pezzi di uomo. Ecco cosa sono. Pezzi di me messi insieme, male. Pezzi che non combaciano più perfettamente. Sono un uomo a pezzi. Mi guardo nel riflesso di una vetrina. Sembro intero, comunque. Non è l'immagine giusta. Le persone a pezzi dovrebbero potersi riconoscere, avere segni sul viso e sulle mani. Spaccature profonde. E nessuno dovrebbe chiedere il perché. Così dovrebbe essere. Liberi di essere a pezzi davanti a tutti. John, cosa stai dicendo? Metto a fuoco l'uomo che vedo di fronte a me. Sono io. Mi avvicino per guardare meglio il mio viso. Sono io? No, quello è solo un riflesso. Un riflesso è ciò che potrei essere davvero, in realtà. Mi sto cercando da mesi e alla fine potrei essere qui, nel riflesso di una vetrina a caso. Mi allontano di nuovo, passo una mano sulla testa. Vorrei farli smettere. Pensieri inutili. Continuo a camminare verso casa. L'orologio di una farmacia segna le 3 e 28. Ed io sono solo. Qualcuno cammina dall'altro lato della strada, sento voci lontane e sorrisi. Una giovane coppia si abbraccia vicino alla fermata dell'autobus. Ed io sono solo. Di fronte a me, un uomo alto cammina a lunghe falcate nella mia direzione. Si avvicina e mi sorpassa indifferente. Ignoro il breve flash di un paragone che non ha ragione di essere. Qualcuno cammina dietro di me da un po'. Credo sia una donna. Ma io sono solo. E vorrei essere a letto, a non dormire. Sei arrivato John. Sei a casa. Finalmente, casa. Se così si può chiamare. Alzo lo sguardo ed ognuno di quei pezzi di cui sono fatto mi lascia. Mi guardo intorno. Poi guardo a terra, prendo un respiro. Rialzo lo sguardo. E mi sento completamente sconfitto. Tradito da me stesso.

 

221B, Baker Street.

 

E non è qui che stavo andando. Ma è qui, che sono tornato.

 

Devo andarmene. Non posso entrare qui dentro. Dio, ti prego, fa che io abbia le chiavi. Ho già le mani in tasca, mentre cerco di rimettere a posto i pezzi. E combatto, combatto con tutte le mie forze contro me stesso. Mi piego un po', appoggio le mani sulle ginocchia, occhi spalancati, respiro forte. Rifletti John, rifletti. Sai già che entrerai. E' inutile riflettere. Stai zitto, lasciami pensare. Il pavimento del marciapiede, così come lo ricordavo, calpestato distrattamente un milione di volte. Non posso alzare di nuovo lo sguardo, non ancora. Devo riflettere. Posso vedere i nostri piedi correre veloci e saltare su un taxi. O camminare lenti, vicini, al ritorno da un caso concluso, mangiando cibo da asporto. Cristo, questo non mi aiuta. Chiudo gli occhi. Respira John. Le mani nelle tasche toccano il mazzo di chiavi e qualcos'altro. Riapro gli occhi, tiro fuori un biglietto. Un numero di telefono e un nome di donna. Aggrotto la fronte. Non ricordo chi sia. E' importante adesso? Puoi pensarci domani. Concentrati John. Lo rimetto nella tasca, riassumo una posizione dritta, tiro fuori le chiavi e le guardo. Le conto. Sono cinque. Le riconto. Sono 6. Le conto di nuovo. Sono cinque. Concentrati John, stai andando fuori di testa. Respiro. Quindi, hai le chiavi. Qualcosa o qualcuno dentro di me sta sorridendo. Mi prendo in giro da solo.

Fuori di me, la notte, il silenzio. Solo brevi passi lontani e luci di lampioni. Dentro di me, la guerra.

Lo faccio. Guardo la porta. E' sempre uguale. Come se non fosse cambiato nulla. E' una porta John, cosa doveva cambiare? Colore? Mi guardo intorno, come fossi un ladro. Perché sai che stai facendo qualcosa di sbagliato. Ecco, l'altro qualcuno dentro di me che non sorride affatto. Dovrei dargli ascolto, penso, mentre mi sto già avvicinando alla porta con le chiavi in mano. Mi gira ancora la testa. Questo lo rimpiangerai, domani. Fisso i numeri. Casa. Magari la serratura è stata cambiata. Dio, fa che non sia così. La chiave gira, senza problemi, come ricordavo. Sono sollevato. E terribilmente spaventato. Sento il cuore battere su per la gola. Lo faccio velocemente, entro e mi chiudo la porta alle spalle. Mi appoggio con la schiena e chiudo gli occhi. Voglio respirare questo odore, imprimerlo nel cervello. E' casa, senza dubbio. Polvere, legno, tappeti, un sentore lontano di miele e qualcosa di chimico. E sono ancora fermo all'ingresso. Riapro gli occhi. Le scale di fronte a me. Mrs. Hudson non deve essere in casa, avrebbe sentito la porta aprirsi. Sarebbe uscita, avrebbe fatto mille domande, mi avrebbe rimproverato per non essere mai passato. Grazie a Dio, non c'è. A questo avresti dovuto pensarci prima. Faccio un passo. Guardo in alto. Che cosa sto facendo? Cosa mi aspetto di trovare o di ritrovare? Non lo so. Ella dice che non è più il tempo di negare niente. E' il tempo di fare quello che voglio, quando voglio. E adesso io voglio salire le scale. Non credo sia questo che intendeva Ella. Tornare qui a crogiolarsi nel, com'è che l'hai chiamato? Profumo di casa. Raccontaglielo alla prossima seduta, se ci riesci. Ignoro l'ultimo pensiero razionale e inizio a salire le scale, al buio. Le ho fatte così tante volte. Così tante volte... Sento il rumore dei miei passi sui gradini, voglio ricordarli, ad uno ad uno. Chiudo gli occhi e salgo a memoria. Sono ancora confuso. A tratti penso di non essere qui dentro. Forse sono tornato a casa, l'altra, ubriaco e sto dormendo, sicuramente vestito, sul letto e sto sognando di essere qui. Riapro gli occhi immediatamente. Non deve essere un sogno. Non lo è. Sono quasi davanti all'appartamento, al buio da solo, ma nessun posto è mai stato così luminoso come questo, in questo preciso momento. La porta è socchiusa. Mi permette già di intravedere l'interno. E' buio, ovviamente, ma le luci esterne illuminano debolmente tratti di pavimento e mobili. Il mio respiro accelera. Ho perso il conto dei miei battiti. Potrei essere nel pieno di un attacco di panico. E' solo emozione, paura, tensione, rabbia, calore. Tutto insieme. Potrei soccombere a me stesso, senza nemmeno entrare. Invece, appoggio una mano sulla porta e spingo, ma lentamente, fino ad aprirla del tutto. Faccio un passo e mi fermo. Chiudo gli occhi. Mi investe come un'onda, senza possibilità di scampo.

Avevo perso il mio odore. In tutto questo tempo, lo avevo perso. Come un animale che non sa più riconoscersi, ho vagato per mesi cercando me stesso, nelle strade deserte, nelle vetrine dei negozi di notte, nelle parole di una psicoterapeuta di giorno, nei sogni nascosti, nei vecchi vestiti, nel fondo di bicchieri vuoti. E invece, eccomi qui. Ero sempre stato qui. E nel profumo di un appartamento vuoto, all'improvviso, mi sono ritrovato.

 

Respiro forte. Appoggio una mano alla parete per sorreggermi. Mi sento travolto. Cerco di descrivere a mente quello che sento, per ricordarlo quando ne avrò bisogno, quando sarò di nuovo solo, fuori di qui. E' il miele. E' legno vecchio e mattine noiose. E' la pioggia, quella battente, finestre aperte e camino acceso. E' un giornale sul tavolo. E' la polvere. Oh, e il tè, onnipresente, inebriante. Tappeti consumati, e terra. Adrenalina. Ferro e ruggine. E' il sangue. Toast. Corde di violino, libri vecchi. Umidità. Carta da parati e vernice. Notti insonni. Solventi. E' casa. Questo è l'odore di casa, il mio odore. Ma ne manca uno. Manca il tuo.

Apro gli occhi.

Ogni cosa è al suo posto, coperta da teli bianchi. Non manca nulla. Niente che io riesca ad individuare almeno. Ma forse sono troppo sopraffatto per capirlo. Resto fermo dove sono, vicino alla porta, una mano sulla parete e da qui posso attraversare con lo sguardo tutta la stanza. Succede all'improvviso, come nella scena di un film. In un istante non ci sono più teli bianchi, e vedo tutto esattamente come dovrebbe essere, forse anche meglio. Ogni cosa riacquista il suo colore. Il suo spessore. La sua dimensione. Sto impazzendo? Guardo il divano. E ti vedo. Sei allungato, con gli occhi chiusi e le mani unite, sotto il mento. Camicia bianca e pantaloni neri. Capelli. La luce del mattino ti illumina da dietro e sei immobile. Palazzo mentale. Abbasso lo sguardo. Mi passi davanti. Sei coperto di sangue e vaneggi. Automaticamente mi sposto e mi schiaccio contro la parete. Come se un sogno ad occhi aperti potesse colpirmi. Come se io potessi disturbare con la mia presenza vera quello che è solo un ricordo vivido. Ti osservo. Cammini per la stanza. Non riesco a capire cosa stai dicendo. Svanisci all'improvviso. Sei rannicchiato sulla tua poltrona adesso, maglietta e pantaloni del pigiama. Le ginocchia al petto, la testa appoggiata sopra. Sembri un bambino. Guardi il camino e sembri triste. Dov'ero quando ti ho visto così? Ti muovi appena. Sospiri. Aggrotto la fronte, vorrei raggiungerti. Svanisci di nuovo. Esci all'improvviso dalla cucina, occhiali trasparenti, ampolle nelle mani, vestaglia aperta. Vai verso la finestra e ti fermi ad osservare. Dici qualcosa. Cliente? Fai una faccia annoiata, torni indietro. Ti vedo così chiaramente che credo quasi tu possa essere vero. Non sei vero. Sparisci in cucina, di nuovo. Ed ora sei davanti alla finestra, di schiena, camicia viola e pantaloni neri. Stai suonando. Ma io non sento niente. Posso solo vederti, immaginarti, in realtà. Ma non posso sentirti. Perché non riesco a sentirti? Ho creato una tale illusione... Mi prendo la testa tra le mani. Di nuovo teli bianchi, buio e luci esterne.

Come quella sera, mi lascio scivolare sulla parete e mi siedo per terra. Appoggio la testa sulle ginocchia e resto così. Ti è piaciuto John? Ne è valsa la pena? Ti senti meglio? Non mi sembra. Che cosa speravi di ottenere? Che cosa credevi di trovare? Me stesso. E ti sei trovato? Non appartieni più a questo luogo. Niente appartiene più a questo luogo. Non riesci nemmeno a ricordare il suono di quella voce. Lo capisci? Devi andartene. Voglio restare. Mi manca tutto questo. Mi manca da morire. Voglio addormentarmi qui, svegliarmi e trovare tutto come era prima, scendere, fare colazione, lamentarmi per il disordine e poi correre per Londra, rischiare di morire, vivere, e alla fine tornare qui. Questo voglio. Non è più tempo di negare niente. E' il tempo di fare quello che voglio, quando voglio. Ma questo non puoi farlo, John. Non puoi farlo. Non potrai farlo, mai più.

Ed è in mezzo ad uno di questi pensieri tristi e sconnessi che ad un certo punto mi sono addormentato.

 

***

 

“John.”

“John.”

Qualcosa mi toccava il braccio. Sentii il mio nome, di nuovo.

“John, svegliati.”

Aprii gli occhi con difficoltà. Volevo continuare a dormire ma la posizione non doveva essere delle più comode. Avevo la schiena a pezzi. Mi svegliai rendendomi conto di essere seduto sul pavimento del soggiorno senza capire il perché. Poi ricordai, quando vidi le mie mani fasciate. Misi a fuoco. Ti eri abbassato davanti a me, una mano sul mio ginocchio, le nostre teste alla stessa altezza. Mi fissavi, sembravi preoccupato. Occhi nei miei.

“John, che stai facendo?”.

Forse era una domanda riferita al fatto che stessi dormendo seduto sul pavimento, certo, ma alle mie orecchie suonò come una questione più generale. Dopotutto il mio comportamento iniziava a sembrare strano anche a me, ormai. Riflettei sul fatto che per uno come te, in grado di prevedere un uragano dal battito d'ali di una farfalla, il mio modo d'essere così diverso nelle ultime settimane, o almeno, il cambiamento che avevo inconsciamente sviluppato, doveva essere stato perfettamente chiaro quasi fin dall'inizio, come avevi tenuto a precisare con quel monologo quella volta davanti alla tv. Ma ero altrettanto sicuro che per quanto ne riguardasse la spiegazione, tu barcollassi nel buio più completo. Non era un uomo dedito ai sentimenti Sherlock Holmes. E comunque barcollavo nel buio anche io.

Certo, avremmo potuto esplorarlo insieme. Oh, per piacere.

Mi strofinai gli occhi. Era ancora buio intorno a noi. Forse le 4 del mattino, non ne avevo idea. Continuavi a scrutarmi.

“Mi sono addormentato” - fu la prima cosa che riuscii a dire.

“Questo l'avevo capito da solo, John.” - sembravi infastidito.

Cominciai a chiedermi se fosse il caso di alzarsi e uscire da quella situazione. Si che lo è. Non mi sentivo a mio agio. Il tuo sguardo indagatore era fastidioso. Non avevo intenzione di parlare con me stesso, figurati con te. No, non l'avrei fatto. Continuavi a fissarmi.

“Sherlock?” - e “la smetti di fissarmi e ti sposti” era sottinteso, ma nemmeno poi così tanto. Sei strano John Watson. Un'ora fa volevi vederlo dormire tutte le notti. Adesso vorresti scappare come un codardo.

“Perché dormi sul pavimento? Non hai mai dormito sul pavimento, perché oggi si? Perché?” - mi stringevi il ginocchio. Il tuo disagio derivato dall'ignoranza, era palese. Volevi sapere. Tu dovevi sapere ogni cosa. Sempre. Ah non penso proprio. Non questa volta.

“Sherlock!” - alzai un po' la voce spostando la tua mano dal mio ginocchio. Mi stavo arrabbiando e non capivo nemmeno il perché. La tua mano rimase a mezz'aria, insieme alle mille parole non dette di cui era pieno l'appartamento.

“Non lo so, sono sceso, ho visto che dormivi, mi sono sentito stanco e mi sono addormentato. Tutto qui.” - cercai di riacquistare il contegno che avevo perso nel momento esatto in cui ti avevo guardato la prima volta, quella notte.

Sei rimasto in silenzio ma non ti sei spostato. Potevo quasi sentire il rumore dei tuoi pensieri, rapidi e ingarbugliati sotto quei capelli.

“Non farlo.” - ti ho detto con voce ferma.

“Non fare cosa.”

“Non stare lì impalato a dedurmi come fossi un cliente qualsiasi. Smettila.”

“Non sto facendo niente.”- ti sei accigliato, con quelle rughe di espressione in mezzo alla fronte, tipiche del tuo sconcerto o del tuo sarcasmo. Non saprei dire. Perché non ti sposti e basta?

“Spostati Sherlock”. Mi sono schiarito la voce.

Mi hai guardato ancora, per quello che credo sia stato un minuto o una vita intera. Poi all'improvviso ti sei alzato, ti sei voltato e sei andato alla finestra. Ed io potevo di nuovo respirare. Chiusi gli occhi. Complimenti Watson.

“Dobbiamo partire. Lestrade mi ha mandato un messaggio. Nuovo caso.” - ti sei voltato di nuovo verso di me - “Sempre che tu voglia venire.”- hai guardato le mie mani. Io nel frattempo mi ero alzato e me ne stavo appoggiato alla porta.

“Certo che voglio venire.” - mi sono affrettato a rispondere.

“Allora preparati. Abbiamo mezz'ora.”

Mi avviai verso la mia camera salendo le scale velocemente. Sentivo già l'adrenalina di un nuovo caso scorrere nelle mie vene. Questo era quello che volevo e basta. Senza pensare ad altro. Senza implicazioni di nessun genere. Mentre mi vestito promettevo a me stesso che mai più mi sarei permesso tali debolezze, niente pensieri notturni, niente dormite sul pavimento, niente sguardi nascosti. “Sempre che tu voglia venire”. Che significa sempre che tu voglia venire? Che razza di affermazione è? Cos'era cambiato all'improvviso? Aveva forse letto davvero qualcosa nel mio sguardo? Aveva dedotto qualcosa che io stesso faticavo a comprendere? Probabile. Lui era sempre un passo avanti a tutti. Che dico uno, almeno dieci. Ma non poteva aver capito qualcosa di cui nemmeno io ero a conoscenza. Non ero certo di niente. Assolutamente di niente. L'unica cosa di cui ero certo era che fra mezz'ora saremmo partiti per un risolvere un nuovo caso. E che Sherlock Holmes non sarebbe andato mai da nessuna parte senza di me.

 

 

Tranne quella volta, sul tetto del Barts.

 

 

***

 

“Dottor Watson.”

Mi sveglio all'improvviso con un movimento spasmodico della testa. Qualcuno è in piedi davanti a me. Cerco di mettere a fuoco, ma so già chi sia. Anche controluce, è inconfondibile.

“Perché dorme sul pavimento?” - mi domanda, educatamente.

Cristo, mi prende in giro?

“Non lo so, ma sono piuttosto certo che non siano affari suoi, Mycroft”.

   
 
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