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Autore: Piperilla    31/05/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Quel sabato, Giulia non sapeva dove sbattere la testa: tra le faccende di casa, fare la spesa, accompagnare sua madre a sbrigare delle commissioni e la festa di compleanno di una sua ex collega, non aveva quasi tempo per respirare. Nonostante questo, la curiosità sua e di Tiziano di sapere com'era andato l'appuntamento di Vera fu più forte di tutto il resto: i due si erano messi al lavoro di buona lena fino a ritagliarsi un'ora libera dopo pranzo, e si erano affrettati a invitare l'amica a prendere un caffè a casa loro.
   Vera aveva fiutato la loro intenzione di sottoporla a un interrogatorio nel momento stesso in cui Giulia l'aveva chiamata; aveva cercato di tergiversare, di trovare scuse, ma le pressioni combinate dei due – e le minacce di Tiziano di organizzarle una serie di appuntamenti al buio – l'avevano fatta capitolare.
   Alle due e mezza del pomeriggio, una Vera sbuffante e scontenta zoppicò verso la porta di casa Massari-Ranghieri, pronta a essere bombardata di domande.
   La coppia non la deluse: Vera fece appena in tempo a varcare la soglia che Giulia l'afferrò per un braccio e la trascinò in cucina, dove Tiziano la spinse su una sedia. I due sedettero di fronte a lei, spalla a spalla, e per un istante Vera non seppe se ridere o essere spaventata.
   «Allora: dicci tutto» ordinò Giulia, saltando ogni preambolo.
   Vera sospirò: non aveva proprio voglia di raccontare quello che era successo la sera prima, ma sapeva perfettamente che i suoi migliori amici non avrebbero desistito fino a quando non avessero conosciuto tutti i particolari. Così la ragazza raccontò in modo rapido e dettagliato com'era andata la serata, dal momento in cui Vittorio era andata a prenderla a casa fino a quando non ce l'aveva riportata.
   Quando finalmente tacque, i padroni di casa fumavano di rabbia.
   «Quel verme schifoso!» tuonò Giulia, battendo un pugno sul tavolo. «Se penso che sabato scorso gli ho stretto la mano... gliela dovevo sbattere in faccia, la mano!»
   «Vuoi che lo ammazzi?» preferì chiedere Tiziano con aria fosca.
   Vera si accigliò. «Tizià, mi sa che hai qualche problema di gestione della rabbia» commen­tò. «Perché quando qualcuno manca di rispetto a me o a Giulia, la tua prima e unica opzione è l'omicidio?»
   «Perché lei è l'amore della mia vita e tu la mia sorellina» rispose lui senza esitazioni. «Nes­suno tratta male le mie donne, se vuole restare tutto intero».
   Giulia manifestò la sua approvazione per le parole di Tiziano con un bacio talmente focoso da far gemere di disgusto Vera.
   «Ma insomma! Non potete aspettare che me ne vada?» si lamentò l'ex ginnasta. «Non vo­glio assistere al concepimento del mio secondo nipote!»
   «Ah no? Sicura?» la punzecchiò l'amica prima di tornare seria. «Per fortuna Valenti ne ha dette quattro a quel deficiente... anche se gli avrebbe dovuto mollare anche un paio di ceffoni, giusto per rafforzare il concetto».
   «Zitta, va', che c'è mancato poco che lo facesse» replicò l'altra.
   Per alcuni lunghi istanti calò il silenzio, mentre i tre erano persi ognuno nei propri pensieri.
   «Dannazione!» sbottò Tiziano, alzando le braccia al cielo.
   Le due donne si voltarono verso di lui.
   «Che c'è?» chiese perplessa Giulia.
   Suo marito sbuffò, contrariato. «C'è che Valenti è stato un grande. Adesso devo farmelo sta­re simpatico per forza!»
   Vera e Giulia lo fissarono per un momento, incredule; poi scoppiarono a ridere.
   «Glielo farò sapere: ne sarà estasiato» sghignazzò la prima.
   «Non c'è niente da ridere: sono serio» replicò immusonito l'uomo. «Adesso che ti ha difesa in questo modo, non sono più libero di detestarlo: è una catastrofe!»
   «Non ti sembra di esagerare?» gli chiese sua moglie in tono ragionevole. «In fondo si sta rivelando una brava persona. Un po' burbera, ma buona. Che male ci sarebbe, a non detestarlo?»
   Tiziano si voltò con tutto il corpo verso di lei e le mise le mani sulle spalle. «Tesoro, io ti amo e lo sai, ma ti sfugge il nocciolo della questione» disse serio, guardandola dritto negli oc­chi. «Anche se Valenti avesse baciato la terra su cui cammina Vera dal primo istante in cui l'ha incontrata, resta un ostacolo insormontabile tra un'eventuale amicizia tra me e lui». Fece una pausa. «È romani­sta».
   Vera scoppiò a ridere e Giulia gli diede uno spintone: Tiziano rischiò di cadere dalla sedia, e per alcuni istanti mulinò disperatamente le braccia nel tentativo di non perdere l'equilibrio.
   «Valenti sarà pure romanista, ma tu sei un idiota» decretò Giulia, corrucciata. «E pensare che ti ho sposato!»
   «E pensare che ci hai fatto una figlia!» rincarò la dose Vera tra una risata e l'altra.
   La sua migliore amica impallidì.
   «Ci ho fatto una figlia» ripeté con voce flebile. Si coprì il volto con le mani. «Oh Dio, Lu­dovica potrebbe diventare come lui!» gnaulò disperata.
   «Ehi!» sbottò Tiziano, oltraggiato, e l'ex ginnasta rise più forte.
   «Penso che questo sia il momento giusto per andar via» commentò, alzandosi. «Buon divertimento!»
   I due neanche la sentirono, impegnati com'erano a battibeccare, e Vera si affrettò a lasciare l'appartamento prima che la loro attenzione si appuntasse di nuovo su di lei.

******

Nonostante fosse trascorsa una settimana da quando aveva assistito al disastroso appuntamen­to di Vera, Vittorio provava ancora il desiderio di prendere a calci Fabio: glielo suggeriva lo stesso tipo di rabbia che più volte l'aveva messo nei guai con i suoi superiori o mentre era in servizio, e sebbene una parte di lui fosse fiera di aver dominato quell'impulso, l'altra si lamen­tava a gran voce per aver perso l'occasione di insegnare a quell'omuncolo che quello in cui si era esibito non era il modo giusto di trattare una donna. Soprattutto non una come Vera, non poteva fare a meno di pensare: sì, quella ragazza aveva un caratteraccio in grado di fargli sal­tare i nervi un giorno sì e l'altro pure, ma dopo tutto quello che aveva passato, di si­curo non meritava di essere umiliata in quel modo.
   Seduto sul proprio letto, il quarantenne stava immaginando di stringere la mani intorno al collo di Fabio quando qualcuno bussò alla porta.
   «Valenti?». Uno dei suoi colleghi mise dentro la testa e scandagliò veloce la stanza con gli occhi, alla sua ricerca. «C'è una persona che chiede di te».
   Sbuffando, Vittorio s'infilò le scarpe e andò nell'ingresso.
   «Non si risponde più al telefono?» disse Vera a mo' di saluto non appena lo vide arrivare.
   L'uomo si tastò le tasche, perplesso, prima di ricordare che aveva lasciato il cel­lulare sul comodino il pomeriggio precedente e non l'aveva più toccato. «Deve essersi scari­cato». In­crociò le braccia al petto e la squadrò, cauto. «Che è successo?»
   «È sabato e io mi annoio» rispose Vera con una scrollata di spalle.
   «E allora?» insisté Vittorio.
   Lei s'infilò le mani nelle tasche dei jeans e piegò appena la testa di lato. «Vuoi proprio sen­tirmelo dire, vero?»
   Vittorio le rivolse uno sguardo innocente. «Non so di cosa stai parlando».
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Senti, a casa mi annoiavo e ho pensato che se non eri di turno potevi aver voglia di andare a prendere un caffè qua vicino e fare quattro chiacchiere, ma se non ti va...»
   «Mi va» la interruppe il carabiniere. «Fammi prendere la giacca e andiamo».
   Dieci minuti più tardi, i due entrarono in un bar poco distante il comando, ordinarono un caffè e andarono a sedersi a uno dei tavolini all'esterno.
   «Allora, Gamba Bionica». Vittorio sorrise compiaciuto al mugugno iracondo con cui Vera rispose al nomignolo. «Come mai hai scelto di uscire proprio con me?»
   Lei gli scoccò un'occhiataccia. «Francamente non lo so più» ringhiò. «Venerdì scorso avevo avuto l'impressione che potesse essere piacevole passare del tempo in tua compagnia, ma ini­zio a credere di aver preso un granchio».
   «Tutto questo astio mi pare eccessivo» replicò l'uomo, accigliato. «E poi non lo sai che un sorriso fa sembrare più giovani?»
   «Prendendo per buona questa teoria, tu dovresti dimostrare cent'anni» ribatté prontamente Vera. Inarcò le sopracciglia e sorrise beffarda. «E comunque sei tu quello che ha sempre la fronte aggrottata, come in questo momento: ti farà venire un sacco di rughe».
   D'istinto Vittorio si lisciò la fronte con la mano, e altrettanto spontaneamente guardò Vera con un cipiglio che non la intimorì affatto, quando lei gli scoppiò a ridere dritto in faccia.
   «Sei insopportabile» bofonchiò Vittorio.
   «Almeno in questo siamo uguali» commentò la ragazza con sincero divertimento.
   Vittorio si adagiò contro lo schienale della sedia e si preparò a lanciare una risposta taglien­te; prima che potesse riuscirci, però, un'ombra si allungò sul tavolino ed entrambi si voltarono verso la donna alta e attraente che si era appena fermata lì accanto.
   Allarmata, Vera osservò il volto del carabiniere irrigidirsi e impallidire, per poi coprirsi di chiazze rossastre tra il collo e le orecchie.
   «Vittorio» disse altera la sconosciuta che torreggiava su di loro. «Finalmente ti ho trovato».
   Vittorio si alzò.
   «Emanuela» ringhiò con una ferocia che Vera non gli aveva mai sentito nella voce. «Che ci fai qui?»
   Emanuela incrociò le braccia al petto e lo guardò, apparentemente incurante della sua rab­bia. «Visto che da oltre due settimane non rispondi alle mie chiamate né ai miei messaggi, ho deciso di venire a Roma e parlare con te...»
   «Un po' tardi per entrambe le cose, non trovi?» disse sarcastico Vittorio.
   «Per fortuna il tuo collega, al comando, mi ha detto che eri uscito a piedi e che di sicuro eri nelle vicinanze» proseguì Emanuela, ignorando la sua interruzione. Si spostò una ciocca di capelli scuri dal volto e rivolse uno sguardo tor­bido a Vera. «Anche se di sicuro non mi aspettavo di trovarti con la tua... amichetta».
   «Lasciala fuori» esclamò brusco l'uomo. «Adesso, smettila con tutte queste pose e dimmi che diavolo vuoi: non ho tutta la giornata, e anche se l'avessi, non la sprecherei con te».
   «No, immagino bene con chi e come la sprecheresti» ribatté sua moglie, scoccando un'altra occhiataccia a Vera.
   «Ti ho detto di lasciarla fuori da questa storia» le abbaiò contro Vittorio.
   «Se avesse voluto restare fuori da questa storia, non sarebbe dovuta venire a letto con te» ri­spose mordace Emanuela.
   Vera si alzò e prese la borsa. Le insinuazioni e l'indignazione di Emanuela non la toccavano affatto, ma a quanto pareva la sua presenza stava surriscaldando ulteriormente gli animi, e non voleva creare a Vittorio più problemi di quanti già non ne avesse.
   «Valenti, è meglio se me ne vado» disse, prima di voltarsi a guardare l'altra donna. «Signo­ra, mi spiace doverla deludere ma tra me e suo marito non c'è mai stato niente di illecito: sol­tanto parecchi insulti e qualche conversazione amichevole».
   «Certo. Ed è per questo che eri seduta qui con lui, a covartelo con gli occhi, vero?» la pro­vocò l'altra.
   La venticinquenne inarcò le sopracciglia. «L'unica cosa che abbia mai covato nei confronti di Valenti è il desiderio di prenderlo a calci».
   Emanuela rise sprezzante. «Se ti aiuta a dormire la notte continua pure a negare, ma sappi che so rico­noscere un traditore e una puttana, quando li vedo».
   Gli occhi ridotti a fessure, Vera lasciò cadere la borsa sulla sedia, fece due passi avanti con insolita rapidità e si fermò di fronte all'altra donna, tanto vicina che i loro nasi quasi si sfiora­vano.
   «Visto che a quanto pare sei tarda di comprendonio, ciccia, cercherò di spiegarmi nel modo più semplice possibile» sibilò Vera. «Io e tuo marito non abbiamo mai fatto sesso: a differen­za tua, che gli metti le corna da un bel pezzo, Vittorio è un uomo perbene, onesto e rispettoso, e anche se non lo conosco da molto, ho visto abbastanza di lui da sapere che è fedele anche con chi non se lo merita» ringhiò, calcando in maniera significativa le ultime parole. «La ve­rità è che tu non meriti Vittorio, sennò non ti saresti scopata il tuo capo, e saresti venuta a Roma appena possibile pur di stargli vicino». Le rivolse uno sguardo disgustato. «E se pro­prio hai tutta quest'urgenza di guardare una puttana, posso prestarti uno specchio».
   «Piccola bastarda!» strillò Emanuela, furibonda; alzò una mano con l'intento di schiaffeg­giare Vera, che da parte sua non si mosse, quasi sfidandola a colpirla e fornirle così un prete­sto per picchiarla a sua volta. Vittorio, invece, si mosse eccome: con uno scatto abbrancò Emanuela alla vita e la trascinò indietro prima che potesse toccare l'altra donna.
   «Lasciala, Valenti» disse minacciosa Vera, facendo un altro passo in avanti. «Lascia che questa troia mi dia uno schiaffo, così ho la scusa per prenderla a calci e ficcarle la protesi dove non batte il sole!»
   «Ti riduco la faccia in poltiglia, stronzetta!» urlò in risposta Emanuela.
   «Vera, ferma lì!» tuonò Vittorio. Scrollò Emanuela, che si divincolava nella sua stretta e ti­rava calci alla rinfusa nel tentativo di colpire Vera. «E tu, smettila!». Nessuna delle due lo ascoltò, e lui indietreggiò ancora. «Volete smetterla di azzuffarvi come due gatte selvatiche?» ululò.
   Di nuovo, entrambe le donne lo ignorarono. Vittorio decise di passare alle maniere forti.
   «Se non vi fermate subito vi arresto, vi butto in due celle separate e vi ci lascio per una settimana!» urlò a pieni polmoni.
   Finalmente Vera smise di avanzare ed Emanuela di dimenarsi.
   «Era ora» esalò esausto l'uomo. Notò sconfortato che un gran numero di persone si era ra­dunato intorno a loro per assistere alla lite, e chiuse gli occhi per un istante, racimolando la poca pazienza che gli era rimasta. «Vera, giuro che non te lo vorrei chiedere, ma...»
   «È meglio che io me ne vada, sì» concluse Vera al suo posto con voce gelida. Rivolse uno sguardo cattivo a Emanuela e scoprì i denti in una smorfia feroce, poi girò sui tacchi, recupe­rò la propria borsa e sparì oltre l'angolo.
   Dopo aver atteso un minuto buono per sicurezza, Vittorio lasciò la presa su sua moglie.
   «Adesso che hai fatto questa sceneggiata sei soddisfatta?» sibilò rabbioso.
   «Se la tua puttana non avesse...» esordì irritata la donna.
   «Ha ragione lei: sei tarda di comprendonio» la interruppe Vittorio. «O forse vuoi soltanto sentirti meno colpevole per avermi tradito pensando che io abbia fatto lo stesso, ma non è così, e qualsiasi cosa tu dica, non cambierà la realtà dei fatti». Aprì la bocca, pronto ad ag­giungere qualcosa, ma ci ripensò; ripescò da una tasca alcune monete e le lanciò sul tavolo, poi prese Emanuela per un gomito e la trascinò a una ventina di metri dal bar. Quando la la­sciò, incrociò le braccia al petto e la soppesò con lo sguardo. «Basta giochetti, Emanuela. Che – cosa – vuoi?»
   Lei lo guardò male per alcuni momenti; poi chiuse gli occhi e prese un gran respiro.
   «Te l'ho detto: sono venuta per parlare con te» rispose piano prima di tornare a guardarlo. L'espressione tempestosa di Vittorio non si attenuò ed Emanuela chinò la testa. «Vittorio, io... io voglio provare a recuperare il nostro matrimonio» mormorò.
   «No» rispose all'istante il carabiniere.
   Emanuela rialzò la testa di scatto. «Perché no?» chiese brusca. «Stiamo insieme da vent'an­ni: non conta proprio niente, per te?»
   Istintivamente Vittorio fece un passo in avanti, le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati.
   «Non sono io quello che ha calpestato le promesse che ci eravamo fatti!» sibilò. «Non sono io che ho provato a cambiarti, non sono io ad averti tradita né ad averti lasciata sola!»
   «Mi dispiace, va bene?» replicò la donna, gli occhi umidi. «Ho sbagliato a tradirti, ma tu puoi dire, in tutta onestà, di non aver avuto una parte di responsabilità, in questo?»
   Vittorio la fissò con gli occhi sgranati. «Scusa? Adesso sarebbe colpa mia se tu mi hai tradi­to per più di due anni?»
   «Tu eri così... distante!» sbottò Emanuela, passandosi le mani tra i capelli. «Passavi in ca­serma più tempo di quanto si aspettassero da te, pur di non stare a casa!»
   «Come potevo aver voglia di stare a casa, se non facevamo altro che discutere?» ribatté Vit­torio.
   «Discutevamo perché...» esordì Emanuela.
   «... perché volevi cambiare quello che sono!» la interruppe l'uomo, inacidito. «Dovevamo uscire sempre con i tuoi amici chic, continuavi a comprarmi vestiti che detestavo, a trascinar­mi in locali alla moda e a dirmi che dovevo cambiare modo di comportarmi, parlare, pensa­re!»
   «Volevo solo condividere più cose con te!» si difese lei, le braccia incrociate sul petto.
   «No, tu volevi farmi vivere secondo i tuoi gusti» controbatté Vittorio. «Neanche una volta, negli ultimi anni, hai accettato di fare qualcosa che piacesse a me, ma ti aspettavi che io fa­cessi tutto quello che piace a te».
   «E tu, per tutta risposta, ti sei allontanato e mi hai lasciata sola!» strillò Emanuela. «E poi ti sorprendi che io ti abbia tradito?»
   La bocca di Vittorio si arricciò fin quasi a scoprirgli i denti.
   «La verità, Emanuela, è che se anche sei stata innamorata di me, hai smesso di esserlo mol­to tempo fa» disse con calma forzata. «Se lo fossi stata non avresti cercato di cambiarmi... e non mi avresti negato dei figli».
   «Ecco qual è il problema!». Emanuela alzò le braccia al cielo, esasperata. «Ancora la que­stione dei figli, sempre la questione dei figli!»
   «Ovviamente!» abbaiò Vittorio. «Hai sempre saputo che ne volevo e non hai mai pensato di dirmi che tu, invece, non ne vuoi!»
   «Non è vero che non li voglio!» urlò la donna in risposta. «Io li voglio, dei figli, ma come posso mettere al mondo dei bambini con te se continui a fare questo lavoro? Come faccio a diventare madre e stare tranquilla, se in qualsiasi momento può capitarti qualcosa? Il tuo è un lavoro pericoloso!»
   Vittorio la fissò a bocca aperta.
   «Tu non hai mai accettato di avere dei figli per il mio lavoro?» ripeté in un sibilo.
   «E ti sorprendi?» berciò Emanuela.
   «Certo che mi sorprendo!» replicò lui. «Che ti aspettavi che facessi – che ti sposassi e dopo qualche anno lasciassi l'Arma e mi trovassi un bel lavoretto da scrivania?»
   «Sì!» gridò Emanuela. «Sì, è esattamente quello che mi aspettavo! Che tu cambiassi, che crescessi e capissi che non non c'era modo costruire una famiglia, se continuavi a fare quel lavoro!». Tacque e prese qualche respiro profondo nel tentativo di calmarsi. «È per questo che sono venuta a Roma: possiamo ancora salvare il nostro matrimonio, se sei disposto a fare qualche sacrificio». Gli rivolse uno sguardo duro e limpido. «Lascia i Carabinieri, e sono pronta ad avere un figlio. Subito».
   Incredulo, Vittorio la squadrò per un minuto buono prima di richiudere la bocca.
   «Se avessi avuto ancora qualche dubbio sul volere il divorzio, questa conversazione li avrebbe fugati tutti» disse con calma ingannevole. «Io amo essere un carabiniere, perché il punto è proprio questo: non è un lavoro – è una vocazione, uno stile di vita. Io sono questo e non ho nessuna intenzione di cambiare: è sempre stato così, e lo sai dal giorno in cui ci siamo conosciuti. Come hai potuto pensare che un giorno sarei stato disposto a congedarmi dall'Ar­ma?». La squadrò di nuovo, stavolta con disprezzo. «Io non ti ho mai chiesto di cambiare, mentre tu non hai fatto altro che cercare di farmi diventare una persona diversa. A questo punto è chiaro che io non sono quello che vuoi, e francamente tu non sei più la persona con cui voglio invecchiare». Scosse la testa e le voltò le spalle. «Vattene, Emanuela, è meglio».
   Emanuela, invece, l'afferrò per un braccio e lo costrinse a guardarla di nuovo.
   «No che non me ne vado!» protestò. «Non puoi rinunciare così a tutto quello che abbiamo costruito in vent'anni! Voglio un'ultima possibilità – me lo devi!»
   «Io non ti devo niente» rispose gelido Vittorio. «È finito il tempo in cui eri tutto quello che volevo. Adesso, l'unica cosa che ancora voglio da te è il divorzio».
   La donna lasciò la presa sul suo braccio e sussultò come se l'avesse schiaffeggiata.
   «Sei sicuro di volere questo?» chiese piano.
   Il carabiniere non mosse un muscolo. «Tu eri sicura di volermi cambiare, quando hai tenta­to di farlo? Eri sicura di voler fare sesso con il tuo capo, quando hai deciso di tradirmi? Eri si­cura di voler stare lontana da me, quando sono stato rispedito qui e tu hai scelto di restare a Milano?»
   Due lacrime colarono dagli occhi di Emanuela. «Lo so che ho sbagliato» mormorò.
   «Dovevi pensarci prima: adesso è tardi» rispose secco Vittorio.
   «Quindi finisce tutto... così?» disse Emanuela.
   L'uomo si passò una mano sul volto. «È già finito, e da un pezzo» commentò. «Ci siamo ostinati a stare insieme, a fingere che non fosse cambiato nulla, ma era cambiato tutto e lo sappiamo entrambi. Continuare in questo modo non ha senso».
   Sua moglie abbassò lo sguardo. «No, forse non ce l'ha».
   Vittorio incrociò le braccia e prese un bel respiro. «Emanuela, ascoltami: dopo tutti questi anni di... di nervosismo, e di astio reciproco, vorrei chiudere la nostra storia in modo rapido e pulito. Non ho voglia di combattere attraverso avvocati e giudici: preferirei evitarlo, e ho una proposta da farti».
   «Ti ascolto» rispose lei in tono piatto.
   «Allora, partiamo da un presupposto che credo sia chiaro a tutti e due: tu mi hai tradito in modo regolare e guadagni il triplo di me, il che significa che posso ottenere gli alimenti senza problemi» disse Vittorio, andando dritto al nocciolo della questione. «Quello che veramente mi interessa, però, è liberarmi della mia parte del mutuo: ormai dell'appartamento a Milano non me ne faccio più niente. La mia proposta è questa: se metti subito in vendita la casa, estingui il mutuo e mi dai la mia metà dei soldi che restano, io rinuncio agli alimenti».
   Emanuela si strinse goffamente nelle spalle. «Va bene. In fondo non è come se tirarla per le lunghe potesse farti cambiare idea, no?» commentò amara. «Ormai hai deciso».
   Vittorio scosse piano la testa. «Non sono in grado di dimenticare tutto quello che è succes­so. Fidati, Emanuela: è meglio così».
   Anche Emanuela incrociò le braccia al petto, e rivolse a Vittorio uno sguardo astioso. «Se lo dici tu, sarà così» rispose glaciale.
   Il carabiniere scosse di nuovo la testa e le si avvicinò, le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti verso l'alto in un gesto conciliatorio. «Emanuela, mi...»
   La donna si scostò con un gesto brusco. «Non dire che ti dispiace. Quella è la mia battuta, no?» lo interruppe sarcastica. «Ti terrò aggiornato sulla vendita della casa» si congedò.
   Vittorio la guardò andare via, poi girò sui tacchi e tornò verso la caserma a passo di marcia; quando vi rimise piede, un paio di suoi colleghi ancora in abiti civili e un terzo alla guardiola lo salutarono, ma lui non si fermò a ricambiare.
   Nella propria stanza, Vittorio si scaraventò sul comodino, attaccò il cellulare al caricabatte­rie prima di riaccenderlo e provò a chiamare Vera: batté nervosamente la punta del piede a terra mentre gli squilli si succedevano, ma nessuno rispose. Riprovò a chiamarla una seconda e una terza volta, sempre senza successo; al quarto tentativo a vuoto, Vittorio posò il cellulare sul comodino con tanta forza da rischiare di rompere il telefono e si lasciò sfuggire un ringhio inarticolato.
   «Vittò?» chiamò cauta una voce. Il carabiniere alzò lo sguardo e vide Claudio nel vano del­la porta, l'espressione guardinga. «Che ti è successo?»
   Vittorio prese a camminare per la stanza, lanciando, a intervalli regolari, occhiatacce al cel­lulare.
   «Mia moglie è venuta a Roma» mugugnò scontento. «È venuta a cercarmi proprio mentre ero al bar con Vera e ha fatto una sceneggiata in mezzo alla strada, davanti a lei».
   «Vera?» gli fece eco l'altro, perplesso dall'unico pezzo su cui non aveva informazioni.
   «La ragazza della Up! che abbiamo portato in caserma tempo fa» spiegò distratto Vittorio; prese il cellulare e provò ancora a chiamare Vera. «Dai, Vera, rispondi...» bofonchiò a tempo con gli squilli, ma per l'ennesima volta non ottenne rispo­sta. «Che palle!» urlò.
   Claudio lo osservò dalla porta. «Vittorio, che t'importa che quella ragazza fosse presente?» domandò cauto.
   «M'importa!» sbraitò l'altro in risposta. Sferrò un pugno all'armadio. «Perché quella stronza di Emanuela deve complicarmi la vita sempre?»
   Il più giovane scosse la testa. «E vuoi dirmi ancora che quella ragazza non ti piace?»
   Vittorio si mise le mani nei capelli, furioso. «Non mi piace!» ribadì. «Ma a parte te è l'unica persona con cui abbia fatto amicizia da quando sono tornato a Roma, e dopo aver assistito a quella sceneggiata, non mi stupirei se non volesse più avere niente a che fare con me!»
   «Se è davvero tua amica, non cambierà nulla» gli fece notare Claudio.
   Il quarantenne sbuffò. «Emanuela ha puntato Vera non appena l'ha vista» spiegò. «È partita col sarcasmo aggressivo e in un minuto è passata all'attacco frontale: l'ha accusata di essere venuta a letto con me e l'ha chiamata puttana. Ma ti rendi conto che faccia tosta? Maledetta ipocrita...»
   Le sopracciglia di Claudio s'inarcarono tanto da far pensare che si sarebbero fuse con l'at­taccatura dei capelli.
   «Però» commentò soltanto. «E questa Vera come ha risposto?»
   «Per le rime» replicò Vittorio. «Sono arrivate alle mani. Se non avessi trattenuto Emanuela, penso che sarebbero ancora lì a picchiarsi in mezzo al marciapiede: lei era andata fuori di te­sta, e Vera aveva la faccia di una pronta a uccidere». Sbuffò. «Ho dovuto minacciare di arre­starle, per farle stare ferme!»
   «Però!» ripeté Claudio, sempre più colpito. «Certo, penso che qualunque altra donna avreb­be reagito così, se un'altra le avesse dato della troia».
   «Mh?» fece Vittorio, vago, mentre riprovava a chiamare Vera. «Ah, no, veramente è stata Emanuela a cominciare: ha provato a prendere a schiaffi Vera dopo che lei gliene ha dette di tutti i colori per difendermi...»
   «Eh?» esclamò Claudio. Vittorio alzò gli occhi e vide l'espressione sbalordita dell'altro. «Mi stai dicendo che quelle due hanno provato a suonarsele perché tua moglie ti ha offeso e la tua... amica, o quello, che è... le ha detto qualcosa in grado di farle saltare i nervi per difen­dere te?»
   Vittorio batté in fretta le palpebre. «Eh... sì?» azzardò debolmente.
   Claudio continuò a fissarlo a bocca aperta per almeno mezzo minuto prima di ricomporsi.
   «Cristo, Vittorio, mi rimangio quello che ho detto finora» esclamò infine. «Non è lei che piace a te. Sei tu che piaci a lei, e di brutto!»
   L'altro sbuffò una risata. «Diglielo dopo che ha finito di insultarmi: è praticamente l'unica cosa che fa».
   Claudio diede uno sguardo all'orologio. «Finiremo questa discussione in macchina. Adesso dobbiamo prepararci: se iniziamo il turno in ritardo, Testa ci ammazza». Vittorio gli rivolse uno sguardo poco convinto, il cellulare ancora stretto tra le mani, e Claudio scosse la testa, diviso tra la voglia di ridere e quella di prendere l'amico a schiaffi per farlo tornare in sé. «Vittò, proverai a richiamarla dopo».
   «Quest'affare è scarico» mugugnò Vittorio, senza allentare la presa sull'oggetto.
   Esasperato, Claudio lo raggiunse e gli sfilò a forza il telefono dalle mani, incurante delle proteste dell'altro uomo. «Abbiamo un paio di caricabatterie da automobile, in guardiola, che abbiamo comprato tempo fa proprio per queste situazioni: te ne prendo uno, basta che adesso ti prepari!» disse perentorio.
   «Va bene, va bene» si arrese Vittorio.
   Soddisfatto, Claudio andò nello spogliatoio per indossare la divisa, portandosi dietro il tele­fono dell'amico per evitare che cedesse alla tentazione di usarlo invece di cambiarsi, mentre si chiedeva come fosse possibile che un uomo acuto come Vittorio non riuscisse a vedere quello che aveva proprio davanti al naso.
   
 
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