O
forse, nel caso, la terza.
Era stato un inverno freddo, si, freddo e spigoloso, e ne aveva fatte
di
cazzate in quell'inverno lì. Aveva fatto il debole e aveva
messo chi amava in
grande difficoltà. Ora sta meglio, ma il peso della colpa
non manca di gravarlo
ogni tanto. Di punzecchiarlo con le sue verità. Incrocia le
braccia sul petto e
chiude gli occhi. Sono le quattro di mattina. Ha venti minuti per
dormire poi
dovrà essere nuovamente sveglio e assolutamente presente a
sé stesso, questo
sempre ammesso che non si presenti un'emergenza. Marco ama il suo
lavoro e ci
rimetterebbe anche la salute per farlo come si deve. Ma in quel momento
si
sente demoralizzato e stanco. In lontananza le sirene dell'ambulanza si
fanno
sempre più vicine e lui sospira. Eccolo il dovere che
chiama. Si solleva dal
piccolo letto a castello che si incastra con un altro paio di suoi
simili in
una stanzetta grande a malapena per respirare. Spinge la porta e la
luce lo
coglie vivissima, tanto che deve coprirsi la vista con il braccio
destro,
facendosi penzolare davanti agli occhi il braccialetto che gli avevano
dato
quand'era nata Ginevra, quell'angioletto con lo sguardo vispo e
l'indimenticabile sorriso di Nicola. Sono passati due anni, ma lui
ancora non
l'ha tolto. Gli ricorda uno dei momenti più belli della sua
vita e Dio solo sa
quanto ne abbia bisogno.
Si avvicina all'ambulanza e chiede brevemente ai paramedici cosa sia
successo.
Gli parlano di un incidente, uno di quelli che portano tanto lavoro e
tante
delusioni. La barella scivola giù dalla pedana e gli sfila
sotto gli occhi. In
quel momento tutto intorno a lui si blocca e gli sembra di vivere ogni
istante
a rallentatore. C'è sangue, tanto sangue, e in mezzo a
questo... Matteo. Il suo
viso è perfettamente intatto, proprio come due anni e mezzo
prima, quando
l'aveva scosso in un paco rifiuto, nel vano tentativo di farlo
ragionare. I
suoi occhi pieni di dolore e incomprensione è l'ultima cosa
che ricorda di lui.
Adesso sono chiusi e Matteo così pallido.
“Che
è successo?” pigola ancora,
correndo insieme alla barella, le mani appoggiate ai lati di quel corpo
inerme.
“Grave
emorragia” fa un'infermiera
vicino a lui.
Marco quasi ruggisce.
“Questo
lo vedo” sibila e l'altra
sgrana appena gli occhi.
“Lo
hanno tirato fuori dalla macchina,
devono essere stati dei pezzi della carrozzeria...” dice poi
più titubante.
Marco scuote la testa, non gli serve sapere quella roba.
“In
sala operatoria. Ora” fiata e
socchiude gli occhi, la mano ben ferma sul suo polso e quel battito,
lento,
lieve, reso.
Dura tre ore ma alla fine ce la fanno. Marco sfila i guanti e esce da
quella
stanza come se non potesse resistere un istante di più. Si
barrica nella
stanzetta e piange tutte le sue lacrime. Stringe tra le dita il
braccialetto
sottile e lo accarezza come se potesse in qualche modo tirare fuori un
genio e
cancellare quella giornata.
Prende il telefono e scrive un messaggio veloce a Giulietta.
“Dimmi qualcosa di bello”
Se ne sta a fissare il cellulare fino a che non riceve la risposta. Il
suo
volto si apre in un sorriso umido di lacrime quando gli compare davanti
agli occhi
il viso di Ginevra, tutta imbrattata di pappa, che scopre i dentini e
lo saluta
con le mani tese verso lo schermo.
Ed è con quella serenità nel cuore che esce dalla
stanza e si dirige a grandi
passi verso la camera 221. Schiude la porta e si avvicina al letto.
Matteo
sembra sereno in quel momento, come se stesse semplicemente dormendo e
non
avesse ottocento tubi che gli escono da tutte le parti. Paco e
riflessivo come
è sempre stato, ma con il cuore di un leone e la
lealtà di un cavaliere. Marco
si siede sulla poltroncina e azzarda ad allungare la mano verso la sua,
è
appena tiepida. Lo hanno imbottito di sangue, ne aveva perso una
quantità
smisurata, ma ora il suo battito è regolare ed anche il suo
respiro. Non si era
azzardato a richiamarlo quando aveva deciso di lasciarsi alle spalle le
sue
paure e di vivere sé stesso nel modo giusto, quello
più sincero, quando era
finalmente venuto a patti con il fatto che non c'è rimedio
ad una semplice
realtà, bisogna accettarla ed amarla così
com'è. Come la vita infondo, no? E
potrà sembrare banale, ma lui ci aveva messo
un'eternità a capirlo.
Ha finito il turno Marco, eppure non si muove, china appena la testa e
l'appoggia sul letto accanto a quella mano e a quel battito cadenzato e
regolare, cullato da quella piacevole sensazione di sicurezza si
addormenta.
Quando schiude gli occhi è mattina, si solleva di scatto e
capisce subito che
quella non è casa sua, né la stanzetta. Sussulta
quando incrocia l'intenso
sguardo blu della persona distesa lì accanto. Matteo
è sveglio, ma non parla,
ha ancora un casino di tubi attaccati addosso. Prima ancora della
vergogna,
Marco sente il bisogno, medico e meno, di sapere come lui stia. Si
mette in
piedi e dà uno sguardo ai macchinari. È tutto
apposto, allora si avvicina e fa la
domanda di rito, così come sa essere giusto da tanto tempo
ormai.
“Come
si sente?” ma non riesce a non
far tremare la sua voce d'emozione. E un po' arrossisce, ritraendosi
appena,
per evitare di essere troppo ovvio.
Matteo sorride ed anche se quel gesto sembra provocargli un certo
dolore è
comunque meraviglioso. La sua voce esce roca, ma il suo suono
è
dolcissimo.
“Mai
stato meglio”.
Marco sente le lacrime pizzicargli gli occhi, così annuisce
e si dilegua con un
rapido:
“Vado a
chiamare il collega” che non aveva né capo
né coda, poi si appoggia al muro
poco fuori dalla porta e ride. Ride come un deficiente.
Perché forse anche per
gli idioti patentati come lui esiste la seconda occasione. O forse, nel
caso,
la terza.