Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Piperilla    07/06/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Vera sospirò.
   Era in macchina, diretta al centro di Roma, e la suoneria del suo cellulare le martellava il cervello come faceva ormai da tre giorni. La ragazza non aveva neanche bisogno di guardare lo schermo per sapere che era di nuovo Vittorio, a chiamarla: dopo aver trascorso il sabato pomeriggio a ignorare i suoi tentativi di mettersi in contatto con lei, stanca di controllare il cellulare per essere sicura che non fosse qualcun altro, a cercarla, si era decisa a impostare una suoneria personalizzata per il numero del carabiniere.
   Per il momento in cui Vera parcheggiò, il suo cellulare aveva ripreso a squillare, e per la se­sta volta in quella giornata la ragazza si trovò ad ascoltare Demon's eye dei Deep Purple usci­re a tutto volume dall'altoparlante del telefono.
   Rassegnata, Vera prese il cellulare e rispose.
   «Finalmente!» strillò la voce di Vittorio prima ancora che Vera potesse dire alcunché. «Ci voleva così tanto, a rispondere?»
   «Che vuoi, Valenti?» replicò Vera a denti stretti.
   «Prima di tutto assicurarmi che tu stia bene: ero preoccupato» disse il carabiniere. «A giu­dicare dal tono acido, direi che sei in perfetta forma» aggiunse pungente.
   «Ah-ah» cantilenò sardonica Vera. «Adesso che hai detto la battutona di giornata, ti serve altro?»
   «Dobbiamo parlare» sparò Vittorio.
   «Guarda che non sono tua moglie, che fai minacce del genere» ribatté la ragazza.
   «Non la nominare!» mugghiò Vittorio.
   «Come ti pare» tagliò corto lei. «Valenti, ho da fare: arriva al punto, in fretta, per favore!»
   «Voglio parlare con te di quello che è successo l'altro giorno» articolò l'uomo, sbuffando. «Di persona, prima che tu dica qualcosa tipo “Stiamo già parlando”» l'anticipò. «E voglio parlarne oggi: quindi o mi dici dove ci possiamo vedere, o vengo a cercarti a casa. Sono si­curo che tuo padre sarà felice di offrirmi un caffè...»
   Anche Vera sbuffò, inferocita. «Sei fastidioso, Valenti: te l'ha mai detto nessuno?»
   «Dove?» insisté imperterrito Vittorio.
   La donna si passò la mano libera sulla fronte. «Ho un appuntamento tra un quarto d'ora» ringhiò. «Non posso liberarmi prima delle cinque...»
   «Dimmi dove sei: vengo lì e aspetto che tu finisca» la interruppe lui.
   «Sono a Tor di Quinto!» sbottò Vera, frustrata. «Ti mando l'indirizzo su WhatsApp, conten­to?»
   «Molto» rispose soddisfatto Vittorio. «Ci vediamo alle cinque».
   Senza perdere tempo a replicare Vera gli chiuse la chiamata in faccia, appoggiò la testa al volante e gemette di rabbia e fastidio.

******

Alle cinque e un quarto, in una via a pochi minuti da Ponte Flaminio, Vittorio passeggiava nervoso davanti al civico che Vera gli aveva indicato nel messaggio, controllando i portoni d'ingresso di due palazzine ogni volta che invertiva la direzione della propria marcia. Era lì già da mezz'ora nonostante Vera gli avesse detto che non si sarebbe liberata prima delle cin­que, e quella lunga, infruttuosa attesa stava facendo nascere in lui il sospetto che la ragazza gli avesse detto un indirizzo a caso, probabilmente dalla parte opposta di Roma rispetto a quella in cui si trovava davvero.
   Vittorio era intento a valutare le proprie opzioni – se attaccarsi di nuovo al telefono fino a quando Vera non gli avesse risposto, andare direttamente a casa di lei o tornarsene in caserma – quando uno dei portoni si spalancò e l'intreccio confuso di due voci si levò nell'aria.
   Il carabiniere si voltò a guardare la scena: Vera era aggrappata allo stipite della porta, men­tre un uomo di qualche anno più grande di lui cercava in tutti i modi di spingerla fuori.
   «Non lo voglio vedere: fammi restare qui!» gnaulò la ragazza.
   Lo sconosciuto le piantò una spalla in mezzo alla schiena nel tentativo di smuoverla. «Vera, io ho da fare e la tua non è un'emergenza» ribatté. «Te lo ricordi quali sono le situazioni che consideriamo emergenze, no?»
   «Sì» rispose scontenta Vera, senza però allentare la presa sul portone. «Ma scusa, Gianpao­lo, che fastidio ti do se rimango giusto un altro paio d'ore? Mi metto in un angolo senza fiata­re, neanche ti accorgerai che ci sono!»
   «Stai solo facendo i capricci» ansimò lui. Si passò una mano tra i capelli brizzolati prima di afferrare le mani di Vera per cercare di staccarle dal montante. Invano. «Vera, questo tuo im­provviso comportamento infantile mi preoccupa molto: forse dovremmo ricominciare a ve­derci più spesso, magari una o due volte a settimana...» disse in tono scaltro.
   Vera lasciò lo stipite come se di colpo fosse diventato incandescente. «No!»
   Gianpaolo sogghignò e la ragazza si rese conto con un attimo di ritardo di essere stata mes­sa nel sacco: provò ad aggrapparsi di nuovo alla porta, ma l'uomo l'aveva già spinta in avanti, sul pianerottolo, verso i pochi gradini che scendevano fino al piazzale tra i due condomini.
   «Ti odio!» grugnì Vera al suo indirizzo.
   «Ci lavoreremo la prossima volta» replicò Gianpaolo senza battere ciglio; scorse Vittorio, che si era avvicinato tanto da trovarsi solo a un paio di metri dall'ingresso, e gli rivolse un al­legro cenno di saluto con la mano prima di tornare dentro, ignorando completamente la ra­gazza.
   Rassegnata, Vera scese i gradini con la testa incassata tra le spalle.
   «Ciao, Valenti» mugugnò.
   Vittorio non rispose: il suo sguardo sconcertato continuava a saettare da lei al portone oltre cui Gianpaolo era sparito.
   «Cosa... che... quello... chi...» farfugliò. Sotto lo sguardo sardonico della ragazza, deglutì e si sforzò di comporre una frase di senso compiuto. «Chi era quello?» riuscì a chiedere.
   «Il mio psicologo» rispose Vera. Accennò con la testa al marciapiede. «Facciamo una cam­minata?»
   Vittorio annuì. I due si avviarono lentamente verso il Lungotevere; in silenzio lo raggiunse­ro e si fermarono a metà strada tra Ponte Flaminio e Ponte Milvio, dove si appoggiarono alla ringhiera, a guardare il fiume.
   «Allora» disse Vera dopo un po'. «Non... non volevi parlare dell'altro giorno?»
   Il carabiniere si girò verso di lei, un gomito appoggiato al parapetto.
   «Io sì, ma tu no» rispose calmo. «Almeno a giudicare dal modo in cui il tuo psicologo ha dovuto spingerti fuori dallo studio».
   Vera abbassò lo sguardo sulle proprie dita. «È che non credo siano affari miei» mormorò.
   «Sciocchezze» replicò Vittorio, senza staccare gli occhi dalla ragazza. «Sono diventati affa­ri tuoi nel momento in cui Emanuela ha deciso di prendersela con te». Prese un respiro pro­fondo. «Volevo chiederti scusa per quello che ti ha detto...»
   Lei lo zittì agitando una mano. «Tua moglie è una donna adulta: solo lei è responsabile del­le sue azioni. Non devi scusarti per come si è comportata». Lo guardò di sottecchi. «Anzi, forse sono io a dover chiedere scusa a te: ho l'impressione di aver peggiorato la situazione, provocandola».
   «Nah» commentò il carabiniere con una scrollata di spalle. «Voleva attaccare briga, ci ha provato anche con me, dopo che te ne sei andata».
   L'espressione di Vera divenne scettica. «E sarebbe venuta fin qui solo per litigare?»
   Vittorio si lasciò sfuggire una strana risata strozzata, simile a un grugnito. «No, per chiedere un'altra possibilità» replicò. «Come può aver pensato che gliel'avrei concessa, io proprio non lo so...»
   «Forse perché dovresti» disse piano la ragazza, rivolgendo di nuovo lo sguardo al Tevere.
   L'uomo sbuffò, l'incredulità dipinta a chiare lettere sul volto. «Ti dirò quello che ho detto a lei, Gamba Bionica: per quanto mi riguarda, il matrimonio tra me ed Emanuela è finito da un pezzo. Sto solo facendo quello che avrei dovuto fare anni fa».
   Vera scosse lentamente la testa. «Non lo so, Valenti. Insomma, non sono nella tua testa quindi non pos­so esserne sicura, ma credo che tu ci tenga ancora al tuo matrimonio, e a tua moglie; per que­sto dico che forse lei ha ragione. Gliela dovresti dare, un'ultima possibilità».
   «E perché dovrei?» chiese beffardo Vittorio.
   «Perché se ci tieni ancora e invece ti ostini a volere la separazione e in seguito anche il di­vorzio, un domani rischi di pentirtene» spiegò Vera in tono asciutto, scandendo le parole come avrebbe fatto con un bambino.
   Vittorio si sporse verso di lei, scrutando attentamente la sua espressione.
   «Spiegami un po' come mai continui a dire che tengo ancora a Emanuela» la esortò con un gesto eloquente della mano.
   Vera indicò quella stessa mano che lui le aveva appena sventolato davanti.
   «Porti ancora la fede» disse piatta.
   Vittorio abbassò lo sguardo sul punto in questione e si rese conto che Vera aveva ragione: la fascia d'oro giallo che portava da vent'anni brillava beffarda dal suo anulare sinistro, quasi a schernirlo di aver creduto in quelle promesse tanto da non sfilarsi mai quel gioiello dal dito. Si era talmente abituato alla sua presenza da non accorgersi neanche più di indossarlo; era di­ventato parte della sua mano al punto da passare inosservato, e aveva finito per dimenticarsi del­la sua esistenza. Un po', rifletté, come i voti che avevano accompagnato quelle vere nuzia­li: erano diventati entrambi inutili e dimenticati.
   Di colpo, il contatto tra quell'oggetto e la sua pelle gli risultò insopportabile.
   «Vuoi vedere che ci faccio, con questa fede?». Vittorio si sfilò l’anello con gesti bruschi e fece per lanciarlo nel fiume. «Ecco, che ci faccio!»
   Vera gli afferrò il polso e lo fermò prima che potesse gettare la fede nel Tevere. «Non credo che dovresti farlo» disse seria. Vittorio la guardò, aspettandosi un discorso profondo sul non arrendersi e sul fare tesoro anche delle brutte esperienze, e un’esortazione a tenere quell’og­getto come ricordo di quel che di buono c’era stato nel suo matrimonio, ma Vera lo spiazzò. «L’oro sta a ventisette euro al grammo. Se proprio vuoi disfarti della fede, vendila: almeno ti metti in tasca un po’ di soldi, fanno sempre comodo».
   Vittorio la fissò con un misto di incredulità e ammirazione. «Cristo, Vera, sei più cinica per­sino di me!»
   Lei si strinse nelle spalle. «Preferisco dire che ho uno spirito pratico» rispose. «Allora, che vogliamo fare? Butti quell’anello e ce ne andiamo, o ti rimetti quell’anello e ce ne andiamo?»
   Il carabiniere si mise a ridere. «Mi pare di capire che te ne vuoi andare».
   Vera si finse sorpresa. «Oh, è così evidente?»
   «Appena appena». Vittorio infilò la fede in un taschino del portafogli e passò un braccio in­torno alle spalle di Vera, che lo guardò perplessa. «Che c’è? Mi sento allegro: hai rimesso le cose nella giusta prospettiva e adesso sono tranquillo».
   La donna sbuffò, scettica. «Secondo me, tu non sei tranquillo neanche quando dormi».
   «Forse hai ragione» concesse lui, insolitamente mansueto; si mosse, costringendo Vera a mettersi in moto. «Ciò non toglie che ora sono di buonumore».
   «Questo sì che è un evento: adesso mi aspetto di tutto. Piaghe bibliche, catastrofi naturali, unicorni che starnutiscono caramelle…» replicò ironica Vera.
   Vittorio strinse un po’ di più la presa intorno alle sue spalle. «Non puoi goderti il momento e basta, Gamba Bionica?»
   Lei alzò gli occhi al cielo e gli passò un braccio intorno alla vita. «Va bene: godiamoci il momento. Ma non ci fare l'abitudine!»
   «Non oserei mai» sghignazzò Vittorio, e suo malgrado, anche Vera sorrise.

******

Quel giorno, Vera era afflitta da un dilemma apparentemente senza risposta: quale era la ver­sione di Vittorio Valenti che le dava più sui nervi?
   Fino a una settimana prima l'ex ginnasta avrebbe detto senza esitazioni che il Vittorio dei primissimi incontri-scontri era imbattibile nel farla infuriare, ma adesso correva il rischio di ricredersi: la nuova abitudine del carabiniere di chiamarla a raffica per farsi rispondere riusci­va davvero a mandarla fuori di testa... e senza neanche averlo di fronte: un risultato che Vera non avrebbe mai creduto possibile.
   Borbottando tra sé, la donna avanzò verso l'indirizzo che Vittorio le aveva dato mezz'ora prima per telefono, dopo averla – appunto – bombardata di chiamate per assicurarsi una pron­ta risposta, domandandosi cosa ci fosse di tanto urgente da farla correre lì.
   Vittorio l’aspettava camminando su e giù lungo il marciapiede, le mani affondate nelle ta­sche dei jeans e l’espressione impaziente. Quando finalmente la scorse, sbuffò.
   «Era ora, Gamba Bionica!» salutò.
   Una volta tanto, Vera non si scompose. «Continua a chiamarmi Gamba Bionica e finirò per ficcarti questa protesi dove non batte il sole».
   «Come siamo permalose!». L’uomo l’afferrò per un braccio e la condusse verso un portone qualche metro più giù. «A proposito, grazie di essere venuta».
   «Peccato che me ne stia già pentendo» rispose sarcastica Vera. «Allora, si può sapere che ti serve? Visto che al telefono non hai voluto dirmi niente…»
   Vittorio non ebbe il tempo di rispondere: una donna sui trent’anni, in pantalone scuro e blu­sa a colori vivaci si fece loro incontro, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto per­fettamente truccato.
   «Buongiorno, signor Valenti: io sono Annamaria Giuffrida, dell’agenzia immobiliare» lo accolse calorosamente, stringendogli la mano prima di concentrarsi su Vera. «E lei deve esse­re sua moglie».
   «Per carità!» scattò Vera, raggelando tanto l’altra donna quanto il carabiniere.
   «Non è mia moglie: soltanto un parere femminile raccattato all’ultimo momento» spiegò Vittorio, pungente.
   Vera digrignò i denti. «Tu sì che ci sai fare con le donne, Valenti» ringhiò.
   Lui finse di non sentirla. «Ci fa vedere la casa, allora, Annamaria?» chiese, sfoderando un sorriso pieno di fascino.
   L’agente immobiliare si sciolse in brodo di giuggiole; Vera trattenne l’istinto di prendere entrambi a schiaffi. «Certo, signor Valenti. Se lei e la signorina volete seguirmi…»
   Annamaria prese un mazzo di chiavi dalla borsa e pescò con sicurezza quella che apriva il portone; i tre andarono dritti verso l’ascensore e salirono fino al terzo piano, per poi entrare nell’appartamento sulla sinistra.
   «Come aveva chiesto, siamo a soli cinque minuti dal comando di Tor Sapienza» esordì An­namaria mentre Vittorio si guardava intorno con aria critica e Vera sbirciava dalle finestre. «L’appartamento è parzialmente ristrutturato: il bagno principale è stato rinnovato un paio d’anni fa e le pareti sono tinteggiate di fresco. Gli impianti sono un po’ vecchiotti, ma finora non hanno dato problemi».
   Vera lasciò Vittorio a discutere con l’agente immobiliare e diede un rapido sguardo a tutte le stanze prima di tornare indietro.
   «Valenti, toglimi una curiosità» disse, intromettendosi nel discorso. «Che te ne fai di tre ca­mere da letto, due bagni e una sala da pranzo? Questa è una casa per una famiglia numerosa, non per un uomo da solo».
   «È vicinissima al lavoro» obiettò lui.
   «È troppo grande» replicò lei. «Pensa al tempo che ti ci vorrà per pulirla, o ai soldi che do­vresti spendere per una donna delle pulizie. E poi è esposta interamente a nord: questo signi­fica poco sole».
   Vittorio aggrottò le sopracciglia. «Da quando sei un’esperta di case?»
   «Ne ho girate tante con Giulia e Tiziano, quando hanno deciso di andare a convivere e com­prarne una» rispose Vera con una scrollata di spalle. «Dovresti esserne contento: mi hai chia­mata o no per avere un parere?»
   «Ma è vicina al comando» si lagnò Vittorio, restio a darle ragione.
   Vera alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Senti, Valenti, fa’ un po’ come ti pare: tanto l’affitto lo paghi tu!»
   L’uomo s’imbronciò, poi si voltò verso Annamaria. «Ne ha altre da farci vedere?» si arrese.
   Cinque minuti e un paio di vie più giù, il terzetto entrò in un altro palazzo: stavolta l’appar­tamento era al quarto piano.
   «L’ascensore è fuori uso per manutenzione» si scusò Annamaria. Vera cambiò colore. «Niente di grave, stanno già risolvendo il problema: se dovesse prendere questa casa, signor Valenti, per il momento in cui si trasferirà la cosa sarà già stata risolta».
   Vittorio non l’aveva ascoltata: era troppo impegnato a guardare Vera. «Se non vuoi venire, non fa niente» mormorò goffamente.
   Lei raddrizzò le spalle. «Non c’è problema» affermò decisa. «Qualche rampa di scale non sarà certo un ostacolo».
   L’uomo si permise di lanciarle uno sguardo scettico, che Vera ignorò. La sua salita fu peno­samente lenta: nonostante tentasse di mantenere l’andatura degli altri due, vedeva con chia­rezza come Vittorio e Annamaria si sforzassero di andare piano per aspettarla senza metterla a disagio. Quando il carabiniere tentò di offrirle il proprio braccio come sostegno, Vera lo rifiu­tò con uno sguardo indignato.
   Arrivare al quarto piano fu un sollievo per tutti. Annamaria fece strada, decantando i van­taggi di quell’appartamento; Vittorio si attardò fuori dalla porta, aspettando imbarazzato Vera. Lei, da parte sua, gli rivolse una smorfia supponente e lo superò, zoppicando più che mai.
   L’agente immobiliare era imbarazzata quanto il carabiniere: si era resa conto che Vera era molto disturbata dal fatto che si notasse la sua andatura faticosa e claudicante, e non sapeva da che parte guardare per non infastidirla. Avrebbe voluto dire qualcosa – offrirle una sedia, chiederle se stesse bene – ma gli occhi di fuoco dell’altra la mettevano in soggezione: era come se la sfidassero ad aprire l’argomento, e promettevano battaglia a chiunque fosse stato tanto audace da cogliere quella sfida.
   L’appartamento era decisamente più piccolo del precedente: un bilocale in cui il sole inon­dava la camera da letto e la sala con angolo cottura.
   Vera diede un colpetto di gomito a Vittorio e indicò le finestre. «Questa casa è esposta a sud: la vedi, la differenza?»
   Vittorio la vedeva eccome, la differenza: anche se erano solo cinquanta metri quadrati, l’appartamentino aveva un’aria molto più allegra e accogliente dell’altro. E poi, piccolo com’era, sarebbe stato facile da tenere in ordine: lui con le faccende di casa se la cavava bene, ma non voleva certo esserne schiavo. Insomma, Vera aveva avuto ragione, anche se lui non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce. Anche perché in quel momento la sua preoccupazione era un’al­tra: avendo Vera così vicino non gli poteva sfuggire il pallore del suo volto, né il fatto che fosse chiaramente sofferente.
   «Perché non ti siedi?» le mormorò: il suo imbarazzo ogni volta che toccava l’argomento della disabilità di Vera e il timore di esprimersi in un modo che potesse infastidirla erano tali da offuscare la sua sincera preoccupazione per lei.
   Vera affilò lo sguardo. «Perché dovrei sedermi?» chiese a denti stretti. «Sto benissimo così. Pensa agli affari tuoi, Valenti».
   Vittorio distolse lo sguardo, offeso da quella replica sgarbata: lui si era soltanto preoccupato per lei, e Vera lo trattava così? Bene: non si sarebbe mai più dato pena per lei, decise.
   La ragazza si allontanò da lui e andò a guardare la strada sottostante da una finestra aperta. Annamaria vide come la sua andatura si fosse fatta ancora più faticosa e, punzecchiata dalla coscienza, si decise a parlarle.
   «Le… le fa male qualcosa? Si vuole sedere un momento?» chiese con gentilezza a Vera.
   Prima che Vera potesse rispondere, però, Vittorio sbuffò.
   «Non ci fare caso, Annamaria: sembra tanto carina e gentile, ma in realtà è una piratessa as­setata di sangue» disse in tono di scherno. «Cammina male solo perché ha una gamba di le­gno».
   «Brutto bastardo!» ululò Vera, infuriandosi all’istante. Gli lanciò la borsa stracolma dritto nello stomaco, mozzandogli il fiato.
   «Ma che hai lì dentro? I mattoni?» grugnì Vittorio mentre si massaggiava il diaframma.    
   «Se ce li avessi avuti, te li avrei tirati in testa: altro che mirare allo stomaco!»
   L’agente immobiliare li fissò, sconcertata: Vera e Vittorio le sembravano una via di mezzo tra una vecchia coppia di sposi e due acerrimi nemici. Non osò intromettersi mentre loro con­tinuavano a litigare, indifferenti alla sua presenza: sull’onda della rabbia le loro voci si alza­vano sempre di più.
   «Magari avresti potuto prendermi a calci» la provocò il carabiniere.
   «Mi hai stancata con quest’umorismo da quattro soldi: è della mia gamba che ridi!» strillò Vera.
   «Non mi lasci altra scelta! Con questo tuo stupido orgoglio non fai che mettere in evidenza ancora di più il problema che tu hai con le tue gambe, e la gente non sa mai come comportar­si!» abbaiò Vittorio. «Metti tutti in difficoltà, non accettando che le persone siano gentili o si preoccupino per te: non lo fanno per ricordarti quello che ti è successo, ma solo per evitare che tu stia male! Se la gamba te l’avessero ingessata, invece di amputarla, non avresti mai fat­to tutte queste scene: avresti permesso alle persone che ti vogliono bene di coccolarti senza diventare un’acida insopportabile! E quando qualcuno ti chiede se vuoi sederti perché vede che ti fa male quella dannata gamba, potresti anche rispondere con un semplice “no, grazie” invece di maltrattarlo e fingere che il problema non esista!»
   «Io non voglio pietà!» tuonò Vera.
   «Non è pietà, è affetto!» gridò in risposta Vittorio.
   I due si scrutarono torvi per qualche istante sotto lo sguardo attonito di Annamaria.
   «Basta, me ne vado» disse infine la ragazza; passando accanto al carabiniere, prese la pro­pria borsa e zoppicò decisa verso la porta. «Buona fortuna con la tua stupida casa!»
   «Sì, brava, scappa di nuovo!» le urlò dietro l’uomo. «Tanto non sai fare altro!»
   Vera neanche si voltò.
   Ancora intimorita, Annamaria si schiarì la voce. «Vuole… vuole vedere... altri appartamen­ti?» chiese in un coraggioso tentativo di riprendere il controllo della situazione.
   Il ringhio inarticolato di Vittorio fu una risposta eloquente.

******

Dopo aver avvertito sua madre che non sarebbe tornata per cena, Vera andò dritta a casa di Giulia e Tiziano. Fu la sua migliore amica ad aprirle la porta, e capì subito che c’era una tem­pesta in arrivo.
   «Entra» disse soltanto, lasciandole spazio.
   Vera si scaraventò oltre la soglia alla massima velocità consentita dalla protesi.
   «Che è successo?» le chiese Giulia non appena si fu richiusa la porta alle spalle.
   «Niente» rispose Vera. «Volevo soltanto salutare te, Tiziano e Ludovica come si deve, pri­ma di finire in carcere. Perché ci finirò, e presto».
   A quelle parole Giulia si allarmò. «Oddio, Vera, che hai fatto? Che è successo? Ti sei messa nei guai?». Si girò verso le viscere della casa. «Tiziano! TIZIANO! Chiama l'avvocato!»
   «Ma che stai dicendo? Non ho ancora fatto nulla!» obiettò Vera.
   L’altra la fissò immobile per qualche secondo, poi le sferrò un pugno sul braccio. «Sei una cretina!» strillò.
   «Soltanto previdente» sbuffò la sua amica. «Perché, t’avverto, se senti di una donna che in un raptus di rabbia ha ucciso il carabiniere più stronzo di tutta Roma e dintorni, sappi che quella donna sono io».
   Giulia la spinse senza troppi riguardi in cucina e poi su una sedia. «Spiega» ordi­nò.
   Vera le raccontò in due minuti della lite nell’appartamento sfitto. Quando tacque, Giulia la fissò pensosa.
   «Ascolta, Vè» esordì cauta, «non dico che approvo quello che ti ha detto Vittorio, ma… ma capisco perché l’ha fatto».
   «Gli stai dando ragione?» esclamò Vera, incredula.
   «In parte» ammise l’altra. «È vero che dopo l’incidente sei cambiata. No, non parlo della gamba» disse in fretta, intuendo i pensieri di Vera. «Sei cambiata tu, e lo sai. Io ti voglio bene e so che ci sei ancora, lì dentro, da qualche parte, perché la gamba era soltanto una gamba e tutto il resto di te è rimasto, ma… a volte non ti riconosco. E mi manchi».
   Vera abbassò lo sguardo, mentre un improvviso senso di colpa le invadeva lo stomaco. Era davvero cambiata così tanto? Forse Vittorio aveva ragione, e il suo nuovo modo di fare – la Vera post-incidente – stava rendendo la vita più difficile a tutti quelli che le stavano intorno?
   «Giulia, devo chiederti una cosa ma tu devi giurare che mi dirai la verità». Si coprì gli occhi per un istante e prese un respiro tremante per calmarsi prima di tornare a fissare la sua mi­gliore amica. «Vi sto rendendo la vita impossibile?»
   «Dio, Vera, no!». Incredula e scioccata, Giulia l'abbracciò. «No, no – come ti è venuta in mente una stupidaggine del genere?». Scosse la testa, lottando con un nodo in gola che le ren­deva difficile parlare; e anche se non lo sapeva, per Vera era lo stesso. «Dopo quello che ti è successo hai il diritto di essere arrabbiata e irragionevole, di tanto in tanto: nessuno si aspetta che tu non lo sia, e tu stai facendo più di quanto chiunque si aspettasse... ti impegni tanto con il lavoro di traduttrice e quello in palestra, hai ricominciato a uscire, a fare alcune delle cose che facevi prima dell'incidente, e non è passato neanche un anno da... da...» la sua voce si spezzò.
   L'altra si fissò le mani. «Ma sono diversa» sussurrò, così piano che Giulia a stento la sentì. «Sono diversa, ma quello che mi fa più paura è la possibilità di essere cambiata in peggio».
   Giulia si staccò da lei e la guardò. «Vera, l'unica cosa davvero... negativa, se vogliamo dire così, della nuova te, è l'ostinazione con cui rifiuti di ammettere che il tuo corpo è diverso» disse cauta. «Hai perso una gamba, e devi accettare che questo non solo comporta dei limiti, ma anche che chi ti ama vuole poterti aiutare a stare bene». Le sorrise. «Non c'è niente di male a lasciare che gli altri si prendano cura di noi, quando ne abbiamo bisogno. Che avresti fatto, se quando ero incinta di Ludovica e bloccata a letto, mi fossi intestardita a fare tutto da me invece di lasciare che tu, Noemi, Tiziano e le nostre famiglie mi aiutaste?» le chiese con dolcezza.
   Vera sbuffò una mezza risata. «Mi sarei infuriata» ammise.
   «E perché ti saresti infuriata?» la spronò Giulia, stringendole le mani nelle proprie.
   «Perché avrei voluto essere sicura che tu stessi bene» mormorò Vera.
   «Appunto» disse la sua migliore amica. «Per noi è la stessa cosa: io e Tiziano, tuo padre, tua madre – e a questo punto credo anche Vittorio – vogliamo soltanto essere sicuri che tu stia bene e che non soffra solo perché sei una zuccona orgogliosa che non accetta l'aiuto di nessu­no» concluse con una punta di durezza.
   L'altra alzò gli occhi al cielo. «Piantala di fare la maestrina: se non ricordo male, quando eri incinta io e Noemi abbiamo dovuto minacciare di legarti al letto, per impedirti di andare in giro!»
   «Dettagli» rispose Giulia con grande dignità.
   Vera si alzò e l'abbracciò con forza. «Grazie, Giù. Di esserci sempre, di ascoltare i miei scleri, di aiutarmi a ragionare quando vado in tilt – grazie, di tutto».
   Giulia ricambiò la stretta. «È a questo che servono le sorelle, no?»
   «Proprio a questo» bisbigliò Vera con voce soffocata.
   Le due donne si separarono e tornarono a sedersi, notevolmente più calme e rilassate.
   «Adesso resta solo da capire che farai con Vittorio» disse la padrona di casa.
   «Mi sa che mi tocca chiedergli scusa... di nuovo» si lagnò Vera. «E in tempi brevi: l'altra settimana ha minacciato di venire a cercarmi a casa, se non avessi accettato di vederlo per parlare di quel casino successo con sua moglie» aggiunse preoccupata.
   Giulia inarcò le sopracciglia. «Paura che dica ai tuoi genitori che hai provato ad ammazzar­lo a colpi di borsa?» ridacchiò.
   «Paura della loro reazione se sapessero cosa mi ha detto, più che altro» ribatté la sua mi­gliore amica.
   «Dici che la prenderebbero male come hai fatto tu?» chiese meditabonda Giulia.
   «Ma no, figurati!» disse sarcastica Vera. «Dai, li conosci: mia madre s’arrabbia subito e mio padre, anche se sembra tranquillo, quando si infuria fa più danni di una bomba atomica!»
   «E sarebbe un peccato metterli contro Vittorio proprio adesso che hanno iniziato ad averlo almeno un po' in simpatia, giusto?» disse maliziosa Giulia.
   Vera si sforzò di trattenere un sorriso, ma i suoi occhi brillarono malandrini.
   «Giusto» replicò allegramente: in fondo, Vittorio non si meritava l'odio incondizionato dei coniugi Nicolini.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Piperilla