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Autore: _ALE2_    05/07/2009    3 recensioni
Che diavolo avevano tutti da guardare?
La risposta era semplice: scandalo.
Otto lettere che perfettamente riassumevano la sua vita nella settimana appena trascorsa.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Una vita intera'
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Autore: _ALE2_
Genere: Triste, romantico
Avvertimenti: Shonen ai, One shot
Rating: Giallo
Desclaimers: Il titolo è ispirato alla canzone dei 30 Seconds to Mars “A Beautiful lie” che ne detengono tutti i diritti.
Note: Allora, prima fan fiction originale che partorisco in assoluto, ha partecipato al concorso ‘Love contest, Yaoi, Slash is everywhere’ classificandosi in terza posizione.
La citazione che ho scelto per questo lavoro tra quelle suggerite è “Solo chi ama senza speranza conosce il vero amore.” di Pablo Neruda. Mi sono immediatamente innamorata della citazione che ho scelto, appena l’ho adocchiata in mezzo alle altre, non ho avuto dubbi sul fatto che sarebbe stato ‘il corpo’ di questo lavoro.
Non ho molto da aggiungere, anche perché se ci prendo gusto finisco per scrivere delle note più lunghe della fan fiction. Buona lettura!




Just a game. (Such a beautiful lie)


Aaron percorreva a passo svelto l’ampio corridoio dell’ospedale.
Si sentiva come una preda braccata dal nemico, percependo addosso le diverse occhiate più o meno ostili che gli venivano lanciate alle spalle. Nonostante l’espressione fosse impassibile come sempre, il suo umore era stato contaminato dall’irritazione che gli circolava, ormai prepotente, nelle vene.
Che diavolo avevano tutti da guardare?
La risposta era semplice: scandalo.
Otto lettere che perfettamente riassumevano la sua vita nella settimana appena trascorsa.

Il ragazzo accelerò il passo, con gli occhi puntati davanti a sé a fissare il tutto ed il nulla; non riusciva a guardare i volti delle persone in cui s’imbatteva, fossero essi tirocinanti, medici, infermieri o quant’altro: in ognuno dei loro sguardi non leggeva altro che scherno e disprezzo… le stesse cose che aveva visto anche negli occhi di Stephan, d’altronde.
Si costrinse a non pensarci, irrigidendo appena la mascella ed inspirando profondamente: era bastata una parola equivoca ascoltata da un collega troppo chiacchierone e, nel giro di una sola settimana, la loro tenera intimità era stata sbriciolata dalle chiacchiere malevoli dell’opinione comune, troppo perbenista per tollerare due scherzi della natura come loro.
Sospirò, sentendo il nervosismo accrescere dentro di lui; ne aveva davvero fin sopra i capelli di quella situazione.

Entrò nello spogliatoio, chiudendosi la porta alle spalle. Non ebbe nemmeno bisogno di controllare di essere solo: il chiacchiericcio che sentiva era ovattato e distante.
Chiuse per un attimo gli occhi, rilasciando un sospiro di sollievo; l’atmosfera in ospedale si era fatta decisamente pesante ed Aaron accolse quella mera impressione di solitudine con gratitudine.
Raggiunse il suo armadietto, dove si spogliò velocemente del camice che, mai come negli ultimi tempi, gli era sembrato costrittivo come una camicia di forza.
Si sentì improvvisamente stanco, come logorato, ed appoggiò la fronte al freddo metallo dell’armadietto, incapace di tacciare quel senso d’impotenza che ormai aveva preso possesso del suo corpo.

Lo sapeva, era inutile negarselo.
Quella storia non sarebbe mai stata seppellita; l’avrebbe perseguitato per sempre. Percepì improvvisamente un senso d’oppressione al petto, sentendosi come sul filo di un rasoio: bastava un solo passo falso, un’innocua sciocchezza, e per lui si sarebbe scatenato l’inferno.
Sorrise amaro: a confronto di quello che gli si prospettava, la sua attuale situazione era nulla, una semplice bazzecola.
Aprì l’armadietto lentamente e ne tirò fuori uno zaino nero, che poggiò sulla panca alle sue spalle. Frugò tra le tasche della sacca e trovò il suo cellulare spento; lo accese e digrignò i denti rabbioso, quando si rese conto che, per il sesto giorno consecutivo, lui non si era fatto vivo.
Razionalmente, lo capiva; sapeva perfettamente che Stephan non era in una posizione migliore della sua: la storia di un medico di rilievo con un suo vecchio allievo era un cliché piuttosto frequente, ma diventava un pettegolezzo decisamente insolito quando l’ex tirocinante in questione era un uomo. 
Si voltò verso l’armadietto e lo chiuse con violenza, facendo rimbalzare l’anta.
Capiva Stephan, ma non per questo era meno furioso; certo, magari la sfavillante corsa al successo del suo amante avrebbe avuto qualche battuta d’arresto, ma era Aaron che rischiava di bruciarsi una carriera non ancora nata, buttando così al vento anni di sacrifici e di duro lavoro! Le parole ‘finocchio raccomandato’, gentilmente dette da un suo vecchio compagno di corso, continuavano a rimbombargli in testa e ad alimentare la furia cieca che stava covando.
Fu tentato di scagliare il suo cellulare lontano, ma si bloccò, quando vide il suo volto sfigurato dalla rabbia riflesso in uno specchio a muro. Stentò a riconoscersi: era sempre stato un ragazzo piuttosto posato, quasi freddo, e l’abbandonarsi a certe emozioni non era certo da lui. S’impose la calma.
Posò il cellulare ed andò al lavabo, dove lasciò che l’acqua fredda gli schiarisse le idee.
 
Doveva, doveva assolutamente provarci ancora con Stephan.
Doveva raggiungerlo, doveva chiamarlo, doveva parlargli, doveva vederlo.
Lo percepiva come un bisogno viscerale e non era la prima volta che succedeva: si ricordò immediatamente di quando si era catapultato a casa sua nel bel mezzo della notte, dove non aveva fatto nemmeno in tempo ad entrare, che lo aveva iniziato a baciare con foga. Ricordava ancora il suo sguardo stupito ed il suo sorriso dolce, quando gli aveva confessato, tra un balbettio ed un altro, di amarlo…
Aaron chiuse gli occhi, perso in quei ricordi dolci: poteva quasi percepire il calore delle sue carezze e del suo abbraccio, mentre avevano fatto l’amore come se fosse stata la loro prima volta.

Riaprì gli occhi e si ritrovò nel freddo spogliatoio dell’ospedale.
Ingoiò la frustrazione, quando si rese conto che quei ricordi gli sembravano lontani come non mai; pareva che un colpo di spugna avesse cancellato tutto.
Stephan non aveva più sorrisi e parole dolci per lui: lo evitava nei corridoi, non gli rivolgeva la parola, non rispondeva ai suoi messaggi.
Stephan non lo guardava nemmeno più in faccia.

Si riscosse; doveva agire.
Gli scrisse velocemente un messaggio, con le mani appena tremanti.
'Dobbiamo parlare. Ti prego rispondi al messaggio. Va bene quando e dove vuoi, ma ti prego parliamo.'
Si sentì quasi patetico, mentre avvertiva la speranza affievolirsi e l’inquietudine accrescere.
Decise di non pensarci e si cambiò in fretta, uscendo di corsa dall’ospedale, diventato ormai la sua prigione, ed ignorando i commenti malevoli che gli arrivavano alle spalle.
Il cellulare, al sicuro nel giubbotto di pelle, ancora non dava segni di vita, notò con delusione, ed ormai sconfortato si diresse verso la sua moto.
Persino lei, la sua amata motocicletta, non gli risparmiò dolorose reminescenze e subito si rivide abbracciato a Stephan, mentre la sceglieva, oppure alla sua guida con l’uomo che amava abbracciato con forza alla sua vita…

“Basta” si rimproverò per l’ennesima volta; la situazione era delicata ed Aaron doveva necessariamente ricorrere a tutta la sua forza di volontà, se voleva risolverla.
Ci sarebbe riuscito: lo avrebbe di nuovo avuto tra le sue braccia e gli avrebbe ripetuto quello che provava.
Ma come sarebbe andata a finire?
Mai come in quel momento il lieto fine gli sembrava assurdo.
Sospirò, infilandosi il pesante casco e salendo sulla moto; in quel momento, finalmente, il cellulare vibrò ed Aaron, nervoso, lo prese, leggendo l’unica frase più volte, fino ad impararla a memoria.
Ripose il cellulare e partì velocemente, con il cuore che minacciava di uscirgli dal petto.
 
Un appuntamento, ancora.
Ma, se la speranza avrebbe dovuto risollevargli il morale, in quel momento nei suoi pensieri aleggiava un’unica domanda.
E se fosse stato l’ultimo?



Nel vedere la villetta di Stephan, Aaron si sentì sprofondare: fu quasi tentato dal rimandare di qualche ora l’incontro, ma la brezza serale gli pizzicò il viso libero dal casco e lo riscosse. Chiuse gli occhi, infondendosi il coraggio necessario, e parcheggiò la moto. A passi lenti, arrivò davanti la tanto temuta porta e bussò, attendendo che Stephan gli aprisse.
Dopo pochi secondi lui arrivò.
Sospirò nel sentire l’uscio aprirsi, ma non seppe dire se di sollievo o per altro, dato che nel petto vorticava una miriade di sentimenti contrastanti.
Stephan gli comparve davanti così come lo ricordava, ma gli occhi neri quella volta erano ostili e la bocca non era schiusa nel sorriso con cui solitamente lo accoglieva; il medico si limitò a farlo entrare, senza dire nulla.
Si ritrovarono nuovamente da soli in quella grande casa, solitamente accogliente, ma che, per la prima volta, Aaron percepì fredda, inospitale, inadatta a loro due e a quello che, fino ad allora, li accomunava.

“Stephan…”
“No, Aaron. Sai già quello che devo dirti.” La sua voce era fredda come il suo sguardo.

Ed Aaron chiuse vigliaccamente gli occhi, mentre il suo corpo rabbrividiva incontrollato.
Si sentiva come sull’orlo di un burrone, pronto per essere spinto dentro, abbandonato al suo destino; non sarebbe mai stato pronto per nulla di simile: essere lasciato, abbandonato, tradito dalla persona che aveva rappresentato tutto per lui in quegli ultimi anni era una cosa che non riusciva a sopportare.
Sentì le mani cominciare a sudare, strette in dei pugni tremanti, mentre le unghie gli graffiavano la tenera pelle dei palmi, ma in quel momento nulla era importante.

“Allora dillo e falla finita!”

Si era ripromesso di essere cattivo, rancoroso, ed invece la sua voce aveva emesso un flebile appello disperato; evidentemente, si disse, non era sufficientemente forte per reagire a quel dolore lacerante di fronte a lui.

“Non possiamo andare avanti. Adesso sta diventando troppo. Non possiamo…”
“STA DIVENTANDO TROPPO?”

Gli occhi di Stephan si allargarono per la sorpresa, mentre la bocca si schiudeva soffice e leggera, come l’aveva sempre ricordata. Anche Aaron si sorprese per quello che aveva detto, e per il tono con cui l’aveva urlato, ma non cambiò comunque espressione, guardandolo con gli occhi velati da tutta la rabbia e dalla disperazione che provava.
Cosa doveva fare per tenerlo stretto a se? Rinunciare al suo sogno, alla sua vita? Se glielo avesse chiesto, era certo che l’avrebbe fatto: era innamorato, ed avrebbe fatto qualsiasi cosa. Qualsiasi.

“Non puoi dire che sta diventando troppo, Stephan, non ora, non in questo momento! Il punto di non ritorno l’abbiamo raggiunto mesi fa, quando abbiamo fatto l’amore. Lì abbiamo superato il ‘troppo’!”

Continuò imperterrito, ignorando le stilettate di dolore che percepiva dentro di sé.
Si domandò cosa provasse lui in quel momento, cosa stesse pensando, ma quegli occhi erano sempre più insondabili e continuavano a ferirlo. Decise di non lasciarsi prendere dallo sconforto e gli si avvicinò rapido, prendendogli un braccio e spingendoselo addosso, approfittando della sua altezza per parlargli direttamente in faccia.

“Però allora non hai detto niente! Allora non te ne sei preoccupato! Ed adesso…” si interruppe con la voce leggermente incrinata “Dio Stephan io ti amo! Perché mi stai facendo questo?”

Lo vide tentennare.
In quell’esatto momento si rese conto che l’orlo del burrone era stato superato: Stephan lo aveva spinto dentro ed ora lui stava cadendo in un baratro nero.

“Perché non ti amo Aaron. Non ti amo e tutta questa cosa è senza la minima speranza. Non manderò la mia carriera…”

D’istinto Aaron lo spinse lontano, facendolo cadere a terra. Lo guardò con gli occhi erano sbarrati, mentre le braccia, ancora a mezz’aria, tremavano vistosamente.

Cosa?” Anche la sua voce tremava vistosamente.

Stephan lo guardò quasi con affetto e, se Aaron avesse potuto, avrebbe incenerito in un istante quello sguardo così disgustosamente compassionevole.
Ed, improvvisamente, si ritrovò ad odiare quell’uomo che tanto aveva amato.

Lo guardò rialzarsi con calma e porre una ragionevole distanza fra di loro, come a temere uno scontro fisico.

“Non ti amo Aaron. Anche se tu ti sei convinto del contrario, dovresti capire che non è così.”

Quella voce, da sempre così calda e tranquillizzante, lo stava lentamente uccidendo con freddezza, quasi deridendolo per la sua ingenuità. Si sentì morire e sperò di annullarsi in quell’istante, troppo umiliante da vivere.
Alzò un’ultima volta lo sguardo contro quella maschera di cera, che lo aveva ingannato così a lungo, e pronunciò una sola frase con decisione.

“Vai al diavolo.”

Lo odiava, lo odiava con tutto se stesso. E l’amava, l’amava come non aveva mai amato in vita sua. Abbassò gli occhi tremanti, mentre il dolore lo accecava e gli opprimeva il petto, rendendogli difficile respirare.
Perché? Perché gli stava capitando tutto quello?

“Vai al diavolo, vai al diavolo, VAI AL DIAVOLO!”

Scappò via da quella casa glaciale, ferito ed umiliato, e raggiunse correndo fino alla moto. Si infilò il casco con gesti troppo veloci, graffiandosi una guancia rovente.
Sentì il rumore del motore in accensione che si scaldava e partì, con il giubbotto appena aperto e l’aria gelata ad entrargli nelle ossa.



Corse per oltre un’ora, senza meta, completamente in balia delle emozioni che lo sovrastavano.
La moto correva per la strada e scivolava leggera fra le ombre della notte, permettendo ad Aaron di sfogare, con quella corsa liberatrice, tutta la rabbia che lo stava intossicando.
Tutte le parole, i momenti, tutti i suoi gesti, tutta la loro storia stavano scivolando via, impetuosi ed irrefrenabili, come l’asfalto.

Non era caduto in un burrone; stava per essere seppellito da una frana: era sommerso dai detriti che lo continuavano a ferire e lui non poteva fare altro che lasciarsi sopraffare. Non poteva far nient’altro che rimanere in balia di se stesso.
Improvvisamente, la rabbia e l’umiliazione lo abbandonarono, mentre la moto continuava a correre, e la disperazione di quell’abbandono lo travolse; quell’atroce dolore, che già aveva provato, si ripresentò forte come un pugno in uno stomaco.

Le mani sul manubrio cominciarono a tremare, la vista gli si appannò e pesanti lacrime amare cominciarono a scendergli dagli immensi occhi verdi.
Decelerò la corsa, ed accostò sul ciglio della strada. Si tolse il casco, scoprendosi ansimante, e sentì le lacrime bruciargli le guance come fuoco, mentre continuavano a scendere incontrollabili. Si prese la testa fra le mani, mentre il corpo era scosso da singhiozzi, ormai completamente fuori controllo. Le parole di Stephan ancora gli vorticavano nella mente, impietose e cattive, ed un totale senso di disfatta lo colse, ancora una volta, totalmente impreparato.

Stephan non lo amava.
Stephan non l’aveva mai amato.
Lui soltanto aveva costruito castelli in aria, beandosi di una stupenda bugia, e tutto si era trasformato in un gioco.
Un gioco. Uno schifosissimo gioco al quale lui aveva partecipato senza aver capito le regole e che l’aveva risputato fuori, umiliato e distrutto.

Ed adesso non era nient’altro che un fantoccio distrutto da un amore impossibile; aveva gettato il cuore in pasto ai lupi ed adesso si stava sgretolando nelle sue mani.

Il pianto che lo colse fu opprimente e doloroso. Si morse il labbro inferiore, cercando di trattenere le urla che gli invadevano la mente, mentre si abbandonava ad un pianto incontrollato, circondato dalle sue stesse braccia che sperò lo proteggessero dal mondo.

“Perché mi sono innamorato di te?”




Entrò in casa che era già sera inoltrata.
Il turno all’ospedale, quel giorno, era stato massacrante; bambini urlanti, madri oppressive ed infermiere isteriche si erano susseguiti l’uno dopo l’altro incessantemente, senza dargli tregua.
Massaggiandosi il collo con una mano, appoggiò la pesante sacca all’entrata e si diresse spedito verso la camera da letto. Si stese sul letto, che lo accolse carezzevole ed invitante, e fu tentato dal concedersi un sonno ristoratore tra quelle candide lenzuola ristoratrici.
Ma aveva altro da fare.

Era il 15 Dicembre.

Se, cinque anni prima, qualcuno gli avesse detto che, a distanza di anni, si sarebbe ricordato di quella data, probabilmente gli avrebbe riso in faccia.
Non si conserva gelosamente nella mente il giorno del compleanno dell’uomo che ti ha spezzato il cuore, eppure Aaron ricordava qualsiasi cosa di lui: il suo odore delicato, i profondi occhi neri, la voce calda e sicura…
Sorrise al pensiero di tutto quello che era cambiato e di quanto la sua vita fosse migliorata, da quando era stato capace di affrontare quell’oceano di oscurità da solo, riemergendone vincitore.
Fu quasi sul punto di prendere il telefono per fargli gli auguri, ma qualcosa lo distolse dal suo intento.

Robert entrò in quel momento in camera, stropicciandosi gli occhi azzurri velati dal sonno, e si stese di fianco ad Aaron assonnato, accoccolandosi sul suo petto. Soffocò uno sbadiglio sulla sua spalla ed alzò il volto per guardarlo negli occhi verdi.

“Bentornato.” La voce, generalmente arrogante, era impastata dal sonno e mortalmente tenera.

Aaron sorrise e se lo strinse ancora di più al petto, sfiorando con le dita le labbra sottili.

“Dormivi sul divano?” gli sussurrò gentile, mentre l’altro si allungava ancora un po’ su di lui, intrecciando le proprie gambe con le sue sopra le coperte.

“Si, ma faceva tanto freddo…”

Il ragazzo allargò il sorriso e gli depositò un dolce bacio sulla fronte rilassata, concedendosi di passargli una mano fra i sottili capelli rossi, ispirandone l’odore leggero.

“Devi chiamare qualcuno?” continuò l’altro, curioso.

Aveva il cellulare in mano e non se n’era accorto. Sospirò.

“No.”

Lo disse con semplicità, segnando quel momento come il punto di rottura definitivo con il suo passato.
Robert sorrise consapevole e lo baciò dolcemente sulle labbra chiuse,  mentre gli toglieva dalla mano il telefonino, per appoggiarlo sul mobiletto accanto a lui.
Aaron fissò tutti i suoi movimenti senza parlare e contemplò il suo volto, saggiandone tutte le espressioni e cibandosi del suo sorriso felice, innamorato e sincero.
Robert gli salì addosso, a cavalcioni, intrappolando con le sue mani fredde il volto dell’altro ed incatenando i suoi occhi in quelli verdi dell’altro.


“Solo chi ama senza speranza conosce il vero amore.”  gli recitò sulle labbra chiuse.
 
Aaron lo guardò senza capire, appena confuso da quelle parole.

“Tu credi di averlo conosciuto il vero amore?”

Aaron lo guardò stupito, per poi sorridere, sereno e soddisfatto.

“Sì.”

  
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