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Autore: Stephanie86    08/06/2018    1 recensioni
"La Salvatrice nel mio regno."
Emma trasalì. Un’altra coscienza si accostò alla sua. Ma non era come accostarsi alla mente di Lily, non era come guardare attraverso i suoi occhi. Quella coscienza era incredibilmente vasta. Era prepotente. Ed era potente. Sbirciò e frugò nella sua testa senza troppi riguardi.
"Chi sei? Cosa vuoi?", domandò Emma.
"Sono il padrone di casa, Emma." Di nuovo la risata. Una risata maschile, divertita e sprezzante. "Adesso sei nel mio regno. È un piacere. Ci incontreremo presto. Spero che il posto ti piaccia."

[Seguito della fanfiction The Lost Hero | Swan Queen, Swan Star + altri pairing]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Lily, Regina Mills, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lost and Found'
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15

 

“Questo Cane con tre Teste rappresenta
 il passato, il presente e l'avvenire,
che contengono, o come chi dicesse divorano, tutte le cose.”

[Zachary Grey]

 

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 

Marian si voltò per assicurarsi che Biancaneve fosse ancora dietro di lei.

Udiva gli zoccoli dei cavalli e gli ordini dei soldati, quindi sapeva che non erano lontani. Ma il tragitto che stava seguendo Marian era intricato, si perdeva nelle profondità della foresta, dove gli alberi erano più alti e nodosi, molto più fitti. Il sole sopra le loro teste era sparito. Solo foglie, rami spessi, altre foglie.

Biancaneve era senza fiato, ma continuava a muoversi spedita. Era abituata a scappare.

Marian indossava una mantella con il cappuccio e si copriva il volto con un fazzoletto rosso. Non aveva mai mostrato il suo viso alla bandita ricercata dalla Regina Cattiva, da quando l’aveva aiutata a trovare una via di fuga. C’era mancato davvero poco che la prendessero.

“Siamo quasi arrivati.”, annunciò Marian. Le tremavano le gambe, ma non poteva smettere di correre.

Biancaneve annuì, cerea.

Poco dopo, la foresta si aprì davanti a loro e Marian si fermò.

“Dove siamo?”, chiese Biancaneve, piegandosi sulle ginocchia.

“Al sicuro. Questa è la foresta di Sherwood.”

Davanti a loro, c’era una grande casa che non sembrava più una casa, ma un rudere. La vegetazione si stava impossessando del tetto e del lato sinistro. Sui gradini scalcinati c’era un ragazzo con una fitta massa di riccioli scuri che cantava, mentre un bambino magro e cencioso lo accompagnava con un tamburello.

“Ogni città qualche guaio ha, ma qui è là c’è serenità... ma non a Nottingham!”

Non aveva una bella voce e non smise di cantare quando vide le due donne avvicinarsi.

“Com’è triste subir questa tirannia e non poter volare via... dopo tanto pianto, dopo aver sofferto tanto... forse un po’ di gioia tornerà... ma non a Nottingham!”

Biancaneve era sicura che la gioia, di quel passo, non sarebbe mai tornata da nessuna parte, non solo a Nottingham.

Un uomo alto e con il viso tondo coperto dalla barba rossa, comparve sulla soglia e scese i gradini, intralciato dal pancione prominente e costringendo il ragazzo canterino a spostarsi. L’altro bambino sparì all’interno, portandosi dietro il tamburo.

“Milady, per tutti gli dei esistenti, finalmente! Pensavo che vi avessero presa!” L’uomo indossava una vecchia tunica marrone, stretta in vita da una cintura di corda. Guardò Biancaneve. Anche lei aveva il volto coperto e lo scrutò con diffidenza, tesa come la corda del suo arco nonostante la stanchezza. “Oh, l’avete trovata! Salve anche a voi, milady.”

“Ci è mancato davvero poco.”, ammise Marian. Appoggiò una mano sulla spalla di Biancaneve e sorrise, sebbene lei non potesse vederla farlo. “Siete al sicuro, qui. Fra’ Tuck è dei nostri.”

“Salve.”, bofonchiò Biancaneve. “Non voglio mettervi nei guai. Non mi fermerò a lungo.”

Fra’ Tuck sorrise, benevolo. “Voi siete la benvenuta qui, milady. Dispiace a me di non potervi offrire una sistemazione migliore. Questo è un posto... che sta in piedi per miracolo, ecco.”

“Andrà benissimo. Vi sono riconoscente.”

“E scusate Cantagallo. Si mette a cantare quando sa che sta arrivando qualcuno. È un avvertimento. Oppure lo fa per intrattenere gli ospiti e gli dei ce ne scampino.”

Cantagallo non disse niente.

“Devo tornare all’accampamento. Mio marito sarà preoccupato.” Marian si sistemò la faretra con le frecce a tracolla.

“Aspettate!” Biancaneve si tolse il fazzoletto dal viso. “Mostratemi il vostro volto. Almeno lo ricorderò e potrò ricambiare il favore, un giorno. Non eravate obbligata a salvarmi.”

“Non posso.”, disse Marian, scuotendo il capo. “Mi fido di voi, ma non mostro mai il mio volto. E non è necessario che sappiate chi sono. Pensate a restare al sicuro.”

 

 

Oltretomba. Oggi

 

Di Ade non rimaneva più nulla.

Nulla, a parte un mucchietto di polvere, dal quale sporgevano i resti della Folgore Olimpica, ormai ridotta a pochi pezzi di cristallo opaco. L’arma di Zeus aveva compiuto il suo dovere ed era perduta.

Zelena era caduta all’indietro e sembrava in preda alle convulsioni. Il suo corpo si contorceva e gli occhi azzurri erano diventati bianchi, sporgevano dalle orbite quasi fossero pronti ad esplodere.

Accecata dal lampo esploso quando la Folgore aveva trafitto Ade, Lily barcollò, cieca, per alcuni momenti. Udiva delle grida e udiva l’ululato del portale, ma il mondo pareva svanito.

Infine, sua madre la scosse. Lily batté le palpebre più e più volte, fino a quando non mise a fuoco Malefica.

- Mamma... – disse, stordita.

Lei strinse a sé la figlia e si gettò nel portale.

Fiyero agì più in fretta che poté e raccolse Zelena da terra, caricandosela sulle spalle. Lanciò un’ultima occhiata all’Oltretomba e poi si tuffò nel vortice, in procinto di chiudersi.

 

Marian aveva visto tutto quello che era successo da un punto sopraelevato. Non aveva voluto seguire la famiglia di Emma al cimitero, aveva solo chiesto a Mary Margaret di dire a Robin che sarebbe andato tutto bene. Avrebbe trovato un modo per passare oltre.

Sapeva cosa la tratteneva.

E sapeva anche che non poteva fare altro, se non aspettare. Presto sarebbe successo qualcosa.

“La Regina ha ragione, Robin. Devi prendere tua figlia e andartene.” Marian era stata molto chiara quando gli aveva chiesto di seguirla per potergli parlare a quattr’occhi.

“Non posso lasciare questo posto! E gli altri? Potrebbero avere bisogno di me.”

“E cosa potresti fare qui? Con una bambina piccola a cui badare, che cosa potresti fare? Non lo vedi che non puoi fare niente?”

Se l’avesse schiaffeggiato forse gli avrebbe fatto meno male. Ma Robin era così. Bisognava schiaffeggiarlo per permettergli di capire.

“Marian...”

“Ascoltami bene, Robin. Tua figlia dovrebbe venire prima di qualsiasi altra cosa. E anche Roland. Lui è solo. Ci hai pensato?”

“Non è solo. È al sicuro con...”

“Non me ne importa niente delle maledette fate! Ha bisogno di un padre. Avrebbe bisogno anche di una madre, ma io non posso andarmene per ovvie ragioni. Tu, invece, sì. Puoi portare in salvo la tua bambina.”

Robin era rimasto là, davanti a lei, meditabondo, rimuginando a lungo. Non sembrava più lo stesso uomo che aveva sposato un’eternità prima. Il Robin che aveva di fronte era disorientato, confuso, amareggiato.

“E tu? Cosa ne sarà di te?”

“Non essere in pena per me, Robin.”

“Mi chiedi un po’ troppo. Voglio essere sicuro che tu possa...”

“Trovare la via per il posto migliore? Nessuno può essere sicuro di questo. Forse la troverò. Dì a Roland che sto bene. Forse lui non si ricorda di me, era molto piccolo quando...”

“Lui ricorda. Te lo assicuro. Non molte cose, ma ricorda.”

La discussione era andata avanti a lungo. Marian aveva dovuto alzare la voce, aveva dovuto ricordargli una promessa che Robin le aveva fatto anni prima.

“Ti sei dimenticato quello che mi hai promesso quando ero incinta di Roland ed ero malata? Spero che tu non l’abbia fatto, Robin. Perché io me lo ricordo benissimo.”

“Non l’ho dimenticato.”

Marian tornò in città e attese.

 

 
“La Salvatrice ha deciso di rischiare, allora. È passato del tempo dall’ultima volta che qualcuno ha provato a passare.”

Emma pensò che la voce che stava sentendo fosse la stessa che l’aveva perseguitata mentre attraversavano la palude, ma questa era diversa, molto più alta e profonda, non era né maschile né femminile.

Gli occhi di fuoco dell’enorme mastino la fissavano. La testa a sinistra sembrava tenere d’occhio Regina.

“Combatti contro di me, Salvatrice. Solo tu ed io.”

Era Cerbero a parlarle. Una coscienza oscura e schiacciante le mandava messaggi, mentre le fauci sbavavano e le gole ringhiavano.

Emma si guardò intorno. Non c’erano armi. Sulla piattaforma c’era solo il tronco monco dell’albero dell’ambrosia, quella polvere marrone e le pietre disposte a spirale. Niente che potesse fare del male a Cerbero, che avanzò ancora di un passo, gettando la sua grande ombra su di loro.

E con lui avanzò l’odore.

Il suo fiato era terrificante. Pestilenziale. Come se dentro di lui fosse già tutto corrotto e decomposto.

Regina si coprì istintivamente il naso e la bocca.

“Cerchi un’arma? Lascia che te ne dia una. È giusto. Un combattimento alla pari.”

Immediatamente, Emma si accorse di stringere una spada nella mano destra.

- Emma, non lo fare... – disse Regina, guardando la lunga lama appena ricurva.

“Deve farlo, se vuole passare. Lo fece Orfeo. Ci provarono molti altri. Ora tocca a lei. A meno che tu non abbia troppa paura di me...”

- Taci, cagnaccio rognoso...

“Cara Regina... mi ricordi mia sorella, Idra, quando mi chiami cagnaccio. Avresti dovuto conoscerla per capire da quale pulpito veniva la predica... lei di teste ne ha nove.”

Cerbero rise e la sua risata era rumorosa come lo scoppio di una serie di petardi.

Poi tacque di colpo. La sua attenzione era tutta per Emma.

“Lascia che ti dica una cosa, Salvatrice. Se mi sconfiggerai, potrai passare. Se perderai... finirai dritta nel Tartaro. Niente posti migliori per te. E ti porterai dietro anche la tua amante. Se perdi... non c’è salvezza né per te né per lei.”

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Muoviti!”, ordinò il soldato, dandole una spinta e costringendola ad accelerare il passo.

Era molto difficile camminare dato che aveva la testa infilata in un cappuccio e i polsi legati, ma a loro non importava. Se cadeva, l’afferravano per il mantello o per i capelli e la minacciavano. Se inciampava, ridacchiavano. Uno dei tre uomini la pungolava con la spada.

Camminavano da ore, ormai.

“Che stai facendo?”, domandò una voce alla sua sinistra.

“Le sto dando da bere. La Regina vorrà interrogarla. Se arriva svenuta dovrà aspettare e sai che a lei non piace aspettare, quando si tratta di interrogare prigionieri che potrebbero sapere qualcosa di Biancaneve.”

“Non sprecare la tua acqua per una stracciona.”

“C’è un fiume qui vicino. Possiamo fermarci per qualche minuto e riempire di nuovo le borracce. Non lo senti?”

“Sinceramente no.”

“Apri bene le orecchie, allora.”

Una mano le tolse il cappuccio. Marian sbatté le palpebre, cercando di riabituarsi alla luce del sole. Erano ancora nella foresta, ma ben lontani da Nottingham. Il terreno era sassoso. La luce filtrava tra i rami bassi degli alberi.

Il soldato alla sua destra si avvicinò con la borraccia. Era giovane e di bell’aspetto, con la barba e i capelli castani. Il suo viso non era brutale e i suoi occhi sembravano stanchi, tormentati.

Le mostrò la borraccia e le versò alcuni sorsi d’acqua in bocca.

“Grazie...”, mormorò Marian.

Lui si limitò ad un cenno del capo.

L’avevano presa a meno di una lega dal punto in cui era accampato Robin con i suoi compagni. Sulle prime aveva creduto che fossero uomini dello Sceriffo di Nottingham, ma era bastata un’occhiata alle armature per capire che era finita in un guaio ben più grosso dello Sceriffo. L’unica fortuna era che non aveva niente addosso che la collegasse a Robin né tantomeno al rifugio di Fra’ Tuck.

‘Mi dispiace, Robin’, pensò.

I soldati si fermarono a riposare vicino al fiume, dove l’uomo che le aveva dato da bere riempì nuovamente la borraccia e poi si sedette accanto a lei.

Le avevano rimesso il cappuccio quindi quando il giovane parlò, Marian sobbalzò leggermente.

“Vorrei davvero aiutarvi, milady.” La voce era calda e gentile. Profumava di foresta, lo stesso odore di chi aveva trascorso la propria vita nei boschi. “Ma non posso. Non posso farlo.”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
La testa centrale di Cerbero scattò in avanti e le fauci si aprirono per ghermirla.

Emma si spostò più rapidamente che poté, ignorando l’orribile tanfo emanato dalla gola dell’essere. Mulinò la spada e aprì uno squarcio in una delle grosse zampe del mastino. Tuttavia, lui non sembrò rendersi conto del colpo che gli era stato inferto. Si gettò nuovamente su di lei. Gli artigli l’acciuffarono per un istante e aprirono uno strappo nel tessuto della giacca rossa.

Udì il grido di Regina, ma non riuscì a vederla, perché il corpo di Cerbero le copriva la visuale.

La spada che le aveva dato il mastino era terribilmente pesante. La lama era lunga e l’elsa molto robusta, con una grossa gemma bianca incastonata nel pomolo.

“È la spada di Sigfrido. Si chiama Gramr. Non trovi che sia stato molto generoso? Ti ho dato la spada di un eroe.”

Emma girò, guardinga, intorno a Cerbero, impugnandola con entrambe le mani.

“Oh, sì. È pesante. Ma è pur sempre un’arma.”

Cerbero se la ghignava. Emma lo attaccò, mirando al fianco, ma riuscì solo a graffiarlo. Il suo sangue era nero, proprio come la sua pelliccia. Non appena toccò il terreno, iniziò a fumare e un odore ancor più nauseabondo del suo fiato si diffuse sulla piattaforma.

“Una volta hai ucciso un drago. Così mi hanno detto. So che era più grosso di me.”

Cerbero si gettò su di lei con tutto il suo peso e mancò poco che finisse schiacciata. Quando il mastino atterrò pesantemente, sollevando pietre e polvere, la piattaforma tremò sotto le enormi zampe. Emma barcollò e cadde. Rotolò subito via e si rimise in piedi. Approfittò di un momento in cui il mastino era molto instabile per affondare la spada nel collo della testa più vicina.

La testa destra emise un lungo latrato e andò a sbattere contro la testa centrale, nel tentativo di scrollarsi l’arma di dosso. Emma venne catapultata contro ciò che restava dell’albero dell’ambrosia e perse la spada.

- Emma!

Un getto di sangue nero piovve a pochi passi da Regina, che ne avvertì il calore bruciante ed indietreggiò. La testa colpita si voltò nella sua direzione, mentre le altre due ringhiavano contro Emma.

Regina non poté fare a meno di fissare quegli occhi di brace.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Siamo davvero desolati, Vostra Maestà.”

Marian cadde in ginocchio e uno dei soldati le tolse il cappuccio. Il sole l’abbagliò per qualche istante. Una sagoma nera si stagliò sopra di lei.

“Credevamo fosse Biancaneve. Il mantello è identico a quello che portava la bandita.” La voce del soldato era la stessa di chi si aspettava una terribile punizione per non aver portato a termine qualche compito importante.

L’uomo gentile che le aveva dato da bere e le aveva parlato era in ginocchio, come gli altri.

“Lo vedo.”, rispose la Regina, stringendo il manico di una frusta nella mano destra.

Maria sollevò la testa, anche se sapeva che non avrebbe dovuto.

Vide gli stivali lucidi, i pantaloni in pelle nera, un’elegante soprabito rosso con le maniche lunghe, chiuso da tre grossi fermagli intarsiati, la generosa scollatura, il volto ombreggiato dalla tesa larga del cappello.

Le labbra piene si piegarono in un sorriso, ma gli occhi seguitavano a fissarla con una furia indicibile.

L’aveva sempre vista da lontano. Aveva udito numerose storie di sangue e morte. Decine di villaggi bruciati dalla sua sete di vendetta. Vederla da vicino era una faccenda ben diversa.

Era bellissima e terribile. Una bellezza oscura, da predatrice costantemente affamata, desiderosa di distruggere e piegare. Le parve che tutte le tenebre del mondo si stessero addensando intorno a lei.

Marian si rifiutò di abbassare lo sguardo.

“Avete la possibilità di sopravvivere. Può finire tutto adesso, se mi dite dove si nasconde Biancaneve.”

Lei non parlò.

“Potrei costringervi. Lo sapete bene.”

“Il mio cuore è protetto. Non potete prenderlo.”

Regina ci provò comunque, allungando una mano ad artiglio per affondarla nel suo petto. Si scontrò con una barriera magica che le spedì una fitta lancinante su per il braccio.

“State bene, Maestà?”, domandò subito un soldato, accorrendo per aiutarla.

“Certo, idiota. Dove avete trovato questa stracciona?”

“Non lontano dal villaggio di Nottigham.”

“Cacciatore... andate laggiù e setacciate ogni casa. Io mi prenderò questa prigioniera e... tutto sommato penso che la userò per aprire qualche bocca. Scommetto che c’è molta gente che protegge Biancaneve. Se vedranno cosa potrebbe capitare a chi la nasconde... forse parleranno.” Regina menò un colpo di frusta, colpendola in faccia. Marian lanciò un grido.

Il Cacciatore strinse le labbra e fu costretto ad obbedire.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
Emma voltò lentamente la testa. Attraverso una cortina di sangue, scrutò l’avversario e vide l’enorme zampa piombare su di lei e i lunghi artigli in cerca della carne da lacerare.

Rotolò sulle pietre e, nonostante il dolore, raggiunse la spada e strinse l’elsa. Sferrò un manrovescio furibondo e il mastino incassò appena sotto la testa centrale. Cerbero arretrò, digrignando tutti i denti.

Allora Emma si accorse che solo due teste erano concentrate su di lei. La terza guardava Regina, che sembrava in trance, con gli occhi sbarrati e le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi.

- Regina!

Si rese conto anche di un’altra cosa. La testa al centro portava un grosso collare di ferro, nel quale era incastonata una gemma e...

Solo che non era una gemma. Era un pezzo di ambrosia.

L’unico pezzo di ambrosia rimasto.

Le fauci di Cerbero si aprirono ed Emma fu costretta a farsi da parte. La zampa la colpì alla schiena, scaraventandolo contro il tronco monco dell’albero. Tuttavia si rialzò subito e si spostò velocemente verso la terza testa. Sentiva le orecchie sibilare e aveva la bocca piena di sangue.

“Dove corri, Salvatrice?”

Emma lo ignorò e si avventò sulla testa che aveva preso di mira Regina.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Hai ancora una possibilità. L’ultima.”, disse la Regina, camminando avanti e indietro, lentamente, dinanzi al patibolo. “Non do molte possibilità ai prigionieri. Dovresti coglierla al volo. Soprattutto se hai una famiglia.”

Marian guardava fisso oltre la testa della donna che l’aveva condannata a morte. Guardava la folla assiepata dietro ai soldati neri. C’era più gente del giorno prima, quando la Regina l’aveva sbeffeggiata e aveva minacciato gli abitanti di un intero villaggio. Aveva mostrato la propria prigioniera con i vestiti impolverati, che strizzava gli occhi abbagliata dalla luce, annaspava e implorava aiuto. La prigioniera che non aveva abbassato la testa e aveva osato rivolgere la parola ad una sovrana, chiamandola mostro.

“E sono sicura che tu ce l’hai. A giudicare da quello che mi hai detto ieri...”

Marian continuò a non aprire bocca. Però spostò lo sguardo su Regina. Poi fissò i soldati, cercando il giovane gentile che le aveva dato da bere e le aveva parlato. Avevano tutti le facce coperte dalle celate degli elmi, eppure pensava che lui non ci fosse. Nessuno aveva la faretra e l’arco. Erano per lo più armati di spade e lance. Il giovane, a parte le frecce, aveva un pugnale infilato nella cintura.

“Come vuoi.”, concluse Regina.

Uno dei soldati alla sua sinistra salì sul palco improvvisato e lo strattonò perché indietreggiasse fino a toccare il palo di legno con la schiena. La costrinse a sollevare in alto le braccia e legò i polsi sopra la sua testa.

“Questo è ciò che accade a chi nasconde Biancaneve. Accadrà a tutti voi se verrò a sapere che proteggete la bandita.”

Con la coda dell’occhio, Marian vide l’uomo che l’aveva legata prendere una torcia spenta. La immerse nel bacile dove scoppiettava il fuoco. Le fiamme attecchirono e la torcia si accese, guizzando.

“Ultime parole?”, domandò Regina, piegando le labbra carnose in un sorriso di puro scherno.

‘Mi dispiace’

Non le disse a voce alta. Rivolse gli occhi al cielo. Era azzurro, uno stormo di uccelli girava in circolo sopra le fronde degli alberi. Ci mise qualche istante a capire che erano corvi. Non avrebbero avuto niente perché il suo corpo sarebbe bruciato. Un mucchietto di cenere. Ecco cos’avrebbero trovato.

‘Mi dispiace’

Era per Robin, suo marito. E per Roland. Almeno loro erano salvi. Nessuno l’aveva ricollegata al ladro che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Né tantomeno a Fra’ Tuck.

Il soldato accostò la torcia ai fasci di legna ai suoi piedi. Marian avvertì l’odore acre del fumo e il calore intenso del fuoco.

La legna scricchiolò e le fiamme si levarono, abbrancando subito il vestito polveroso che indossava.

Alle spalle della Regina, un bambino nascose il viso nella gonna della madre.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
Emma conficcò la lama della spada alla base del possente collo.

La terza testa ululò di dolore e scattò all’indietro per sottrarsi.

Regina sussultò e cadde all’indietro, sollevando mulinelli di polvere e riemergendo da una visione in cui c’era solo fuoco e morte, odore di fumo e carne bruciata. Rientrò in sé stessa, dopo essere stata, per poco, la stessa donna che aveva condannato a morte Marian, tanti anni prima. Per qualche istante, trafitta dagli occhi di Cerbero, era stata la Regina Cattiva, la sovrana spietata, piena di rabbia, soffocata dalla sete di vendetta. Aveva sentito chiaramente quell’antico dolore, quella furia cieca. Ne era sgomenta, ma non era riuscita a sottrarsi, in balia del potere di Cerbero.

Emma gridò, mentre il mastino la trascinava lontano da Regina. Le mani rimasero saldamente ancorate all’elsa della spada e lei si sentì sollevare in alto. La lama era penetrata a fondo nella carne. I ruggiti di Cerbero le urtarono i timpani, conficcandosi nel suo cervello. La testa centrale urtò quella ferita ed Emma rischiò di perdere la presa, ma si rifiutò di cedere. Strinse i denti e poi piantò il piede nella carne di Cerbero. Si issò sul dorso poderoso del mastino e si aggrappò al pesante collare agganciato al collo della testa centrale.

Il mastino barcollò all’indietro, sradicò una radice dell’albero dell’ambrosia e ruggì di nuovo.

Poi una scheggia dolore le trapassò la testa. Toccò a lei urlare, mentre scivolava giù, inesorabilmente. Avvertì chiaramente gli occhi di brace di Cerbero frugarle nella mente, brucianti e feroci. Il dolore si diffuse in tutto il corpo.

Emma cadde sulle dure pietre.

“La Salvatrice pensava che fosse così facile.”, disse Cerbero. La spada era ancora conficcata in profondità, ma la voce che le parlava non tremava neppure.

Emma era incapace di alzarsi. Aveva la vista offuscata. La testa le doleva troppo e le sembrava che le braccia fossero pesanti come macigni. Regina urlò.

“Mi dispiace. Non sei Orfeo.”

Cerbero sollevò l’enorme zampa e sfoderò gli artigli.

Avrebbe potuto chiudere gli occhi, ma non lo fece. Sapeva che se fosse stata sconfitta sarebbe finita nel Tartaro e con lei anche Regina. Aveva perso. Avrebbe guardato la sconfitta piombarle addosso. Avrebbero voluto chiedere perdono ad Henry. Chiedere perdono ai suoi genitori. Chiedere perdono anche a Regina. Ma non aveva tempo per quello. 

Quando la zampa calò su di lei pronta a dilaniarla, Emma udì un sibilo e un fascio di luce rossa esplose dal medaglione che portava intorno al collo.

Emma ne rimane momentaneamente accecata. Sollevò lentamente un braccio per schermarsi gli occhi.

Cerbero emise un triplice ululato di dolore e sobbalzò all’indietro. Sangue nero spillò dal petto del mastino. La spada di Sigfrido conficcata in uno dei colli cadde.

- Emma! – Regina la raggiunse e si inginocchiò vicino a lei, aiutandola a tirarsi su.

Emma appoggiò la testa contro il suo petto e Regina la strinse a sé. Si portò una mano al ciondolo, quello che Marian le aveva dato prima che scendessero nelle profondità dell’Averno e che era appartenuto a Murphy, il ciondolo che lo aveva aiutato a mantenere la forma umana quando ancora viveva nella Foresta Incantata. Lo aveva completamente dimenticato.

La pietra al centro della fiamma era diventata nera. Era come un pezzo di roccia senza più alcun potere.

Cerbero precipitò su un fianco, emettendo un ultimo ringhio. Nuvole di polvere si levarono quando il corpo si schiantò sulla piattaforma.

- L’ambrosia... – mormorò Emma. – Nel collare...

Regina non perse tempo e andò a prendere la spada. Era pesantissima e dovette reggerla con due mani.

La testa centrale del mastino si mosse appena quando Regina si avvicinò. Le altre due teste avevano gli occhi chiusi e le lingue penzoloni. Fili di bava fumante sgocciolavano sull’erba.

Vide le iridi di brace che la seguivano, ma non ci fu alcun tentativo di fermarla.

Regina levò la spada e calò la lama sulla pietra al centro del collare.

L’urto fu violento e la catapultò in avanti, quasi addosso al cagnaccio puzzolente, ma il sigillo si ruppe in mille pezzi. La lama della spada, esaurito il suo compito, si sgretolò, diventando polvere bianca.

Regina gettò via l’elsa.

L’ambrosia, ciò che ne rimaneva, era dello stesso colore del miele. Piccoli spicchi duri al tatto, ruvidi, l’unica cosa che poteva salvare Emma e riportarla indietro.

Regina tornò dalla madre di suo figlio con l’ambrosia nel pugno. Temette che avesse perso i sensi e la scosse un po’. – Coraggio, Emma... apri gli occhi.

Lei sollevò le palpebre, guardandola confusamente.

Regina la costrinse a schiudere le labbra e poi le mise un pezzo di ambrosia sulla lingua. – Non fare l’idiota proprio adesso e mandala giù!

- Ti amo. – disse Emma, con un filo di voce.

Poi inghiottì l’ambrosia.

 

 
Marian era rimasta seduta ad uno dei tavoli del Granny’s, osservando l’aria rossa dell’Oltretomba dalla finestra. Le strade erano deserte.

Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Ma il sole era tramontato, era calata la notte di porpora e poi era giunto un nuovo giorno.

Nulla sembrava cambiato anche se Ade era morto.

Una delle cameriere rimaste al Granny’s dopo la scomparsa della Strega Cieca decise che era il momento di un po’ di musica e si azzardò ad accendere la radio. Proprio mentre premeva il pulsante di accensione, la porta del locale si spalancò con un colpo secco.

Marian si voltò di scatto, con una mano che già stava muovendosi verso le frecce nella faretra.

Una luce bianca e potente vinse l’aria rossastra del regno di Ade. Illuminò le finestre e penetrò nel Granny’s , diffondendo sbuffi di nebbia bianca sulle piastrelle.

- Che cosa succede? – chiese la ragazza dietro al bancone, indietreggiando. Un paio di avventori la imitarono, pronti a scappare dal retro. – Che cos’è?

Marian non avvertiva nessun pericolo. Anzi, le sembrava bellissimo. Le parve di udire una voce che la chiamava, che la invitava ad entrare nella luce.

- È... per me. – disse lei, avanzando. Abbandonò l’arco sul tavolo e la faretra sulla poltroncina. – È il mio posto.

 

 
- Dove...? – cominciò Zelena, sbarrando gli occhi.

Aveva mal di testa, la gola secca e l’impressione di aver dimenticato mille sogni, mille avvenimenti importanti.

Ma ne ricordava uno, distintamente. La morte di Ade. La Folgore Olimpica che trapassava il suo petto. La sensazione che il mondo si stesse sfracellando in mille pezzi.

Poi si guardò intorno, ancora intorpidita. Non era più nell’Oltretomba.

Era seduta in mezzo ad un corridoio bianco. Un corridoio che sembrava non avere inizio né fine, perché entrambe le cose si perdevano nella nebbia. Era fiancheggiato da due file di colonne di marmo, colonne possenti, la cui sommità era invisibile per via del biancore che occupava ogni cosa.

Era sola. Dov’era la sua bambina?               

Una piuma di pavone svolazzò sopra la sua testa e si posò sul pavimento liscio e lucido come uno specchio.

Una piuma di pavone?

- Finalmente. – disse una voce femminile alle sue spalle.

Zelena evocò la propria magia per scagliarla contro Era, ma il potere non le venne in aiuto.

La moglie di Zeus rise di gusto. – Niente magia, Signora degli Inferi. Non qui. In casa mia.

In casa mia.

Signora degli Inferi.

- L’Olimpo?

- Beh, non proprio. Questa è l’anticamera dell’Olimpo.

- Ti distruggerò... dov’è mia figlia?! – gridò Zelena. La voce riecheggiò lungo il corridoio, si frammentò e tornò indietro come un boomerang, sibilando tra le colonne.

- Ma sì, è solo la Signora dei Cieli quella che vuoi distruggere. – Era si avvolse meglio nel lungo mantello decorato da un’infinità di piume di pavone. Ne aveva una, rossa, anche tra i capelli corvini. – E la tua bambina sta bene. Ma se continuerà a stare bene... beh, questo dipende da te. Quindi ti conviene aprire le orecchie, Signora degli Inferi.

- Io non sono la Signora...

- Invece sì. – Era la costrinse a terra quando cercò di alzarsi. Le afferrò la mascella, imponendole di guardarla. – Hai ucciso Ade con un’arma divina mentre si trovava ancora nel suo regno. Quando mi hai contattata tramite il Flegetonte ti avevo chiesto di aspettare. Di lasciare che abbandonasse gli Inferi. Ci avrei pensato io, ma tu non mi hai dato retta. A proposito, mio marito voleva ringraziarti. Ha di nuovo la sua Folgore.

- Non tornerò negli Inferi. – sentenziò Zelena. 

- No. Ti darò un vantaggio. Puoi passare i primi sei mesi nel mondo dei vivi. Ma il giorno del Solstizio d’Inverno ti presenterai a Caronte e tornerai negli Inferi. – Era parlava come se si fosse trattato di normale amministrazione. – E negli Inferi resterai per i sei mesi successivi. Perché quello è il tuo regno adesso. Poi potrai tornare a Storybrooke. O ad Oz. Non so, dove preferisci. E così via, fino a quando qualcun altro non prenderà il tuo posto. Dubito accada presto, in ogni caso. Solo le armi divine possono ucciderti.

- Sono... sono immortale?

Era fece spallucce e le girò intorno. – Tragico. Lo so.

Zelena era talmente sconvolta che non sarebbe riuscita a rialzarsi nemmeno se Era glielo avesse permesso. – Non puoi... non lo farò. Perché dovrei accettare? Non sarò la regina di un branco di anime incapaci di gestire i propri conti in sospeso!

- Invece lo farai. A meno che tu non voglia che io prenda tua figlia.

Zelena allungò una mano ad artiglio verso la Dea, che la respinse.

- Prenderò tua figlia, se rifiuterai. Non la rivedrai mai più. – La sua voce era calma e crudele, le parole erano gelide, le scandiva come se stesse parlando con una ritardata. - Dopodiché... maledirò il figlio di tua sorella. Maledirò la Salvatrice e i suoi genitori. Li perseguiterò. Fino a quando di loro non rimarrà più niente. Rimarrai solo tu... e Regina. La Strega Perfida e la Regina Cattiva, perché questo sarete quando avrete perso tutto. Vi farete a pezzi a vicenda.

Zelena, in cuor suo, maledisse Ade. Alla fine era riuscito a rovinarla.

- Sono felice che tu ci stia riflettendo su. Ti conviene. Tra sei mesi Caronte ti aspetterà e le porte degli Inferi si apriranno per te. – concluse Era. – Puoi aver spezzato una maledizione e cancellato il mio marchio, ma questo... questo va ben al di là di qualsiasi maledizione. Questo è molto più antico di qualsiasi incantesimo tu conosca. Il vero amore non può più aiutarti. Niente, se non la morte, potrà liberarti.

Prenderò tua figlia, se rifiuterai. Non la rivedrai mai più.

Era si incamminò lungo il corridoio, voltandole definitivamente le spalle. – Lunga vita alla regina!


   
 
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