NOTA: Il titolo significa “Poesia/canto/lamento dei figli di Noè”, l’ho messo in latino proprio per poter sfruttare le diverse accezioni del termine carmen. Per quanto riguarda elegia, invece, l’ho scelto perché indica una composizione poetica narrata in prima persona, esattamente come questa.
Le strofe a sinistra e a destra possono essere lette anche indipendentemente tra loro, ma sempre legandole a quella centrale.
WARINING: Ci sono accenni ad eventi narrati fino alla Night 184 compresa.
ELEGIA
Carmen filiorum Noë
Noi siamo i figli del Demonio e della Morte,
nati nella notte senza luna di un giorno di sangue.
Nascemmo al principio del mondo
per decretarne la fine,
progenie maledetta di Caino
che sempre prevarrà sugli incauti Abele
Io nacqui quando il sole era ancora freddo.
Nacqui già vecchia e vissi molte volte
e molte volte ancora vivrò.
Ma sarò sempre uguale a me stessa,
uguale alla mia prima volta,
perché questo è ciò che sono:
un Ermete maledetto,
figlia prediletta della Morte e signora dei sogni.
Io nacqui in un crepuscolo di primavera,
quando il cielo era tinto di luce e di buio.
Ho sempre vissuto tra il giorno e la notte,
perché non ho mai amato nulla
come amo l’infinito e l’indefinito.
Potrei chiamarmi Citerea,
potrei essere un demonio come un angelo:
non lo saprete mai, se non conoscerete il piacere.
Io vissi nel mio mondo di bambole senz’anima e candele acuminate,
giocando con le vite degli uomini
su una scacchiera rossa e nera.
Dentro e fuori, tra il reale e l’irreale
senza senso e senza scopo,
attraverso una porta a cuore che conduce nel mio regno di nulla e sogni,
vissi i secoli ballando con un ghigno crudele.
Finché non lo incontrai.
Io vissi nei miei mondi di tabacco, carte e vino,
sudando sotto il sole e dentro un frac in un salotto.
Leggero come una farfalla nera,
varcavo il confine sempre incerto tra bene e male.
Occhiali come fondi di bottiglia, poi una nuvola di fumo e una tuba e guanti inamidati.
Sempre bianco o sempre nero, perché è solo sul filo del rasoio
che i secoli trovano senso e scopo e vita.
Finché non lo incontrai.
Lo conoscemmo ch’era ancora un bambino,
ma già aveva pianto e sofferto.
Fragile e piccolo, fece del padre un dannato
e il santo maledetto che era in lui lo uccise.
Lo incontrammo di nuovo ch’era poco più che un bambino,
quando pareva aver trovato la sua strada.
Lo affrontai in uno squarcio di sogno
e inchiodandolo ad un muro irreale
gli inflissi un dolore fin troppo reale.
Ma lui non si fece spaventare, non cedette alla paura di fronte a me,
seppure in quel momento avessi la sua vita tra le mani.
Fu per questo che iniziai ad amarlo.
Lo affrontai in un treno sporco e caldo,
con carte truccate tra le dita veloci:
lui vinse, ma non perse il sorriso.
Lo affrontai in una foresta lussureggiante e silenziosa:
lui perse, ma mi vinse con la sua voglia di lottare.
Fu per questo che iniziai ad amarlo.
L’Augusto però non voleva che l’amassimo,
l’Augusto voleva che uccidessimo chi lui non aveva ucciso.
Ci fu una candela, una porta e una scacchiera
e poi sigarette e carte e guanti bianchi,
e infine il pagliaccio venne a giocare
con la vecchia bambina e l’equilibrista folle e assassino.
Arrivò il giorno in cui l’Augusto ci riunì
e mi chiese di usare il mio potere
perché le memorie del mondo non svanissero con la città bianca incatenata,
maledetta dal traditore e per questo condannata a morire.
Le trassi in salvo nell’Arca nera che stava per prendere il volo
sulle note di una melodia che nessuno conosceva.
Arrivò il giorno in cui l’Augusto ci riunì
perché, disse, il nemico era ormai giunto
e io, vero apostolo di un qualche dio,
dovevo difendere qualcosa di cui non m’importava.
Ma lo feci: perché senza il suo lato oscuro
una stella non ha più ragione d’essere.
Quando entrarono nella nostra casa e ci uccisero un fratello,
il nostro sangue nero e corrotto
pianse perverso lacrime di un dolore che il nostro cuore non provava
mentre noi, vestiti a festa come a lutto, ridevamo.
Li attendemmo sulla cima della torre,
seduti attorno al tavolo per la cena dell’addio.
Così è iniziato l’ultimo ballo, ragazzini insolenti:
un macabro giro di danza con la Morte come dama.
Siete contenti, esorcisti? Avrete il privilegio di sparire
assieme all’antica Arca di Noah, sacrario ormai corrotto del sapere.
Un uomo superbo la costruì per sfuggire alla morte - Bookman tu lo sai
e altrettanto conosci il destino di Icaro e delle sue ali di cera.
E tu che ti sei perso nel mio labirinto dei tuoi segreti,
è inutile che cerchi di scappare: puoi solo morire.
Così è iniziato l’ultimo ballo, esorcista bambino:
abbandònati tra le braccia del Demonio, fatti uccidere.
Ormai bianco e nero non hanno più senso.
Questa vecchia Arca prigioniera sta per sparire
e voi con lei e io con voi, perché l’equilibrio è spezzato.
Contro di te ho perso e poi vinto - questa è la bella:
chi vince prende tutto, chi perde è destinato alla morte
e tu non hai più carte da giocare. Vieni ragazzo, fatti uccidere.
Quando il Bianco ricomparve
non credemmo ai nostri occhi.
Ma il vessillo non mentiva:
lui recava una spada come quella dell’Augusto.
E a noi altro non rimase se non chiederci
se quel bambino potesse essere la nostra fine.
Avanzò triste, dal niente e in mezzo alle macerie.
Lo confesso: in quel momento ebbi paura,
perché capii che nulla in lui era più colui del quale m’ero innamorata
e temetti per mio fratello - per chi, più d’ogni altro, era la mia famiglia.
E quando quella spada infranse il figlio di Noah nel suo petto,
compresi per la prima volta cosa fosse il dolore.
Avanzò triste, dal niente e in mezzo alle macerie
e mi affrontò con quei suoi occhi così infiniti e contrastati.
Capii che era giunta la mia fine e non mi opposi,
perché ormai sapevo che non avrei più potuto
continuare a camminare sul confine.
Ma nemmeno la sua spada mi mostrò cosa fosse il dolore.
Quando tutto finì, abbracciai mio fratello. Ma non piansi,
perché nessuno mi aveva mai detto come farlo davvero.
Alzai gli occhi su quegli assassini,
che, ipocriti, accusavano noi d’essere tali.
Fu allora che capii da dove esseri tanto meschini
traessero quella forza che a me era preclusa:
Lo capii quando persi chi credevo non avrei mai perduto
e mille candele riempirono l’aria di fumo.
Quando tutto finì, mi abbandonai tra le braccia di mia sorella
e mi dolsi del suo dolore e del rimpianto negli occhi del bambino.
Regalai a lui una carezza e a lei chiesi scusa,
ma in realtà non provavo nulla.
Semplicemente mi lasciai scivolare nell’oblio,
perché, distrutto uno dei volti di Giano,
la porta tra i mondi era ormai chiusa
e per me la vita non avrebbe avuto più senso.
Fu quello sguardo tanto limpido e triste,
quei loro sentimenti così dannatamente forti
o il loro sfidarci senza paura della propria fragilità
che alla fine ci portò alla pazzia?
Liberammo la nostra anima più nera,
solo per poi cadere, colpiti al petto dalla loro lama.
Mi lasciai trascinare senza remora alcuna dal mostro in me,
perché ormai mi era stato sottratto
ciò che avevo appena scoperto prezioso ai miei occhi.
Tentai di farli uccidere tra loro, li ricattai con le loro vite
per poter godere del loro dolore e della loro paura.
Ma il bambino non cedette e non tentò di lottare
e infine Icaro riuscì a fuggire dalla mia prigione di se stesso:
dentro il sogno mi squarciò il cuore e il suo pugnale mi trafisse il seno.
Mi lasciai trascinare, incosciente, dal mostro in me.
Impotente lasciai che la luna si rivoltasse,
mostrando al mondo per intero il suo lato più oscuro.
Non volli sapere cos’ero diventato,
perché in fondo non ero più nemmeno io,
ma un essere altro che chiamavano con il mio nome.
E quando giunse per me la sentenza del giudice,
accettai grato la condanna a morte.
Riuscirono a fuggire, ci sottrassero la nostra casa,
ma in fondo, a noi non importava (sacrileghi!).
Lottammo per difendere la famiglia e il nostro ideale,
ma in fondo, a noi non importava (eretici!).
Perché noi che viviamo in un mondo di sogni e piacere,
vedendolo infranto ci sentiamo perduti (umani!)
Venne infine il tempo di rimettere la maschera,
perché lo spettacolo dell’Augusto doveva continuare.
Tornai innocente bambina crudele
e gli stetti accanto mentre le sue mani goffe
volavano sulla tastiera modulando melodie proibite.
E l’Arca rinnovata levò l’ancora.
Venne infine il tempo di rimettere la maschera,
ma ormai sapevo che essa non sarebbe più stata tale.
Quando l’Augusto mi salvò dalla desiderata fine,
compresi che non avrei più indossato un’altra vita:
il doppio s’era fatto uno e tale sarebbe rimasto
perché l’anima nera non era svanita - m’aveva inghiottito.
Tornammo a sorridere falsi sorrisi,
tessendo tele perfide e vuote
nei salotti di Sodoma e Gomorra
su cui avremmo abbattuto il nostro fuoco.
E la memoria di Noah
erodeva il nostro volto ormai fattosi maschera.
In una sala di specchi infranti e ghigni irriflessi
siedo triste e lo guardo soffrire.
Croci gli sfregiano il corpo e la mente,
mentre ciò che è e che ha sempre represso
lentamente lo sta consumando.
E quando infine si sveglierà di nuovo, lui non sarà più lui…
In una sala di specchi infranti e ghigni irriflessi
sto infine conoscendo cosa sia il dolore.
Lei mi siede accanto e non risponde ai miei perché,
urlati bisbigliando quando lui mi lascia respirare.
Ma non mi serve la sua voce per sapere
che quando tutto sarà finito, io non sarò più io…
Portiamo nell’anima un sorriso non nostro,
che un giorno infine vestirà il nostro viso;
avrà occhi dorati e croci sulla fronte
e di generazione in generazione farà di noi il suo simulacro.
Finché non verrà a portare la fine
e a purificare il mondo con il fuoco.