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Autore: kissenlove    10/06/2018    1 recensioni
Lauren Castle a soli quindici anni era già una stella del lacrosse, sport che praticava fin da piccola, ma il suo sogno s'infrange alla vigilia di una partita importante. Scopre di avere la leucemia ed è costretta a rinunciare alla sua passione per stare costantemente sotto controllo, tra un ospedale e l'altro. Arresasi all'idea di essere un "malato terminale" e di non avere più speranze, trascorre le giornate nella sua stanza di degenza in compagnia di un soldato americano, ormai in congedo, a cui si lega molto. Sarebbe potuta continuare così, per sempre, ma a quanto pare il destino ha ben altri piani...
(ISPIRATO A UNA STORIA VERA.)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le corde del cuore'
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IN OGNI ATTIMO
– capitulo 3 – 



 


 
Sbagliato. Tutto sbagliato fin dall'inizio. 
I suoi genitori avevano atteso con trepidazione la sua nascita, entusiasti di quel pezzettino che si sarebbe unito al loro cuore. Ci avevano sperato e alla fine era arrivata, un angelo da amare e proteggere. Una bambina, poi giovane donna, nelle cui mani avevano riposto la felicità. Così fragile, effimera, destinata a sbriciolarsi. Aveva cercato di comportarsi da buona figlia, non una piaga o un macigno sulle spalle.
Sua madre – poverina – non aveva fatto nulla per meritarlo. L'aveva solo messa al mondo, e così come l'aveva vista nascere, l'avrebbe vista morire lucida delle sue intenzioni e consapevole a ciò a cui stava andando incontro. Era quel salto nel vuoto, nel buio assoluto, a cui la ragazza si rifiutava di rinunciare.
I dottori confidavano nel regredire della malattia e lei, ogni volta, si aggrappava a quelle parole credendoci. Per essere una malata al secondo stadio, i suoi esami non erano poi così terribili; era tenuta sotto controllo e prendeva ogni giorno le medicine. Aveva perso il conto di quanti cicli e biopsie si era fatta, e ogni volta il dolore era tale da trafiggerla e pulsarle all'interno del corpo.
Aveva avuto paura dei molteplici esiti, anche se non l'aveva detto ad alta voce ne a sua madre ne a suo padre e ne tantomeno al signor John. Quel maligno le vorticava nei pensieri constantemente; poi quella parola "negativo" scritta nero su bianco, e la paura strisciava silenziosa.
Se un giorno fosse stato positivo e il cancro si fosse esteso ad altri organi e alle ossa?
Sarebbe finito ogni misero tentativo. Non avrebbe fatto la radioterapia distruggendosi. Non avrebbe fatto nulla, si sarebbe semplicemente arresa lasciando cadere a terra la pistola senza più sparare altri colpi.
Era successo tutto all'improvviso come l'esplodere di una bomba.
Si sentiva a disagio con la mascherina schiacciata sulla bocca e rimpiangeva i tempi felici, in cui segnare in porta la faceva sentire forte, "una stella nascente" come la definivano le più piccole. Una stella che, adesso, non brillava; era diventata un buco nero. 
Il vetro della sua camera d'ospedale la isolava, ma aveva cercato di farsela piacere lo stesso attaccando qualche foto e facendosi portare Billy,– l'orsetto portafortuna con cui dormiva la notte da piccola, ma non aveva funzionato; dentro di sè aveva nostalgia della sua stanza dove dal balcone ammirava il sole guizzare in basso alle montagne, prima della cena. E finalmente avrebbe ripreso a farlo.

Il giorno prima era volato e la visita dei suoi cari l'aveva rallegrata. Il dolore che velava nell'ultimo periodo gli occhi della madre era sparito, sicuramente per la notizia del suo ritorno a casa che faceva presagire una lenta ma probabile guarigione. Quella domenica pomeriggio era raggiante, lasciò le ragazze a chiacchierare e uscì per comprare qualcosa ai distributori automatici. Megy ne approfittò per raccontarle di Jimmy – il ragazzo per cui si era presa una colossale cotta – uno dei giocatori che stava gareggiando in televisione l'altro giorno. Lauren l'ascoltò pazientemente, cercò di darle dei buoni consigli anche se non era la persona più adatta a fare la consulente.
Si era sempre tenuta alla larga, nonostante gli sforzi della sua amica di combinarle incontri su incontri, che lei aveva gentilmente raggirato. Non voleva trascinare in quell'inferno della sua malattia anche quel lui, che si sarebbe preso il diritto di amarla e renderla felice; forse in altre circostanze quel desiderio sarebbe prevalso, ma in quel caso no. Il suo corpo era già malato di suo per dover fronteggiare un'altra malattia, quella dell'amore. Nella sua breve vita aveva avuto solo una cotta, alle medie, per un suo ex – compagno di banco delle elementari. All'inizio non le piaceva e non capiva l'ostinazione delle maestre di farli sedere vicino. Era un po' grassottello ma, in realtà, aveva un buon cuore.
Scoprì solo in seguito che le piaceva, e molto. Anche guardarlo negli occhi era una tragedia e il suo cuore trottorellava come un pazzo. Quella sensazione rimase per molto tempo, finché la cotta non passò, dopo che la ragazza aveva tentato di fargliela capire con un messaggio privato su Facebook.
Lui chiuse definitivamente i contatti con lei, non rispose più risparmiandole la delusione di essere respinta e come se non bastasse sparì dalla circolazione, e non andò più a cantare nel coro della chiesa.
In quel momento capì che non poteva essere una cosa seria, non poteva essere quello che nei libri veniva descritto come "il vero amore". Invidiava la sua amica così energica e piena di vita, che avrebbe avuto un marito e molti figli. Lei no, si sarebbe spenta troppo presto. 
Quando era piccola giocava a fare la mamma con le sue bambole e sognava di diventarlo un giorno, ma le chemio l'avrebbero resa sterile al 90% –, lo immaginava nonostante non avesse avuto il coraggio di chiederlo apertamente al dottor Tognetti. Non avrebbe potuto offrire niente con il suo corpo, era inutile, e nessun bambino sarebbe nato da lei e nessuno le avrebbe messo un anello al dito.
Anche in questo Dio aveva scelto di punirla, togliendole la gioia di creare una creatura col suo corpo che, stremata com'era, si teneva in piedi a stento ancorata al lavandino.
L'unico rumore presente in quel bagno era l'acqua che scorreva nel tubo di scarico. Si sciacquò il viso e rialzandolo si guardò nello specchio. Rivoli presero a scivolarle lungo gli zigomi scarni, mentre si allungava per prendere l'asciugamano.
Aprì il mobiletto e prese la spazzola, poi richiuse.
Spostò i capelli dalle tempie e iniziò a pettinarsi deglutendo quando la spazzola s'impigliava. Fra le dita si trovò ciocche di capelli. Alcune lacrime si persero nella piega del collo, mentre lasciava le ciocche scivolare nel fondo del cestino. Si era preparata a quella realtà poco piacevole, ma si vedeva comunque un mostro come l'essere filamentoso dell'Urlo di Munch
. In quel bagno non avrebbe dato fastidio a nessuno e avesse pianto un po', ma i suoi occhi erano ormai asciutti. Aveva pianto abbastanza per oggi – si disse, prima di sorridere falsamente allo specchio e trovare la forza di aprire la porta. Un moto di ansia crebbe in lei quando vide che il signor John non c'era.
Dov'era finito?

Dopo lo spavento di venerdì era sul filo di un rasoio.
Non poteva andarsene in giro nelle sue condizioni, i medici stavano per cominciare il giro delle visite.
La giovane si avvicinò al suo letto per controllare le valigie e il suo sguardo cadde su quelle miriadi di foto. Lì sfiorò con la punta delle dita. Quel muro era troppo colorato per ritornare apatico, così Lauren pensò di lasciarle lì come una piccola traccia. Si sedette sul letto e aspettò il signor John.


Megy spalancò la porta della camera 130 e travolse in un abbraccio la povera Lauren, che a stento si tenne in equilibrio. Era visibilmente euforica per le sue dimissioni e il suo buon umore riuscì a rilassarla, facendole dimenticare i suoi problemi. Non appena si staccò da lei, abbandonò sulla sedia la borsa.
"Allora, sei pronta per tornare alla vita?" si sedette, ed anche Lauren fece lo stesso.
"Sì, anche se mi ci vorrà un po'."
"Certo." concordò l'altra. Poi le prese le mani. "Ah, non vedo l'ora che tu ritorni a scuola... e anche a giocare. La squadra sente molto la t-tua mancanza." sussurrò con gli occhi ancorati a quelli chiari della giovane, che al posto del pigiama portava una tuta larga.
Non aveva mai perso la speranza che, un giorno, Lauren avrebbe potuto riprendere a giocare a lacrosse, ma dirlo ad alta voce alla diretta interessata le parve precipitoso; in fondo non si trattava di un semplice raffreddore o una polmonite, ma di una malattia grave del sangue.
"Beh, ce la metterò tutta", sibilò l'ex capitano, alzando lo sguardo al soffitto.
Megy annuì, poi le strizzò un occhio.
"Ovviamente, e poi il 23 marzo andiamo al cinema. L'hai promesso, no?"
"Cosa? Non ti ho promesso nulla. Non so se potremo andarci quando comincierò il ciclo."
"Sì invece. C'andremo! Com'è vero che mi chiamo "Megan", chiaro?"
Lauren sospirò, rassegnata.
"Va bene." pose fine alla discussione, guadagnandosi un urlo da parte dell'amica che le si tuffò addosso.
Cercò di staccarsela di dosso ma senza riuscirci. Caddero entrambe sul letto, ridendo e scherzando, com'erano solite fare, in passato, nelle loro camere o sul campo quando sbagliavano i tiri. Finsero una spensieratezza che non le apparteneva, nascondendo in un angolino della loro mente il presentimento che la morte potesse dividerle e distruggere il loro rapporto.
Non erano nella camera di un ospedale, era tutto sparito: quelle mura incolore, l'asta di ferro che torreggiava accanto al letto, il rumore delle barelle e dei campanelli d'emergenza. Le loro risate furono interrotte dal personale medico che trasportava in camera un lettino. Megy le si spostò di dosso e Lauren si rimise in piedi, avvicinandosi, ma restando a distanza per permettere ai due di sistemare il letto a ridosso del muro.
"Signor John, ch'è successo?!"
"Niente. Sono andato al piano di sotto a fare una risonanza."
"Perché?" replicò lei.
Gli infermieri si allontanarono senza accennare altro. L'uomo spostò le lenzuola e si mise seduto.
"Non è niente. Semplici controlli." minimizzò con un gesto della mano facendo ballonzolare il filo del lavaggio. Spostò la testa. "Oh, ciao Megy. Come stai?" 
"Bene. E lei? Ho saputo che venerdì è stato operato."
"Sì." ritornò a guardare Lauren, che aveva le braccia intrecciate e la mascella contratta, aspettando che le desse una ragione convincente sulla sua assenza. Gli occhi di John corsero subito sulla tuta che le fasciava la figura.
"Stai molto meglio senza il pigiama."
"Tentativo fallito."
"Ti porti via Lauren oggi?" si rivolse alla mora. 
"Sì, ovvio. É stata troppo tempo chiusa qui dentro."
"Prenditi cura di lei." disse a voce bassa.
"Non si preoccupi, signor John. Non la lascerò sola nemmeno quando dorme."
"Non ti sembra di esagerare?", si intromise l'altra, guardando ancora nella direzione dell'uomo.
Megy scosse la testa. "No, assolutamente." 
Prese uno dei borsoni e se li caricò sulla spalla.
"Oh, quanto pesano accidenti! Cosa diavolo ci hai messo dentro... mattoni?"
"Quello che mi sono portata, cioè poco e niente." 
Non aveva voluto portarsi molte cose visto che se n'era stata in camera per la maggior parte del tempo in quei due anni di forzata degenza. L'unico oggetto che poteva ricordarle casa era sicuramente il peluche.
"Su, muoviamoci ch'è tardi!" esclamò Megy, distraendola dai suoi pensieri. "Arrivederci, signor John."
Megan si avviò alla porta. Lauren sentì le gambe diventare di gelatina. Aveva paura che quel sogno si smaterializzasse in quell'istante, provò a darsi dei pizzicotti sul braccio ma non successe nulla.
Era ancora in quella camera e ci sarebbe rimasta per poco.
"Megy?"
La ragazza si voltò.
"Ti dispiace aspettarmi fuori? Ci metterò poco."
Megy spostò contemporamente lo sguardo dall'uno all'altra, poi scosse la testa afferrando la maniglia.
"Okay. Ti aspetto qui fuori, non fare tardi." le ricordò prima di chiudersi la porta alle spalle.


Non appena Megy li lasciò da soli, John notò un particolare che, tornato in camera, non aveva visto di fronte al suo naso. "E quello?" chiese additando un punto alle spalle, dove spiccava la parete colorata.
"Ho deciso che resteranno lì."lo informò lei, senza girarsi.
"Come mai?"
"É questo il loro posto. Mia nonna diceva sempre che quando una cosa si stacca poi non si riattacca più." rivolse un breve sguardo a tutte le foto, che racchiudevano i suoi momenti più felici. "E non sentirà molto la mia mancanza quando non ci sarò." aggiunse.
L'uomo fece un sospiro. "Come potrei dimenticarti, piccola?"
"La mente è traditrice." spiegò la giovane.
"Io non potrei mai. Sei stata l'unica, vera, amica che ho avuto da quando sono stato ricoverato qui." un singhiozzo gli spezzò la voce. Si portò la mano contro la fronte, e la ritrasse subito accorgendosi dell'ago-cannula
 che stava per fuoriuscire dalla vena. 
"Anch'io le voglio bene, e sarà per sempre il mio migliore amico."
Il signor John tese le braccia e accolse la giovane in un abbraccio. 
"Ti auguro il meglio, piccolina." gli accarezzò la schiena su e giù e quando la staccò da sé le lasciò un bacio sulla fronte. Il suo cuore arrancò un battito dopo l'altro, gli occhi lucidi, il labbro gli tremava al punto che fu costretto a chinare il mento verso il pavimento.
Lauren se ne accorse, e preso un respiro profondo, afferrò il peluche sul comodino e lo strinse al petto come per proteggerlo. Con lui fra le braccia, quel pupazzo apparentemente insignificante, si prostrò ai piedi dell'uomo e glielo mise davanti, a un palmo dal suo naso.
John l'osservò stranito, ma lo trovò adorabile; come tutti gli orsetti era marroncino, con una macchia bianca sulla fronte e un'espressione dolce. Abbassò gli occhi e vide che tra le mani sorregeva un cuore spezzato, fatto a metà, tradito, illuso.
Come il suo, di cuore, più volte incollato e poi fatto a pezzi.
"Cos'è?" chiese, sollevando un sopracciglio.
"Questo è Billy, il suo nuovo compagno di stanza..."
John fissò prima il peluche e poi Lauren. "E perché lo dai a me?"
"Domanda stupida." osservò la giovane, lasciando andare l'orsacchiotto tra le mani nodose e grandi dell'uomo, che però lo strinsero con delicatezza. "Voglio che lo tenga lei. Ne ha bisogno."
Davvero lo vedeva così disperato da aver bisogno di un pupazzo? – si domandò John, arrossendo vistosamente mentre il pelo morbido gli solleticava la punta delle dita.
Lauren aveva letto nei suoi silenzi che qualcosa non andava, seppur lui si fosse ostinato a non parlare di niente che riguardasse il suo passato.
Credeva che sarebbe uscita, dimenticandosi di lui e dei giorni passati, ma lei non l'aveva fatto. Aveva capito fin da subito ch'era una persona speciale, destinata a qualcosa di grande.
"So che lo conserverà con cura, signor John. Mi fido di lei, e mia nonna sarebbe felice di saperlo nelle sue mani."
John rialzò il capo di scatto.
"No, non posso accettare".
"No. Lo prenda, è suo adesso." rispose la ragazza, costringendolo ad accettare quel "dono", che per altri poteva essere un pezzo di stoffa, ma per lui era la lampada del genio o una pietra preziosa. John la ringraziò con le lacrime agli occhi e la strinse con un braccio.
"Ora vado, altrimenti Megy mi uccide." prese l'altro borsone, più leggero. "Ci vediamo, signor John."
"Ciao, piccola e dolce Lauren."
Quando la vide uscire si lasciò ricadere sul bordo con fra le mani Billy, che avrebbe custodito gelosamente.










Accompagnata dalla sua amica Lauren percorse gli ultimi metri di corridoio, che la separavano dall'ufficio del dottor Tognetti a passi pesanti. Ogni volta che fissava un incontro non c'erano mai buone notizie, casomai il contrario. Si aspettava che, prima di uscire, avrebbe chiarito gli ultimi passaggi dello "straordinario programma", ma in cuor suo Lauren sperava che non fosse niente di grave.
Quando arrivò alla porta bussò due volte, tallonata dalla sua amica. Aprì piano la porta e quando la spalancò si rese conto che oltre al dottore c'era un altro uomo, che le dava le spalle.
Si bloccò inarcando un sopracciglio e facendo scorrere gli occhi sull'intera figura, dalle spalle larghe e prominenti ebbe la strana sensazione di conoscerlo.
I suoi pensieri furono interrotti dal richiamo del medico che con il suo indice le indicava la sedia accanto.
"Siediti pure."
Megy le scivolò alle spalle.
"Che succede?"
Dopo un iniziale sbigottimento chiuse la porta. I suoi piedi cominciarono a muoversi e si avvicinò guardinga. L'uomo doveva essere un altro oncologo? Forse Tognetti aveva chiesto un nuovo consulto, a sua insaputa? – pensò la ragazza, rimanendo a fissare l'uomo che non muoveva un dito e se ne stava in silenzio. Megy si coprì la bocca con la mano. La compagna la fissò, a sua volta.
"Si può sapere che cosa ci trovi da ridere? E chi è quello!" gli puntò l'indice addosso. 
"Sono io, patatina.
" esordì, alzandosi in piedi.
Al sentire quella voce stranamente familiare la giovane si girò di nuovo. 
Una voce, la sua, che poteva appartenere solo a lui. Possibile che fosse tornato dal suo viaggio oltreoceano?
Lauren sussultò sentendo le lacrime salirle agli occhi quando quel nomignolo dolce le accarezzò l'orecchio. Le sopracciglie folte e nere, le labbra carnose e un po' screpolate e gli occhi screziati di verde, brillanti al sole come i campi in primavera.
Era suo padre, il suo amato marinaio, ed il suo eroe che fin da piccola l'aveva protetta da tutti i mali.
Che ci faceva in quella stanza invece che sulla sua nave? E Megy ne era al corrente visto che stava ridendo sotto i baffi da quando avevano lasciato la 130?
Fissò quegli occhi, lucidi come i suoi, e senza chiedersi corse da lui. Lui l'accolse, quelle braccia forti la sollevarono dal pavimento e la strinsero fino a a farle mancare il respiro.
Scoppiò a piangere sulla sua spalla, mentre avvolgeva le mani attorno alla sua schiena. Ricordava quando da piccola cadeva dalla bicicletta sul selciato di casa e lui, tutte le volte, era pronto a consolarla, a dirle che il dolore sarebbe sparito.

Stavolta, papà il dolore rimane, non passerà. Però tu sei qui, sei tornato per me abbandonando il tuo amato mare. E non c'è più solitudine nel mio cuore nè timore che mi scalfisce o paura che mi soffoca.

"Bambina mia... mi spiace tanto per questi mesi... – intensificò la stretta e quando la mise a terra le accarezzò lievemente i capelli; ne ricordava molti di più. – Sono qui adesso, non piangere."
"Papà." sussurrò schiacciata al suo petto. "Mi sei mancato così tanto in questi mesi."
"Anche tu. Non ho fatto altro che pensare a te, giorno e notte... alla mia piccola guerriera in ospedale."
Lauren si asciugò le lacrime con la manica e si staccò da lui. "Ripartirai di nuovo?"
"No. Voglio restare vicino a te e alla mamma."
Sentirgli dire quelle parole la rese felice. Sua madre almeno poteva contare su suo padre, quando lei sarebbe partita per quel viaggio di sola andata. Lauren l'abbracciò di slancio. 
Il dottor Tognetti si schiarì la voce attirando l'attenzione su di sè, rompendo quell'atmosfera familiare.
"Mi dispiace rovinare questo bel momento, signor Castle."
"Non si preoccupi, dottore." si strinsero brevemente la mano. "Io non posso far altro che ringraziarla per l'enorme aiuto che sta dando alla mia famiglia, e soprattutto, a Lauren. Le sarò debitore per sempre."
"Si sieda, prego. Le devo parlare un secondo."
Lauren rivolse uno sguardo interrogativo al padre mentre si accomodavano. Lui le afferrò la mano, i suoi occhi dicevano così tanto, e lei li lesse con il respiro che cozzava fra i denti.

Come quando è la calma prima di una tempesta.















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Note a piè di pagina 

celebre dipinto del pittore norvegese "Edvard Munch" vuole rappresentare il dramma psichico che sta lacerando ognuno di noi, quando gli altri ci abbandonano al nostro destino. Quadro che, personalmente, utilizzai nel mio argomento "il dolore" della tesina per la licenza superiore.

  ago-cannula è un catetere venoso periferico, ovvero un presidio sanitario che utilizzato, esclusivamente da personale sanitario infermieristico e/o medico per l'incannulamento di una vena superficiale periferica, per la fleboclisi o per la somministrazione endovenosa di farmaci.

 soprannome affibbiatomi, da piccola, da mio padre.


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