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Autore: nikita82roma    10/06/2018    2 recensioni
Ambientata prima dell'ultimo episodio della prima stagione. Castle e Beckett sono sulla scena del crimine di un duplice omicidio, una coppia di coniugi con una bambina in affido: Joy entrerà prepotentemente nella vita di castle e ancora di più in quella di Beckett. Il passato si scontrerà con il futuro, scelte, errori e decisioni vecchie e nuove porteranno i nostri dentro un percorso dal quale uscirne non sarà facile, dove giusto e sbagliato non sono così netti e dove verranno prese decisioni sofferte.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Nuovo personaggio, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima stagione
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Kevin e Javier si erano precipitati con una pattuglia di rinforzo a casa di Emma Shade. Nessuno gli aveva risposto e dopo aver facilmente scardinato la vecchia porta dell’abitazione si erano trovati davanti un macabro scenario: una donna di mezza età giaceva senza vita vicino all’ingresso, uccisa con un colpo d’arma da fuoco in fronte, mentre nell’altra stanza oltre alla proprietaria dell’appartamento freddata da Karn, trovarono l’omicida ormai esanime colpito da quattro colpi al torace. Beckett era poco distante da lui, i due detective si erano precipitati su di lei, con il terrore negli occhi e le mani tremanti. Era stato Javier a farsi coraggio ed appoggiando due dita sul suo collo aveva potuto sentire che c’era battito e questo aveva urlato ai colleghi sollecitando l’intervento dell’ambulanza mentre le liberava i polsi dalle manette. Il suo respiro era flebile e continuava a perdere molto sangue dalle ferite all’addome. Erano rimasti in attesa dei paramedici e solo quando l’avevano lasciata alle loro cure, Esposito aveva avvisato Castle.
Questo era tutto quello che i due detective avevano raccontato a Rick più volte in quel tempo di attesa che sembrava a tutti interminabile e lo scrittore aveva potuto leggere chiaramente negli occhi dei suoi amici la paura provata in quei momenti, non lo avevano detto chiaramente ma dalle loro pause, i silenzi e le frase incerte aveva capito quello che era stato il loro timore, che in quella casa nessuno fosse sopravvissuto. I medici che l’avevano soccorsa avevano poi aggiunto che durante il tragitto aveva ripreso e perso conoscenza più volte, ma non erano sicuri di quanto fosse lucida, perché era sicuramente in fase di shock. Aveva due ferite da arma da taglio che non avevano intaccato nessun organo vitale, mentre una più profonda aveva provocato una lesione profonda che aveva causato a sua volta un’emorragia interna e quello che stavano cercando di fare era bloccare la perdita di sangue e stabilizzare le sue condizioni non critiche ma sicuramente gravi. Nessuno tra i medici si era sbilanciato oltre sul suo stato e nessuno di loro aveva avuto il coraggio di chiedere di più, nemmeno Castle, paralizzato dalle parole dei dottori e dalle sue paure.
 
Quando Esposito e Ryan si erano allontanati per espletare gli obblighi del loro ruolo tornando al distretto, Castle si trovò costretto ad affrontare tutte le questioni pratiche del caso, prima fra tutte avvisare sua madre ed il padre di Kate. Da Martha, spaventata e preoccupata, ricevette la rassicurazione che Joy stava dormendo e le chiese di non dirle nulla fino al suo ritorno. Jim si trovava a San Francisco per un meeting e lo interruppe nel bel mezzo di una cena con dei colleghi. Si sentì impacciato a dirgli cosa era successo. Non voleva allarmarlo ma nemmeno minimizzare e quindi provò a dargli la notizia per quella che era, senza troppi commenti e considerazioni personali. Pensò che doveva essere risultato decisamente freddo ed insensibile agli occhi del padre della donna che amava, ma se Jim lo aveva pensato non lo aveva dato a vedere, gli disse solo che avrebbe preso il primo volo disponibile per tornare in città, con la promessa che lo avrebbe aggiornato telefonicamente ad ogni novità.
Chiusa la conversazione con Jim, Rick si trovò solo, come lo era prima della telefonata di Javier, con paure che erano diventate realtà ed altre ancora più grandi che bussavano alla sua mente. Era quasi mezzanotte e si trovò stupidamente ad aver paura che quel giorno finisse, ormai vedeva segnali in ogni cosa ed anche quello temeva che fosse uno. Era entrato in una fase di pessimismo universale, dove ogni cosa lo portava a pensare al peggio. Si concesse qualche istante per provare a rilassarsi, buttando il peso della testa troppo piena di pensieri tra le mani, appoggiate sulle gambe che faticava a tener ferme, anche quando era seduto. Era stanco. Era preoccupato. Era terrorizzato.
 
Era stata fortunata. Così gli aveva detto il chirurgo che l’aveva operata quando era uscito. Era stata fortunata perché se fosse trascorso altro tempo per lei non ci sarebbe stato più nulla da fare, i danni e l’emorragia interna sarebbero stati troppo grandi e non sarebbe sopravvissuta. L’avevano ripresa per i capelli, forse il dottore non aveva usato proprio quelle parole, ma il senso era sicuramente quello. Poteva vederla, se voleva. Un infermiere l’avrebbe accompagnato da lei di lì a poco.
Mentre camminava seguendo un ragazzo giovane e prestante, lo poteva intuire nonostante l’orrenda divisa azzurrina che avrebbe dato alla maggior parte delle persone una forma sgraziata, pensò che quella non era stata proprio la sua idea di poco tempo. Aveva dovuto aspettare ancora più di mezz’ora prima che qualcuno si degnasse di portarlo da lei, mezz’ora nella quale la sua mente, che si era leggermente calmata dopo aver parlato con il chirurgo, era tornata ad insistere su tutte le possibilità più drammatiche che avrebbero giustificato la sua permanenza prolungata lì. Aveva provato, ovviamente, a chiedere a chiunque passasse da lì ed avesse anche una minima sembianza di medico o infermiere, ed era per questo che nella sua evidente poca lucidità aveva fermato anche una donna di una certa età con un vestito dello stesso colore ma ancora più brutto della divisa dell’infermiere che lo stava accompagnando, venendo fulminata dal suo sguardo quando gli rispose stizzita che lei era lì per suo marito appena ricoverato. Si era scusato blaterando qualcosa mentre lei borbottava accelerando il passo, in altri momenti avrebbe tirato fuori tutto il suo charme per coprire la gaffe e sicuramente avrebbe fatto colpo anche su di lei, non quella sera, dove quelle scuse parvero ancora più goffe e impaccate.
L’infermiere, Mark, come era scritto sul cartellino appuntato sulla giacca della divisa, aprì con decisione una porta entrò ed andò con passo deciso verso il letto e i macchinari che erano intorno, controllò che tutto fosse in ordine e poi se ne andò dicendogli che poteva rimanere, ma che Beckett per le ore successive non si sarebbe svegliata. Rick rimase vicino alla porta in quella stanza troppo piccola, piena dei bip bip delle apparecchiature mediche che con i loro monitor la illuminavano più della luce fredda dei led sulla parete dietro il letto. Quando trovò il coraggio di avvicinarsi, dopo aver studiato ogni angolo della stanza per non posare lo sguardo su di lei, si sentì infinitamente piccolo ed impotente. Era arrabbiato, preoccupato, sollevato, addolorato e felice. Tutto insieme. Era viva, era salva e per lui che aveva pensato al peggio era già tanto, ma allo stesso tempo era ferita, incosciente, in un letto d’ospedale e la gravità della situazione, a suo parere, era data dal numero di macchinari che erano collegati a lei, tanto da renderla quasi irriconoscibile sotto la maschera di ossigeno che le copriva il volto. Per questo era preoccupato ed era arrabbiato perché si era messa in quella situazione, perché aveva rischiato di perderla e lei di lasciare lui e Joy da soli.
Ci aveva pensato? Aveva avuto tempo e modo di pensarci? Non sapeva molto di quanto era accaduto in quella casa, ma da come gli aveva detto doveva essere stata imprigionata per un po’ e sicuramente aveva provato a liberarsi, perché riusciva su un polso ad intravedere graffi, tagli e lividi che sembravano proprio provocati da delle manette. Era sicuro che anche lei aveva pensato a loro e sapeva dentro di sè, spostando la rabbia che si affacciava e che gli faceva alterare la percezione di tutto, che Kate era la prima in quei momenti, ad essere dispiaciuta ed arrabbiata con se stessa. Era nella paradossale situazione di essere arrabbiato con lei e volerla difendere da quella che immaginava sarebbe stata la sua stessa rabbia e dirle di non sentirsi in colpa.
Le sfiorò con le dita il braccio fino al polso dove poi cominciavano i tubicini collegati alla flebo lì vicino e ripetè quel gesto più volte in modo automatico, senza rendersene conto, guardandola nel suo sonno tranquillo, sperando inconsciamente di ricevere un cenno che non ci fu. Si sedette poi nella poltroncina di pelle blu che portò vicino al letto. Rimase sveglio a guardarla gran parte di quello che rimaneva in quella notte, pensando che avrebbe voluto rimanere sveglio a guardarla a letto in ben altre circostanze. Cominciava ad albeggiare quando si alzò da lì, voleva essere a casa quando Joy si sarebbe svegliata, voleva essere lui a parlarle di quanto era successo a Kate. Le prese delicatamente la mano, accarezzandole le dite parzialmente imprigionate da vari sensori, stando attento a non fare danni e immaginando la voce con la quale lei lo avrebbe ripreso se per qualche motivo avesse fatto suonare tutto. Pensò che al suo dito ci sarebbe dovuto essere altro quella sera e alle luci dell’alba si ripromise che non avrebbe aspettato altro tempo, non avrebbe più cercato il momento giusto. Le diede un bacio sulla fronte, evitando il cerotto che le copriva una tempia, indugiando con le labbra sulla sua pelle più di quanto fosse normale. Sarebbe tornato presto, glielo promise.
 
Prima di rientrare al loft aveva deciso di fermarsi in una caffetteria, ne aveva scoperta una, proprio dietro casa sua che era aperta h24, proprio una delle notti che rientrava dal distretto dopo aver lavorato ad un caso con Kate fino a tardi. Non facevano di certo il miglior caffè della città, ma preferiva quei piccoli locali alle grandi catene internazionali, ed anche il locale lasciava un po’ a desiderare, ma non vedeva mai nessuno fermo ad uno dei pochi tavoli: la gente entrava, prendeva la sua bevanda ed usciva senza guardarsi troppo intorno. Lui invece non era così, lui amava osservare tutto, anche i piccoli particolari, come le quattro cartoline dal Messico, una in più rispetto all’ultima volta che c’era stato, attaccate al muro sotto la lavagna scritta a mano con gessetti colorati. Immaginava che ci fosse qualche caro amico o ex collega di lavoro che si era trasferito lì e che periodicamente mandava i suoi saluti. Qualcuno di nostalgico e romantico, perché chi è che scriveva più le cartoline in quei giorni?
Prese il suo caffè accompagnato da un sorriso del ragazzo che glielo aveva servito e si sedette al primo tavolo vicino al bancone, era l’unica persona a quell’ora lì. La bevanda calda e forte lo fece sussultare mentre il liquido scendeva e lui era con lo sguardo perso che si alternava tra i tre quadri attaccati un po’ storti alla parete in fondo al locale che riproducevano vecchie immagini della città in bianco e nero. Rimase a sorseggiare il caffè il tempo necessario per rimettere insieme i pensieri, mentre la gente entrava ed usciva e la città si rimetteva lentamente ma inesorabilmente in moto. L’alba aveva lasciato spazio ad una mattina chiara, con un cielo totalmente limpido che sentiva in profondo contrasto con il suo umore constatando che di notte era molto più facile gestire e nascondere i sentimenti.
 
- Mamma, già in piedi? - Esclamò sottovoce appena rientrato a casa vedendo sua madre in cucina già perfettamente vestita e truccata, mentre cercava non sapeva cosa in frigo.
- Veramente tesoro non ho dormito poi molto. - Gli rispose mentre lasciava che la salutasse con un bacio affettuoso. - Vuoi mangiare qualcosa? Un caffè?
Rick declinò l’invito con un cenno della mano andandosi a sedere su uno degli sgabelli della cucina ed evitando accuratamente il divano, temendo di sprofondare in un sonno senza fine: si era sentito improvvisamente stanco, molto più di quanto aveva realizzato fino a quel momento.
- Un caffè sì. - Disse ripensandoci e sua madre si adoperò subito per prepararlo.
- Come sta Katherine? - Chiese Martha porgendogli la tazza fumante.
- È stata fortunata. Si dovrebbe svegliare tra qualche ora, così dicono i medici. - Rispose sorseggiando senza avere troppa voglia di parlare. - Joy?
- Dorme. - Martha si sedette davanti a suo figlio con anche lei un caffè caldo tra le mani.
- Bene. Almeno lei… - Sospirò Rick passandosi una mano tra i capelli, pensieroso. Tra madre e figlio era sceso un silenzio quasi imbarazzante, interrotto poi dalle parole dell’attrice.
- Certo che quella ragazza fa un lavoro fin troppo pericoloso. È la seconda volta in pochi mesi che rischia la vita. Dovrebbe pensarci, adesso. Stare più attenta. Ora ha te e Joy e…
- Kate è attenta, mamma - La interruppe Rick. - E pensa sempre a Joy.
- Certo che ci pensa ma…
- È il suo lavoro e Kate è una brava madre. Sta facendo tutto per conciliare la sua vita con Joy e tutto il resto. - Rick non riusciva a tollerare che qualcuno accusasse Kate, per nessun motivo, nemmeno sua madre.
- Lo so Richard, non volevo dire che non è una brava madre, solo che adesso dovrebbe rivedere alcune cose. Ha una figlia, le priorità dovrebbero cambiare, non puoi fare tutto come prima, hai delle responsabilità diverse, capisci cosa voglio dire? - Il tono più conciliante non incontrò, però, i favori dello scrittore.
- Tu te ne intendi di priorità e responsabilità verso i figli, non è vero mamma? - Le rispose con tono nemmeno troppo velatamente accusatorio, ricordando la sua infanzia trascorsa tra teatri ed attori, in mezzo a fiumi di alcool e non solo.
- Touchè, Richard. Vuoi rinfacciarmi qualcosa? - Chiese l’attrice colpita nel segno.
- No. Ma non voglio che si metta in discussione l’attaccamento di Beckett a Joy o a me.
- Non sto facendo questo, ma andiamo Richard, non mi dire che non lo pensi anche tu che il suo lavoro sia fin troppo pericoloso e che non sei preoccupato per questo! Ti conosco troppo bene ragazzo mio e negare non servirà a cambiare le cose.
Non ci fu risposta da parte sua e Martha non disse altro. Tornarono entrambi a concentrarsi sui loro caffè. Rick sapeva che sua madre aveva ragione, almeno in parte, che le sue paure erano fondate ed erano le stesse che condivideva anche lui, ma aveva sempre e comunque quell’istinto di dover proteggere Beckett da ogni accusa, anche dalle proprie. Si disse che forse era un modo per compensare il suo atteggiamento dei mesi scorsi quando era stato lui a ferirla nel momento in cui era più fragile.
- Papà? - La voce insonnolita di Joy ferma in cima alle scale attirò l’attenzione di Castle d Martha.
- Ehy… già sveglia? - Rick provò ad abbozzarle un sorriso mentre lei scendeva a piedi scalzi andando verso di lui che sperava di avere ancora un po’ più tempo per prepararsi a quello che le doveva dire. Joy quando fu vicino a lui annuì con la testa e si stropicciò gli occhi.
- C’è anche la mamma? - Chiese guardandosi intorno.
- No, la mamma non c’è… - rispose prendendo tempo.
- È ancora a lavoro?
- Non proprio Joy… Vieni qui… - Rick la fece salire sulle sue gambe accarezzandole la testa e spostando i capelli dagli occhi.
- Beh, io adesso è meglio che vada. - Disse Martha alzandosi e togliendo le tazze con il caffè ancora non finito. Diede un bacio a Joy e prima che Rick potesse dire nulla era già uscita. Castle prese coraggio e parlò a sua figlia.
   
 
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