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Autore: Kim WinterNight    14/06/2018    2 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

Leave me alone

[Leah]




Suonai il campanello e attesi, già spazientita. Avrei voluto evitare di trovarmi in quella situazione, ma purtroppo mi toccava affrontarla.

Ad aprirmi fu una cameriera, una delle tante che non sapevo neanche definire né classificare.

«Signorina Moonshift, suo padre è nel suo studio. Vado a controllare se può riceverla» esordì la giovane donna, facendomi accomodare nel grande salotto della nostra casa.

Odiavo quel posto. Me n'ero andata, ero scappata a gambe levate perché mi stava troppo stretto, anche se paradossalmente era veramente troppo grande per i miei gusti.

Mio padre bazzicava poco e niente in casa, a lui andava bene stare chiuso nel suo studio. Per il resto, lasciava che le sue amanti del momento la arredassero a sue spese; questa, di conseguenza, non aveva mai avuto una sua identità e un suo stile.

Non ricordavo quasi più come fosse arredato quel luogo quando ancora c'era mia madre.

Mentre osservavo distrattamente i mobili moderni e insignificanti, qualcuno entrò nella stanza. Mi voltai, convinta si trattasse della cameriera, ma mi ritrovai faccia a faccia con Medison.

«Ciao Leah. Cosa succede? Perché sei qui?» mi domandò in tono piatto, prendendo posto su uno dei divani in pelle bianca che occupavano l'enorme salotto.

«Ciao» biascicai. «Devo parlare con Alan.»

«Di che si tratta? Sei bene che io e lui non abbiamo segreti» squittì.

«Non sono affari tuoi» tagliai corto.

«Sei così acida perché le cose con lo stecchino pelato non vanno come previsto?» mi schernì in tono tagliente, senza degnarmi di un'occhiata.

Mi trattenni per non saltarle addosso o insultarla pesantemente. Inizialmente Medison era stata semplicemente una tipa insignificante che sembrava saper stare al suo posto, mentre ora stava cominciando a irritarmi e a immischiarsi in faccende che non la riguardavano. Sperai pigramente che Alan Moonshift avesse già messo gli occhi su un'altra giovane preda e che mandasse via al più presto quell'essere immondo che sedeva sul divano di fronte a me.

Poi mi resi conto che questo non sarebbe più stato un mio problema.

La cameriera tornò poco dopo e mi annunciò che potevo raggiungere Alan nello studio.

«Theo, portami un tè!» sentii ordinare da Medison.

Era un essere orribile, la detestavo sempre più.

Quando misi piede nello studio di mio padre, dopo aver attraversato quasi tutta la grande casa, fui invasa da uno strano senso di sollievo nel rendermi conto che lui non aveva modificato l'arredamento e che quel luogo poteva sembrarmi ancora vagamente familiare.

Poi tutto si dissolse e il disagio che avevo sempre percepito nell'entrare in quella stanza si fece largo in me, costringendomi a bloccarmi sulla soglia. Non avevo alcuna intenzione di sedermi e fingere che io e il mio orribile genitore stessimo per intraprendere una normale conversazione.

«Leah! Cosa ti porta da queste parti? Cerca di fare in fretta, tra poco arriva un cliente» esordì con scarso interesse Alan, intrappolato nel suo completo gessato e nella sua aura priva di sentimenti.

«Tranquillo, non ti ruberò tempo prezioso» lo rassicurai, incrociando le braccia al petto.

Lui mi guardò appena. «Bene. Che succede? Ti servono soldi?» domandò.

Il sangue mi ribollì nelle vene, tuttavia cercai di non scompormi troppo. «No, grazie. Sono qui per annunciarti che i tuoi soldi non mi servono più.»

«Il tuo nuovo fidanzato si è deciso a mantenerti?» buttò lì, frugando tra alcune carte che teneva sulla scrivania.

«Lascio l'università e vado a lavorare» affermai. «Ecco perché non mi servono più i tuoi soldi, Alan» aggiunsi in tono sprezzante.

Lui scrollò le spalle e si lasciò sfuggire un sorriso. «Vai a lavorare, eh?»

«Cosa stai cercando di insinuare?» lo aggredii, facendo un passo avanti.

«Niente. E si può sapere perché?»

Sbuffai. «Non ti importa davvero, perciò non perderò tempo a spiegartelo. Del resto, hai fretta.»

«Giusto. Possiamo parlarne un'altra volta, va bene?»

Lo fissai e mi fece veramente tanta pena. Era patetico.

«Non ci sarà un'altra volta. Io e te non abbiamo più niente da dirci» chiarii, per poi dargli le spalle. Ero già stanca di trovarmi là dentro, volevo soltanto tornare al mio appartamento e prepararmi per l'indomani.

«Cosa stai dicendo? Io sono tuo padre, non puoi tagliarmi fuori dalla tua vita» protestò debolmente Alan, evidentemente confuso da ciò che gli avevo appena detto.

Risi sarcastica. «Sei ridicolo! Ti saluto Alan, buona vita» conclusi, per poi uscire da quell'inferno e sbattere la porta.

Tornai velocemente verso l'ingresso, ma mi fermai poco prima di giungere nei pressi del salotto. Udii la voce di Medison che parlava con qualcuno al telefono. Il mio carattere tendenzialmente curioso mi spinse a rimanere per un attimo in ascolto.

«Sì, certo che costringerò Alan a finanziare la serata di beneficenza! Pende dalle mie labbra! Ah sì, almeno ci faremo una buona pubblicità e potremo essere ricordate come donne ricche e potenti, ma che comunque fanno qualcosa per il prossimo... sì, brava, caritatevoli! Oh, ma certo! Ci aggiorniamo più tardi, andrà tutto bene!»

Mi lasciai sfuggire uno sbuffo e ripresi a camminare verso l'uscita, incrociando brevemente la cameriera.

«Arrivederci, signorina. È rimasta per poco, tornerà presto?» mi domandò la giovane, aprendomi la porta.

Mi fermai e la guardai, rendendomi conto di quanto fosse bella, nonostante indossasse abiti sformati e fosse appesantita dalla stanchezza. «Come si chiama?» volli sapere.

«Theodora» ammise.

«Theodora, bene. Io non metterò mai più piede in questo tugurio, e le consiglio caldamente di fare lo stesso. Cerchi un altro lavoro e scappi via, qui sono tutti matti.»

Detto questo, me ne andai e la lasciai lì, sperando che seguisse al più presto il mio suggerimento.


La sveglia trillò e mi fece sobbalzare. Avevo cambiato suoneria da poco e ancora non mi ero abituata a sentire Bring It dei Soulfly che esplodeva dalle casse del mio cellulare.

Interruppi velocemente quella tortura e mi guardai attorno con gli occhi sbarrati. Ci impiegai un attimo a rendermi conto che mi trovavo nella mia stanza, all'interno dell'appartamento di Paradise.

E proprio mentre mi domandavo dove fossero le mie coinquiline, mi ricordai improvvisamente che quello sarebbe stato il mio primo giorno di lavoro.

Afferrai lo smartphone dal comodino. Erano le sette e diciassette del sette ottobre. Tutti quei sette mi misero addosso una strana inquietudine, ma poi decisi di ignorare qualunque sciocchezza e capii che dovevo alzarmi dal letto e darmi una mossa.

John mi avrebbe aspettato al locale per le nove, e io non volevo arrivare in ritardo. L'idea che stavo davvero per cominciare una nuova parte della mia vita mi elettrizzava, anche se mi sentivo ancora atterrita e insicura. Sarei stata all'altezza?

E ancora mi pentivo di non aver parlato subito con Shavo dei miei dubbi. Aveva dato di matto quando gli avevo confessato di voler lasciare l'università, non perché volesse obbligarmi a continuare con gli studi, ma per il semplice fatto che si aspettava che mi sarei confidata con lui. Non aveva avuto tutti i torti, e mi aveva dato della sciocca perché avevo temuto di deluderlo a causa della mia vita e delle mie scelte inconcludenti.

Ora per fortuna era tutto a posto. Avevamo chiarito, e lui si era addirittura scusato per aver reagito così d'impulso. Aveva aggredito anche Daron al telefono, dopo aver scoperto che il chitarrista sapeva già ogni cosa.

Ero riuscita a combinare un disastro insensato, ma tutto si era risolto senza troppi danni e io mi sentivo molto più leggera.

Mentre frugavo nell'armadio, la mia mente si soffermò sui ricordi della sera precedente, e un sospiro fuoriuscì dalle mie labbra.

Mi sentivo molto più leggera da quando avevo detto addio ad Alan Moonshift e alla sua mediocrità, e il fatto che non avesse fatto una piega all'idea di perdermi definitivamente non faceva che rendermi ancora più certa della mia scelta. Ammesso e non concesso che io avessi mai realmente fatto parte della sua vita.

Mi avviai in bagno, decidendo che avrei scelto dopo i vestiti da indossare. La ricerca all'interno dell'armadio era stata piuttosto infruttuosa.

Il cellulare mi avvisò dell'arrivo di un messaggio su WhatsApp, così tornai in camera e lo afferrai, per poi portarmelo dietro.

Era di Shavo.


Leah, ti auguro buona fortuna per oggi! Vedrai che andrà tutto bene, tesoro mio! ♥ Io intanto sto per uscire, il mio aereo parte tra meno di due ore. Devo darmi una mossa. Ti faccio sapere quando arrivo!


Sorrisi e digitai una risposta veloce, poi mi preparai in fretta per andare al lavoro. Mi sembrava ancora assurdo poter affermare di avere un'occupazione che mi avrebbe permesso di mantenermi, e che finalmente mi avrebbe reso indipendente e libera dalle grinfie di una famiglia distrutta e dilaniata.

Quando giunsi in cucina con l'idea di mangiare uno yogurt prima di uscire, trovai un biglietto sul tavolo. Era di Shelley, riconobbi subito la sua grafia ordinata e chiara.


Buona fortuna per oggi! Ci sei per pranzo? Sam non rientra fino a stasera, è uscita molto presto per una manifestazione in città! Chiamami più tardi!


Avrei inviato un messaggio a Shelley una volta seduta sull'autobus.

Mangiai in fretta uno dei miei amati yogurt con i cereali e finii di raccattare ciò che mi serviva per riempire il mio zainetto. Ci infilai dentro anche un blocco per appunti, un pacchetto di caramelle e gli occhiali da sole.

Eravamo a ottobre, ma a Las Vegas faceva un caldo terribile, perciò non mi pentii di aver indossato un paio di pantaloncini e una canottiera leggera. John non mi aveva dato indicazioni sull'abbigliamento da utilizzare, ma in ogni caso stavamo solo iniziando a decidere come disporre e arredare il locale, non c'era bisogno che ci mettessimo in tiro.

Sull'autobus scrissi a Shelley, e mi resi conto che anche qualcun altro mi aveva scritto per farmi gli auguri per il mio nuovo lavoro.

E allora mi accorsi che stava succedendo davvero, e fui invasa da un'euforia indescrivibile, che mi rese allegra e mi fece dimenticare il brutto incontro che avevo avuto la sera prima con Alan Moonshift.


«Pensa che quell'imbecille si lascia usare dalla sua amante del momento. Ieri l'ho sentita architettare qualcosa al telefono, ha detto che avrebbe costretto Alan a finanziare una qualche serata di beneficenza...» stavo raccontando a John, mentre finivamo di pranzare in un piccolo fast food situato poco distante dal suo locale.

«Immaginavo che fossero una coppia del genere, per quanto io li conosca poco» commentò il mio amico, mettendosi in bocca l'ultima manciata di patatine fritte che gli era rimasta.

«Oh, sapessi quanto sono patetici! Ma lui è sempre stato così, con tutte le sue amanti. Mia madre non si faceva mettere i piedi in testa, ma essendo una tipa incostante, alla fine si è stancata di lui e se n'è andata. Senza di me.»

John mi guardò negli occhi e io subito mi sentii rincuorata da quello sguardo amichevole e affettuoso. «Mi dispiace molto.»

«Ormai è andata» minimizzai, addentando il mio sandwich.

«Be'... che te ne pare del nuovo lavoro? Ti trovi bene con me o sono troppo cattivo?» cambiò argomento il batterista.

Sorrisi e cominciai a rispondergli, ma ancora non avevo ingoiato il boccone che stavo masticando e finii per sputacchiare. «Scusa! Oddio, faccio schifo!»

John ridacchiò. «Non così tanto. Ho visto di peggio.»

«Okay! Non sei per niente cattivo. Tutti vorrebbero lavorare per una persona tranquilla e ragionevole come te. Andrà tutto bene, me lo sento!» esclamai. Poi cercai ancora i suoi occhi. «Io non so ancora come ringraziarti per questa opportunità.»

«Sono io a dover ringraziare te. Hai gusto, senso pratico e capisci al volo quali sono i miei capricci. Se riuscirai a sopportarmi, costruiremo insieme un bellissimo regno!»

Risi sonoramente. «Un regno?»

John si grattò la nuca, arrossendo leggermente. «Già. Per me Torpedo è come un reame dove ognuno potrà sentirsi accettato e trovare il suo posto tra le pagine dei fumetti e le avventure dei loro eroi.»

Il cuore mi si riempì di gioia nell'udire quelle parole, pronunciate da lui con una dolcezza e una semplicità che mi fecero venir voglia di abbracciarlo.

Stavo per dire qualcosa, quando il mio cellulare squillò. Trattenni uno sbuffo e lo estrassi dalla tasca anteriore dello zainetto, per poi rendermi conto che Shelley mi stava chiamando.

«Shy, che succede?» esordii.

«Leah...» La mia amica parlò con un tono strano, che non prometteva nulla di buono.

«Non farmi preoccupare!» esclamai, agitandomi sulla sedia di plastica.

John mi rivolse una breve occhiata, poi si alzò e fece cenno verso la cassa. Avrei voluto impedirgli di pagare anche per me, ma in quel momento avevo altro per la testa.

«No, ecco...»

«Shy, stai bene?» squittii.

«Io sì, tranquilla. È solo che... c'è qui tua madre, credo.»

Avvertii il sangue defluire rapidamente dalle mie guance. Sgranai gli occhi e strinsi con più forza il telefono tra le dita. «Come?» sibilai.

«Di là in cucina c'è una tizia che dice di essere tua madre. Un po' ti somiglia, ma sai com'è... io non l'avevo mai vista prima...» farfugliò Shelley.

«Okay, okay, ho capito. Arrivo subito» tagliai corto, evitando di farle notare che avrebbe potuto chiamarmi prima di farla entrare in casa.

Mi alzai controvoglia e afferrai ciò che restava del mio panino, poi misi lo zaino in spalla e raggiunsi John che stava ritirando il resto dalla cassiera.

«Devo andare. È successo un casino, mia madre è a casa mia.»

«A Paradise?» fece il mio amico confuso.

Insieme ci avviammo verso l'uscita del locale.

«Sì. Non so come abbia fatto a scoprire il mio indirizzo, ma ho già un'idea» grugnii, avventandomi nuovamente sul mio sandwich.

«Okay. Vuoi che venga con te?» mi propose il batterista in tono apprensivo.

«No. Ci vediamo più tardi al locale.» Gli diedi un breve abbraccio e mi avviai di corsa alla fermata dell'autobus.

Non riuscivo a capire perché Cecily Vickers si fosse improvvisamente ricordata di avere una figlia di venticinque anni.


Se ne stava seduta al tavolo della cucina del mio appartamento, sorseggiando del tè freddo da un bicchiere che Shelley le aveva offerto.

Aveva i capelli corvini striati di grigio raccolti in una crocchia, il viso scarno e pallido leggermente truccato. I suoi occhi verdi si posarono su di me non appena entrai in casa come una furia. Le sue labbra sottili si incurvarono in un sorriso privo di dolcezza, ma pregno di sarcasmo.

E io ricambiai con la stessa moneta, non riuscendo a provare niente nei confronti di quella perfetta sconosciuta. Forse l'avevo sempre ammirata per il fatto di aver lasciato quell'idiota di Alan, ma con quella decisione aveva scelto di tagliar fuori anche me dalla sua vita.

«Cecily, cosa ci fai qui? Chi ti ha dato il mio indirizzo?» esordii, stringendo i pugni.

Shelley, in piedi accanto al frigorifero, si voltò nella mia direzione e mi rivolse un'occhiata colma di dispiacere. «Ciao Leah, mi dispiace...»

«Shy, non preoccuparti. Hai fatto bene a chiamarmi» la rassicurai.

«Okay, vado in camera a studiare» decise la mia coinquilina.

Annuii e la seguii con lo sguardo finché non si richiuse la porta alle spalle. Poi tornai a fissare la donna seduta al mio tavolo con fare accusatorio, attendendo che mi desse una spiegazione.

Cecily sospirò teatralmente e sollevò gli occhi al cielo. «I convenevoli non ti sono mai piaciuti, vero? Nemmeno a me, però, be'... non ci vediamo da anni, perciò non è poi tanto male se cominciamo con un ciao. Non trovi?» esordì senza scomporsi.

«Sì, ciao. Allora? Che vuoi?» tagliai corto.

«Perché non ti siedi, Leah? Sei cresciuta molto dall'ultima volta che ci siamo viste.»

Avrei voluto ridere, ma mi limitai ad avvicinarmi al tavolo. Mi sedetti il più distante possibile da lei e la fissai in cagnesco. «Sei qui per ricordare i bei vecchi tempi, quelli in cui eravamo una famiglia felice?»

Lei scosse il capo. «No, sono qui perché tuo padre mi ha detto che hai lasciato l'università e che non vuoi più vederlo. Che ti prende?»

Stavolta non fui in grado di trattenere una risata intrisa di ironia. «Ecco qual è il problema. Non appena quell'idiota si rende conto di non potermi più controllare come gli pare, sfodera i suoi assi nella manica. Carino» commentai.

«Noi siamo i tuoi genitori e siamo preoccupati per te.»

Questo era troppo. Mi misi nuovamente in piedi e spinsi indietro la sedia, chinandomi sul tavolo per poter accostare il mio viso al suo e trafiggerla con lo sguardo. «Voi siete tutt'altro che genitori! Hai capito? Non sto qui a ricordarti come ti sei comportata con me, né a descriverti l'atteggiamento di Alan. Tanto sai già tutto. Voi due siete dei mostri e dovete lasciarmi in pace.» Mi ritrassi da lei e mi raddrizzai, poi indicai la porta d'ingresso. «E adesso vattene. Devo tornare al lavoro e sono tornata qui inutilmente. E non farti mai più vedere da queste parti.»

Cecily mi fissò a bocca aperta. «Non credevo tu mi odiassi così tanto, pensavo avessi capito le mie ragioni.»

«Non ti odio, semplicemente mi infastidisci come... una mosca» ammisi, per poi accostarmi alla soglia e spalancare la porta. «Prego, accomodati. Ti saluto. E buona vita anche a te.»

Lei si alzò lentamente e solo in quel momento notai un particolare agghiacciante, che mi fece raggelare sul posto. Notò che il mio sguardo aveva colto il particolare, così annuì.

«Sì, volevo venire qui anche per dirti che avrai una sorellina» ammise con fierezza.

«Tu... aspetti un figlio a... alla tua età?» balbettai, senza riuscire a capacitarmi di aver appena appreso una simile notizia.

«Ho quarantasette anni, Leah, non sono una vecchia decrepita» disse.

«Vattene. Non mi interessa» conclusi, rendendomi conto che non mi importava più niente di lei e di ciò che stava capitando nella sua vita.

Mentre la guardavo arrancare giù per le scale, mi scoprii dispiaciuta per la povera creatura innocente che cresceva nel suo grembo. Se avesse riservato alla sua nuova figlia lo stesso trattamento che avevo ricevuto io, sarebbe stata dura per lei sopravvivere.

Sperai almeno che avesse un carattere forte e che riuscisse a superare il trauma di avere una madre degenere come Cecily Vickers.

Avvertii la presenza di qualcuno alle mie spalle e solo allora mi resi conto che stavo piangendo.

Shelley mi afferrò saldamente per le braccia e mi attirò a sé, cullandomi tra le sue braccia. «Su, tranquilla. Andrà tutto bene, andrà tutto bene» prese a sussurrare.

«Voglio solo essere lasciata in pace» ammisi tra i singhiozzi, aggrappandomi alla mia amica.

«Mi sa che ora tua madre l'ha capito, visto come l'hai cacciata di qui» tentò di rassicurarmi Shelley.

«Lo spero. Ne ho abbastanza di lei e di quel fallito di suo marito. Non ho mai avuto dei veri genitori, non vedo perché dovrei cominciare a desiderarli ora.» Sospirai e lasciai andare la mia amica. «Potrei volerlo, se potessi scegliere qualcun altro che mi faccia da padre o da madre» aggiunsi.

«Ma non si può, purtroppo. Mi dispiace» replicò lei, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Grazie, Shy. Mi lavo la faccia e torno al lavoro. Ormai ho una nuova vita, non lascerò che questa gente me la rovini. Loro l'hanno già fatto abbastanza, ma ora basta» affermai, per poi avviarmi con fare risoluto verso il bagno.

Dopo essermi sciacquata il viso, seppi con certezza che ero riuscita a dare un calcio al passato e a relegarlo in un angolino.

Volevo accogliere il presente e il futuro, senza più preoccuparmi di fare ciò che gli altri si aspettavano da me.

Sarei stata sempre e solo me stessa e non avrei più permesso a delle stupide nubi travestite da genitori falliti di oscurare il mio orizzonte.

Sapevo di potercela fare, avevo accanto molte persone che mi amavano e che amavo, su cui sapevo di poter contare in ogni singolo istante.

Presa da un improvviso istinto, afferrai il cellulare e registrai una nota vocale da inviare a Shavo.


Shavarsh, volevo solo dirti che ti amo tantissimo. E non mi sento stupida a dirlo. Ti amo. E mi manchi.


Poi, dopo aver salutato Shelley con un abbraccio, mi precipitai giù dalle scale, tornando ad abbracciare la mia nuova vita.




Carissimi lettori, queste note saranno molto brevi ^^

Sono qui giusto per lasciarvi il link per ascoltare la canzone che Leah ha impostato come sveglia, almeno capirete il trauma che questa ragazza vive ogni mattina al suo risveglio XD

Ecco a voi Bring It dei Soulfly:

https://www.youtube.com/watch?v=6MTQKEP706g

Allora? Che ve ne pare dei “genitori” di Leah? Attendo i vostri commenti, curiosa come sempre di capire il vostro parere :)

Alla prossima e grazie ancora a tutti coloro che seguono, leggono e recensiscono questa long ♥

  
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