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Autore: Piperilla    14/06/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Quel martedì di inizio maggio, Vera mise via le proprie cose e lasciò l'ufficio del professor Maesani, più nervosa del solito: la sua irrequietezza era tale che persino chi abitualmente si fermava a scambiare due parole con lei, quel giorno preferì girare al largo. In ascensore, la ragazza prese il cellulare: c'erano un paio di messaggi di sua madre e una buona decina di Giulia, ma niente da parte di Vittorio. Vera si morse l'interno della guancia; la sera precedente gli aveva scritto per chiedergli se si sarebbero potuti vedere all'ora di pranzo, ma il carabiniere non si era degnato di risponderle, e le doppie spunte blu di WhatsApp accanto a quel particolare messaggio sembravano irriderla ogni volta che le guardava.
   Quando la venticinquenne uscì dalla facoltà di Economia, tirò un gran sospiro di sollievo: Vittorio era lì, appena fuori dalla porta, con la schiena appoggiata al muro e le braccia incrociate sul petto.
   «Potevi dirmi che saresti venuto» bofonchiò Vera con una punta di rimprovero nella voce.
   «Non ero certo di farcela: ho parecchio da fare, in questi giorni» rispose freddamente lui.
   Vera lo osservò in silenzio. Non era abituata a un Vittorio tanto distaccato: di solito quell'uomo passava da un'emozione all'altra come una girandola investita dal vento, e anche quando era calmo sembrava sempre vibrare di energia repressa, tanto non riuscire mai a stare del tutto fermo. In quel momento, invece, era perfettamente immobile: persino il suo sguardo era fisso, e tranne che per quando aveva aperto bocca per risponderle, pochi istanti prima, non aveva ancora mosso un muscolo.
   «Allora, che ti serve?» le chiese Vittorio con voce inespressiva. «Non ho molto tempo».
   L'ex ginnasta si riscosse dalle proprie riflessioni. L'atteggiamento del carabiniere non l'aiutava, ma in fondo era lei a essere nel torto; un po' se lo meritava, rifletté la donna.
   «Riguardo l'altro giorno...» esordì; tentò un'occhiata a Vittorio, ma il suo volto era ancora impassibile. «Non dovevo tirarti addosso la borsa, né urlarti contro».
   Il carabiniere non si mosse.
   «Be', è un passo avanti» commentò gelido. «Speravo dicessi che ti dispiace di averlo fatto, ma evidentemente è chiedere troppo».
   Vera gli scoccò uno sguardo incendiario. «Non vuoi proprio rendermelo facile, vero?»
   «Perché dovrei? Tu con me non l'hai mai fatto» replicò duro Vittorio.
   «Va bene: mi dispiace di averti tirato addosso la borsa e di averti urlato contro» sciorinò lei.
   L'uomo si staccò dal muro con un colpo di reni.
   «Non ho bisogno di scuse insincere: se avessi saputo che mi avevi cercato per questo, non sarei venuto» dichiarò, facendo per andarsene.
   La ragazza sbuffò e alzò le braccia al cielo.
   «Non sono brava in queste cose» ammise. «Cioè, con la mia famiglia e i miei migliori amici sì, ma tu certe volte mi fai impazzire di rabbia e allora mi passa la voglia di scusarmi... però so di aver esagerato, lì all'appartamento» precisò.
   Vittorio si fermò e si girò a guardarla, le sopracciglia inarcate in un'espressione a metà tra l'incredulità e il sarcasmo. «Sono le scuse più anomale che abbia mai sentito, ma apprezzo lo sforzo».
   «Be', è un passo avanti» gli fece il verso la donna, ironica. «Anche se speravo dicessi che le accetti».
   Lui si mise le mani in tasca e contemplò quelle parole per qualche istante.
   «Non ti sei impegnata abbastanza» decretò infine.
   A quell'uscita del carabiniere, Vera farfugliò indignata.
   «Tu... tu... sei incontentabile, ecco!» sbottò. Vittorio si mise a ridere e lei gli scoccò un cipiglio talmente irato da distorcerle completamente i lineamenti del volto. «Non so neanche perché perdo tempo con te» sibilò. Si avviò verso la scalinata ma Vittorio, senza smettere di sghignazzare, l'afferrò per un braccio.
   «Perché in fondo sei pazza di me» disse ilare il carabiniere.
   La donna si divincolò dalla sua presa con un gesto brusco. «Ti piacerebbe!»
   Vittorio provò a smettere di ridere. Ci provò davvero, ma Vera furibonda era uno spettacolo che lo divertiva da morire, e in realtà aveva già iniziato a perdonarla quando lei gli aveva chiesto di raggiungerla fuori dalla facoltà, quindi si sentiva di buonumore al punto da trovare tutto molto spassoso.
   «Metti via gli artigli, dai» riuscì a sbuffare l'uomo tra una risata e l'altra. «Non c'è bisogno di arrabbiarsi così».
   «Non ce n'è bisogno?» gli fece eco Vera. «Provaci tu, ad avere a che fare con te, e poi ne riparliamo!»
   Il carabiniere le rivolse uno sguardo provocatorio. «Ho già a che fare con te: non è abbastanza?». Vera ringhiò qualcosa di incomprensibile; lui sorrise di nuovo e le picchiettò la punta dell'indice in mezzo alla fronte. «Avanti, smettila... o devo chiamare l'accalappiacani? Perché inizi a somigliare a un levriero rabbioso».
   Di nuovo senza parole, Vera boccheggiò. «Io... perché un levriero?» riuscì a chiedere. Un istante più tardi, provò il desiderio di prendersi a schiaffi: ma che razza di domanda era?
   Vittorio le rivolse un sorriso sghembo.
   «Davvero non vedi la somiglianza?» le chiese. «Snello, elegante, pelo lungo e setoso...» spiegò, sventolandole davanti agli occhi una ciocca dei suoi stessi capelli. «Non era così difficile».
   Lei gli scoccò uno sguardo tagliente; poi le sue spalle si afflosciarono.
   «Molto spiritoso» grugnì.
   «Lo so: ho un senso dell'umorismo davvero impagabile» replicò l'uomo.
   Vera si grattò la fronte. «Scusa se ho dato di matto un'altra volta» mormorò. «In questi giorni sono un po' nervosa, ma stavolta tu non c'entri».
   Vittorio scrollò le spalle con aria noncurante. «Tranquilla: ormai sono abituato ai tuoi malumori improvvisi». Diede uno sguardo all'orologio. «Mi piacerebbe restare ancora un po', ma devo proprio andare».
   Vera si strinse nelle spalle. «Sì, l'avevi detto. Sei di turno?»
   «Attacco alle quattro, ma non è per questo». Vittorio si mise di nuovo le mani in tasca. «Ho preso l'appartamento: devo solo firmare le ultime carte, e voglio andarci subito».
   «L'appartamento? Intendi quello in cui abbiamo litigato?» indagò l'ex ginnasta.
   «Proprio quello» confermò Vittorio.
   Vera inarcò le sopracciglia. «E perché l'hai scelto? Per i lieti ricordi?» chiese, ironica.
   «Certo che sì» rispose lui, sullo stesso tono. «A questo proposito... ho una proposta da farti» aggiunse, con uno sguardo calcolatore alla ragazza.
   «Oh Dio, devo aver paura, vero?» gnaulò lei.
   «Dipende. Quanto ti spaventa un viaggio all'Ikea?» disse il carabiniere. Vera lo scrutò guardinga e l'uomo sospirò. «La casa è ammobiliata ma mi mancano un sacco di cose, tipo lenzuola e asciugamani, e non ho voglia di andare a comprare tutto da solo... ma se coinvolgessi mia madre, un'uscita di un'ora o due diventerebbe tre sopralluoghi all'appartamento e quattro giorni in giro per negozi».
   «E in tutto questo, io c'entro perché...» insisté Vera, ancora sospettosa.
   «Perché tu non renderesti tutto così complicato». Vittorio le lanciò un'occhiata scaltra e si preparò a giocare il jolly. «Se mi accompagni, ti perdono per quello che mi hai detto l'altro giorno».
   La ragazza alzò gli occhi al cielo. «Immagino che avresti potuto chiedermi di peggio» commentò. «Adesso vattene all'agenzia immobiliare, altrimenti non farai in tempo a fare tutto prima di andare al lavoro. E chiamami stasera, così troviamo un giorno in cui siamo liberi tutti e due per andare a comprare quello che ti serve».
   Vittorio annuì. «Ci puoi contare».
   I due scesero insieme la scalinata, e una volta sul marciapiede si salutarono con un sorriso.

******

Un paio di giorni dopo quella chiacchierata fuori dalla facoltà di Economia, Vera tornò per la prima volta all'ap­partamento in cui aveva litigato con Vittorio.
   «Però» disse soltanto quando varcò la porta d'ingresso: la sala era invasa da una serie di scatoloni accatastati negli angoli.
   «Questo è niente» replicò Vittorio; entrò a sua volta e chiuse la porta. «Ho detto a Emanuela di inscatolare tutte le cose che ho lasciato a Milano e di mandarmele giù con un furgone: me le portano sabato».
   «Ti servirà un bel po' di aiuto, per mettere tutto a posto» considerò la donna.
   «Ti stai offrendo volontaria?» chiese il carabiniere.
   Vera scrollò le spalle. «Se vuoi».
   «Se voglio?» le fece eco Vittorio. «Ti sembro così scemo da rifiutare un paio di mani in più? Fossi matto! Anzi, per me possiamo cominciare anche subito!»
   «Un po' scemo lo sei, in effetti» rispose l'ex ginnasta: tentò senza successo di restare seria. «Forse per oggi conviene di più fare una lista delle cose che ti servono e andare all'Ikea, così magari puoi venire a stare qui già da sabato e mettere a posto la tua roba un po' alla volta».
   Vittorio valutò la sua proposta per un minuto buono.
   «Okay, mi sa che la tua idea ha senso» ammise a malincuore.
   «Mi raccomando, Valenti, meno entusiasmo nel dirlo» commentò Vera in tono acido.
   Il carabiniere la ignorò; i due iniziarono a segnare le cose di cui Vittorio aveva bisogno per andare a stare nell'appartamento, concentrandosi su una stanza alla volta, e fu solo un'ora e parecchie discussioni più tardi che salirono nell'automobile dell'uomo.
   C'era un centro Ikea a una decina di minuti da lì; un altro lato positivo dell'aver scelto proprio quell'appartamento, agli occhi di Vittorio, ma Vera riuscì a rendere turbolento anche quel breve viaggio.
   Erano per strada da meno di cinque minuti e, nonostante il traffico quasi inesistente lungo le vie scelte dal carabiniere, Vera aveva già dato segnali di nervosismo; ma quando attraversarono il ponte sopra la A24 e arrivarono nella parte più popolata di Via di Tor Cervara, l'ex ginnasta sembrò perdere il lume della ragione, e bastò un nonnulla per portarla all'esplosione.
   «Bravo, eh! Complimenti vivissimi!» strillò Vera, sporgendosi fino alla vita fuori dal finestrino per sbraitare contro un automobilista che era uscito a tutta velocità da un cancello, giusto di fronte a loro, senza controllare che il passaggio fosse libero. Agitò il braccio con fare isterico. «'Ndo' cazzo pensi che stamo, a Monza? Stronzo! Vorrei proprio sape' chi t'ha dato 'a patente! Ma tu guarda 'sto...»
   Vittorio l'afferrò per la maglietta e con uno strattone la riportò all'interno dell'abitacolo, interrompendo così la sua tirata, poi accostò davanti al primo passo carrabile disponibile.
   «Oh, ma si può sapere che hai?» sbottò Vittorio all'indirizzo della ragazza. Vera, ancora fumante di rabbia, fece per scendere dall'auto, ma l'uomo la trattenne per un braccio. «Non ci pensare neanche» l'ammonì cupo. «Ultimamente scatti per qualsiasi cosa, e se devo fare a pugni con qualche automobilista perché tu non riesci a darti una calmata, allora voglio almeno saperne il motivo!»
   Constatata l'impossibilità di liberarsi dalla stretta dell'uomo, Vera sbatté la schiena contro il sedile e si morse l'interno delle guance mentre i suoi occhi saettavano da un lato all'altro della strada; rimase in silenzio così a lungo che Vittorio si convinse che non avrebbe più aperto bocca.
   «Mercoledì prossimo è il compleanno della mia figlioccia» disse infine la ragazza.
   Vittorio tenne lo sguardo fisso sul suo volto: era chiaro Vera che non gli stava dicendo tutto.
   «E...?» la incalzò.
   Vera prese un respiro profondo. «E l'anniversario dell'incidente» aggiunse in tono piatto.
   Il carabiniere trattenne bruscamente il fiato. Luciano gli aveva detto che l'incidente in cui Vera e Noemi erano rimaste coinvolte era avvenuto il maggio precedente, ma non aveva mai saputo la data precisa; adesso però ne era al corrente, e si rese conto che mancava meno di una settimana a quel giorno. Nessuna sorpresa che la ragazza fosse di umore così instabile: con l'avvicinarsi di quella ricorrenza, il ricordo di quanto era successo doveva essere più vivido e soffocante che mai.
   Vittorio lasciò la presa sul suo braccio.
   «Cambio di programma» annunciò, immettendo di nuovo l'auto sulla carreggiata. «Dove ti piacerebbe andare?»
   L'ex ginnasta lo fissò, perplessa. «Non dovevamo andare a comprare...»
   «Quello può aspettare» tagliò corto Vittorio. «Dove vuoi andare?» ripeté.
   Vera lasciò vagare lo sguardo oltre il finestrino. «A Ponte Milvio».
   L'uomo le rivolse un cenno d'assenso e si concentrò sulla strada. I due non scambiarono una parola per tutto il tragitto; Vittorio la guardava in tralice ogni volta che qualche automobilista vicino a loro compiva manovre al limite, ma Vera non sembrava più prestare attenzione al traffico.
   Ci volle un po', ma alla fine giunsero a destinazione. Parcheggiarono e si avviarono lungo il ponte uno accanto all'altra, ancora in silenzio, fino a un punto meno affollato; lì si appoggiarono al parapetto e guardarono il fiume scorrere.
   Fu solo allora che Vittorio si decise a spezzare il silenzio.
   «Mi piace questo posto» disse senza alcun preavviso.
   Vera gli lanciò un'occhiata. «Ci venivi spesso, prima di trasferirti a Milano?»
   L'uomo annuì e indicò la torretta con l'ingresso ad arco all'estremità nord del ponte. «Lì ho dato il mio primo bacio» disse nostalgico.
   «Come? Vorresti dirmi che all'epoca il ponte già esisteva?» lo prese in giro la ragazza.
   «Quanto sei divertente» replicò Vittorio, ma sorrideva.
   «Quanti anni avevi?» gli chiese Vera, curiosa.
   «Sedici». Vittorio guardò in lontananza, verso Ponte Flaminio. «Annalisa – si chiamava così, la mia prima ragazza – aveva la mia stessa età: ci ho messo sei mesi a convincerla a uscire con me e altri due per riuscire a baciarla...». Rise. «Una fatica che non ti dico».
   «Posso immaginarlo» commentò maliziosa Vera.
   Il carabiniere le scoccò uno sguardo penetrante. «Anche tu sembri fissata con questo ponte» buttò lì un momento più tardi.
   La ragazza voltò le spalle al Tevere, imitata da Vittorio; entrambi si appoggiarono al muretto e guardarono l'andirivieni di persone di fronte a loro.
   «Qui è dove siamo venute io, Giulia e Noemi la prima volta che abbiamo saltato la scuola» rivelò. «Eravamo al primo anno delle superiori... sai, no, quando a casa iniziano a darti un po' di libertà e ti sbrighi ad approfittartene?». Vittorio fece cenno di sì con la testa. «Ecco. Era scoppiata da poco la moda di venire qui e attaccare i lucchetti ai lampioni per poi gettarne le chiavi nel fiume, e ci siamo dette: se possono farlo le coppiette di innamorati che magari dopo un mese si lasciano, perché non possiamo farlo noi, che siamo come sorelle e non ci separeremo mai? Così abbiamo comprato un lucchetto – uno bello grosso – ci abbiamo scritto sopra le nostre iniziali e una mattina, invece di entrare a scuola, siamo venute qui e lo abbiamo attaccato a quel lampione laggiù» proseguì, indicando con sicurezza un lampione in particolare. «Subito dopo abbiamo buttato le chiavi nel Tevere, ed è stato... solenne. Quel giorno è come se ci fossimo promesse di nuovo di stare sempre insieme». Si asciugò una lacrima solitaria dal volto con un gesto brusco. «Se quel giorno qualcuno mi avesse detto che neanche dieci anni dopo saremmo già state divise, non ci avrei mai creduto» mormorò amara.
   Vittorio le passò un braccio intorno alle spalle e posò il mento sopra la testa di lei. Non disse nulla: si limitò a tenerla stretta in quel modo per un tempo lunghissimo, fino a quando non la sentì rilassarsi. Quando la lasciò, Vera alzò la testa e lo guardò negli occhi.
   «Mi dispiace di averti incasinato la giornata» mormorò.
   «Sciocchezze» la liquidò lui. «All'Ikea posso andarci quando voglio, tanto è sempre aperto, e stare qualche giorno in più in caserma non mi ucciderà». Le strofinò una mano in mezzo alla schiena. «Cosa ti va di fare, adesso?»
   Vera chiuse gli occhi. «Voglio andare a casa».
   Il carabiniere la prese per mano. «Allora andremo a casa».

******

Quel sabato, Vera arrivò a casa di Vittorio appena cinque minuti dopo il camion dei traslochi.
   «Valenti» salutò mentre raggiungeva la parte posteriore del furgone.
   Vittorio, che stava per scaricare uno scatolone, si raddrizzò e le diede una pacca sulla spalla. «Ciao, Gamba Bionica».
   Un inizio di risata subito soffocato da un colpo di tosse fece voltare entrambi.
   «Lui è Claudio, un mio collega» aggiunse sbrigativo Vittorio, agitando una mano in direzione dell'altro uomo.
   «Sì, me lo ricordo: era con te quando mi hai fermata, a febbraio» replicò Vera. Tese la mano a Claudio. «Piacere di conoscerti».
   Lui prese la mano che gli veniva offerta. «Piacere mio». Studiò Vera per qualche istante con curiosità, poi accennò a Vittorio con la testa. «Hai più provato a morderlo?»
   La ragazza aggrottò le sopracciglia. «No». Un istante più tardi parve rendersi conto della reale portata della propria risposta, e sul suo volto si dipinse un'espressione sbigottita. «No!» ripeté. All'improvviso, parve disperata. «Perché non ci ho più provato?»
   Claudio le batté una mano sulla spalla. «Forse ti sei resa conto che Vittorio è un caso perso» disse, incoraggiante.
   L'espressione di Vera si rischiarò. «Hai ragione!»
   L'interessato sbuffò. «Avete finito?». Gli altri due si strinsero nelle spalle e lui alzò gli occhi al cielo prima di concentrarsi di nuovo su Vera e indicare la busta che la ragazza aveva in mano. «Che hai, lì dentro?»
   «Tramezzini» rispose Vera. «A un certo punto dovremo pur mangiare, no? Specialmente voi due, che iniziate il turno alle quattro. Anzi, penso che inizierò a salire: tanto casa tua è aperta no, Valenti?»
   Vittorio mugugnò un'affermazione mentre controllava il contenuto di uno scatolone. «L'ascensore è ancora rotto» annunciò.
   «Me ne farò una ragione» ribatté Vera. Quando sparì nel portone del palazzo, Claudio affiancò l'amico.
   «Comincio a capire perché quella ragazza ti piace tanto» commentò il trentaquattrenne.
   «Non mi piace: né tanto, né poco» replicò l'altro.
   «Se è quello che ti ripeti per dormire la notte...» sogghignò Claudio; afferrò un pacco e si incamminò a sua volta verso il portone. Vittorio lo imitò; i due uomini varcarono la soglia e scorsero subito Vera, che si trovava ancora a metà della prima rampa di scale. Scrollando le spalle, Vittorio posò lo scatolone a terra e la raggiunse con quattro passi; dopodiché l'afferrò per i fianchi e se la gettò in spalla, premendole un avambraccio dietro le cosce per tenerla ferma. Ignorando l'urlo spaventato della ragazza, il carabiniere prese a salire le scale.
   «Valenti? VALENTI!» strillò Vera, mentre il battito impazzito del proprio cuore le rimbombava nelle orecchie. «Sei ammattito? Mettimi giù!»
   «Dopo» rispose placido lui. Incredula e contrariata dall'evolversi della situazione, Vera decise di manifestare il proprio disappunto: un istante più tardi, una pioggia di pugni tempestò la schiena di Vittorio.
   «Sei un prevaricatore!» gridò la donna, colpendolo ancora più forte. «Prepotente e incurante del volere altrui! Cavernicolo! Mettimi giù!»
   «Basta con i complimenti, Gamba Bionica, o mi farai arrossire» ribatté Vittorio senza fare una piega. Raggiunse la porta del proprio appartamento e la varcò; una volta all'interno, rimise Vera coi piedi per terra e si sistemò la maglietta come se nulla fosse.
   «Non ho bisogno che cammini per me!» urlò Vera, fumante di rabbia.
   «Non l'ho fatto per te: io e Claudio dobbiamo portare su gli scatoloni, e se tu sei per le scale, non ci passiamo» replicò cristallino il padrone di casa. «Ho solo velocizzato il tutto».
   «Dio se ti odio, Valenti!» tuonò Vera.
   Lui agitò una mano con fare noncurante e si voltò verso la porta. «Se vuoi iniziare a mettere a posto qualcosa, fa' pure».
   La donna ruggì, furiosa ed esasperata, mentre Vittorio spariva giù per le scale. Ormai sola, posò la busta sul tavolo e mosse qualche passo avanti e indietro, nel tentativo di dominare l'irritazione: non riusciva a credere alla semplicità con cui Vittorio riusciva a farle saltare i nervi.
   Non si era ancora calmata del tutto quando i due uomini tornarono nell'appartamento, ognuno col proprio carico. Subito puntò il dito contro Vittorio.
   «Hai intenzione di portarmi su e giù in quel modo finché non avranno riparato l'ascensore?» chiese a bruciapelo.
   Lui posò la scatola che aveva tra le braccia e la guardò con le sopracciglia inarcate.
   «Certo che no».
   La donna arricciò il naso per un istante. «Allora resto».
   Detto questo, Vera si chinò a prendere uno scatolone su cui spiccava in grosse lettere nere la scritta “libri” per posarlo sul tavolo, ma fece appena in tempo ad afferrarlo che le mani di Vittorio tentarono di sfilarlo alla sua presa.
   Vera lanciò a Vittorio uno sguardo tagliente, a cui lui rispose con uno esasperato.
   «Dobbiamo veramente litigare sempre per lo stesso motivo?» sbottò il carabiniere.
   La venticinquenne ci rimuginò su.
   «No» concesse infine con un sospiro, lasciando la scatola.
   Soddisfatto, Vittorio sollevò il pacco e lo appoggiò sul tavolo. «Io e Claudio andiamo a prendere altri scatoloni» annunciò, già diretto alla porta. «Divertiti!»
   Vera brontolò tra sé e aprì la scatola. Era piena fino all'orlo; la ragazza iniziò a tirare fuori un volume dopo l'altro, accarezzando ogni copertina prima di passare al successivo. Ben presto la scatola fu vuota; Vera la mise sotto il tavolo, prese una bracciata di libri e andò agli scaffali vuoti che occupavano una parete, sorridendo tra sé ogni volta che i suoi occhi trovavano un titolo presente anche nella propria collezione.

******

Nei giorni seguenti, Vera trascorse ogni momento libero a casa di Vittorio: quel martedì sera rientrò a casa poco prima di mezzanotte, e solo perché il carabiniere l'aveva buttata fuori dal proprio appartamento intimandole di tornare a casa e filare a dormire. L'ex ginnasta era sicura che i suoi genitori fossero già a letto, dunque si stupì di trovare le luci in cucina accese e sua madre seduta al tavolo, intenta a fissare con sguardo vacuo lo schermo del televisore mentre sorseggiava lentamente un bicchiere di tè freddo.
   «Mamma?» chiamò cauta.
   Fabiola scosse appena la testa e mise a fuoco Vera, accorgendosi solo in quel momento che sua figlia era finalmente rientrata a casa.
   «Vera, tesoro» rispose Fabiola con un sorriso stentato. «Vieni a sederti».
   La venticinquenne avanzò guardinga: da quando aveva avuto l'incidente non era insolito che sua madre l'aspettasse alzata in quelle sere che passava fuori casa, ma l'espressione con cui l'aveva appena accolta l'aveva messa a disagio.
   Non appena Vera fu seduta accanto a lei, Fabiola si sforzò di sorriderle con maggiore naturalezza.
   «Non fare quella faccia, Vè: non ti ho aspettata per rimproverarti» disse Fabiola con un pizzico d'ironia.
   «E allora perché?» chiese piano la più giovane.
   Sua madre si strinse nelle spalle. «In questi ultimi giorni non sei praticamente mai stata a casa» commentò. «Volevo solo sapere dove ti eri nascosta e se stai bene».
   Vera abbassò lo sguardo per un momento. «Sono stata a casa di Valenti... il carabiniere. Te lo ricordi, immagino».
   Gli occhi di Fabiola si spalancarono e la sua schiena si irrigidì.
   «Sei stata a casa sua... da sola?» chiese, incredula.
   Sua figlia sbuffò. «A volte c'era anche un suo collega» replicò. «Valenti ha appena affittato un appartamento e gli abbiamo dato una mano con il trasloco: da solo non avrebbe mai finito di mettere tutto a posto».
   Le spalle dell'altra donna si rilassarono e lei lasciò andare un silenzioso sospiro di sollievo prima di parlare.
   «Mi sembrava che quel Valenti non ti fosse poi tanto simpatico» disse Fabiola dopo qualche momento di riflessione. Rivolse a Vera uno sguardo penetrante. «Come sei finita ad aiutarlo praticamente in ogni momento libero?»
   Vera esitò. «Io... non c'è un motivo particolare» rispose, sfuggendo lo sguardo di sua madre.
   «Vera» la incalzò Fabiola.
   La ragazza incassò la testa tra le spalle.
   «È che quando sono con lui, non c'è niente che mi ricordi Noemi». Vera tacque per un momento. «Non sto cercando di dimenticarla, non potrei riuscirci neanche se lo volessi, ma è solo che... è solo...». S'interruppe e deglutì, gli occhi umidi. «Ma è solo che, certi giorni, pensare a lei fa troppo male».
   Fabiola la prese tra le braccia, le mise una mano sulla nuca e le spinse la testa nell'incavo del proprio collo, cullandola, mentre si sforzava di respirare normalmente perché Vera non si rendesse conto di quanto anche lei fosse turbata. Cosa poteva dire – cosa poteva fare – per aiutare Vera a superare quel trauma? Sua figlia, la sua unica figlia, era spezzata: per la gamba era bastata una protesi, ma la sua anima? Come guarirla? Per un momento desiderò di tornare a vent'anni prima, quando poteva cancellare un dolore o una delusione di sua figlia con qualche dolce o un giocattolo, ma non era possibile. Peggio ancora, sapeva che in quella circostanza non era in suo potere guarire nulla di Vera: non aveva potuto sanarne il corpo, e ancor meno poteva fare con la mente e l'anima.
   «Andrà meglio» mormorò Fabiola, ma quelle parole suonarono vuote e inadeguate alle sue stesse orecchie. «Andrà meglio, amore mio, ti prometto che andrà meglio... e tu non sei sola: noi siamo qui con te, per te, hai capito? Non lo dimenticare, non dimenticare che non devi affrontare tutto da sola, ci siamo noi ad aiutarti... andrà meglio, andrà meglio... te lo prometto, andrà meglio» disse con voce spezzata.
   «Ti credo» sussurrò Vera; la sua, di voce, era soffocata dalle lacrime. «Ti credo, mamma».
   Fabiola si staccò da lei e la guardò negli occhi.
   «È meglio che tu vada a dormire» disse decisa. Le accarezzò il volto con mani tremanti. «Domani sarà una giornata... d-difficile» aggiunse, incespicando sull'ultima parola.
   Vera annuì; premette una guancia sulle dita di Fabiola, quasi lasciando che la mano di sua madre sostenesse per intero il peso della sua testa – che in quel momento le sembrava pesare cento volte più del normale, piena com'era di tanti pensieri e sentimenti differenti – prima di sporgersi e deporre un bacio sulla gota dell'altra donna.
   «Buonanotte, mamma» le augurò piano; si alzò e andò lentamente verso le scale, e il suono discordante dei suoi passi sembrò risuonare per tutta la casa.
   Fabiola si accasciò contro lo schienale della sedia, priva anche solo dell'energia necessaria a raggiungere il letto, e guardò il mondo circostante senza vederlo per molto tempo ancora.
   
 
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