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Autore: DeatEaten    14/06/2018    1 recensioni
Aveva scelto di essere debole. Aveva scelto di non usare mai più la magia, di diventare meno che una miserabile Babbana, la feccia che lui e Lucius, e Avery e Mulciber e tutti gli altri si erano ripromessi di eliminare dalla faccia della terra.
Era l'incarnazione di tutto quello che gli faceva più schifo al mondo.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eileen Prince, Severus Piton, Tobias Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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   De Contemptione in Familia
 
     Era successo di nuovo, come ogni singolo giorno da quando era tornato a Cokeworth.
     Era in camera sua a scrivere una lettera importante per Mulciber, il suo baule di Hogwarts ancora pieno e appoggiato ai piedi del letto, quando aveva sentito dei rumori provenire dal piano di sotto: prima gli urli di suo padre, poi quelli di sua madre, poi un mobile che veniva rivoltato sul pavimento e un vaso che s'infrangeva chissà dove. C'era così abituato che cercò di non prestarci neanche particolare attenzione, e perciò continuò a scrivere...
     Finirà presto, pensò, intingendo la piuma nell'inchiostro, lui urlerà un po', le darà qualche schiaffo... lei lo supplicherà come sempre e poi smetteranno, e lui si addormenterà sul divano: è sempre così ubriaco quando torna a casa.
     Eppure, anche dopo quella che a lui parve un'infinità, gli urli e i singhiozzi non davano segno di voler cessare.
     Era così stanco...
     Sospirò con rabbia, alzandosi dalla sedia. Si mise a rileggere velocemente la pergamena che aveva appena finito di scrivere, la arrotolò e chiamò il suo gufo, che fino a quel momento aveva zampettato libero sul letto. Gli assicurò con poca delicatezza la lettera alla zampa, rischiando anche di fargli male, poi gli sussurrò il nome Mulciber e aprì la finestra. Il gufo schizzò fuori immediatamente, e lui rimase a guardarlo allontanarsi in volo dal davanzale, meditando cupamente su quanto gli sarebbe piaciuto essere al suo posto. Una volta che il volatile fu sparito dalla sua vista chiuse la finestra e, con passo incerto, si avvicinò alla porta di camera sua.
     L'avrà accusata delle solite cazzate. Di aver cucinato male, di non avergli lavato bene la camicia, di aver usato la magia...
     Era così stufo...

     Appoggiò l'orecchio sul legno consumato e le voci dei suoi genitori, fino a quel momento poco distinte, divennero ad un tratto comprensibili. Stavano parlando di lui.
     «... VUOL DIRE CHE LA SCUOLA È FINITA?»
     «TE L'HO GIÀ DETTO, TOBIAS... LASCIAMI! LASCIAMI!»
     «NON SE NE ANDRÀ PIÙ? RIMARRÀ QUI TUTTO L'ANNO, A PESARE SULLE MIE SPALLE? RISPONDI!»
     «NON LO SO, TOBIAS, NON LO SO! CHIEDI A LUI, NON... MI FAI M-MALE, TOBIAS!»
     «MEGLIO COSÌ, PUTTANA CHE NON SEI ALTRO!»
     Severus si allontanò di scatto dalla porta, indietreggiando: a giudicare dal rumore, suo padre stava salendo con passo pesante le scale che portavano al secondo piano, a prenderlo, e lui non voleva farsi trovare ad ascoltare la loro conversazione come un bambinetto.
     Afferrò la bacchetta sulla scrivania e se la nascose nella manica destra della camicia nell'esatto momento in cui Tobias spalancò la porta di camera sua, facendola sbattere contro al muro.
     «Che stai facendo così in agguato, tu?» gli chiese suo padre dopo avergli lanciato un'occhiataccia.
     Tobias troneggiava su di lui, la barba sfatta e i folti capelli neri in disordine, e in quel preciso istante un forte odore acre investì Severus: era un misto tra fumo di sigaretta, alcool e sudore.
     «Niente» mentì lui, guardandosi la punta delle scarpe e sentendo l'odio ribollirgli dentro.
     Tobias lo squadrò sospettoso per qualche istante, poi, senza preavviso, fece un passo in avanti. Severus balzò subito all'indietro, quasi si aspettasse un colpo, ma quando questo non arrivò si pentì immediatamente della sua reazione. Suo padre scoppiò a ridere.
     «Paura, eh?»
Poi lo afferrò per un braccio, strattonandolo, e lo trascinò fuori da camera sua e giù per le scale, dove rischiò almeno due volte di inciampare.
     «Lasciami!» gridò più volte cercando di liberarsi, ma suo padre lo ignorò e, anzi, strinse la presa facendogli anche più male. Quando furono sull'ultimo gradino, Tobias gli diede uno spintone così forte che gli ci volle tutto il suo equilibrio per non finire sul pavimento. Si allontanò velocemente da lui, la bacchetta ancora nascosta nella manica e ogni fibra del suo essere che gli gridava di tirarla fuori e di usarla una volta per tutte sul padre. Ma invece rimase fermo, immobile come un bravo ragazzo, ad aspettare di vedere cosa sarebbe successo.
     Lanciò un'occhiata sbieca al salotto. Sua madre era in piedi contro una parete e aveva il volto gonfio e rigato di lacrime. Non si degnò neanche di alzare lo sguardo su di lui, troppo impegnata, pensò lui con disprezzo, a compiangersi.
     «Tua madre mi ha appena detto» cominciò con voce bassa Tobias, «che con l'altro giorno quella tua scuola per mostri è finita, e che non ci tornerai più».
     «Si chiama Hogwarts. So che è un nome difficile per uno con la tua intelligenza, ma potresti almeno sforzarti».
     Stavolta il colpo arrivò sul serio, e fu così forte che la sua testa, per l’urto, fece quasi un giro completo. Si portò una mano al lato del volto per tastare il punto in cui Tobias l'aveva colpito, ma non si lasciò scappare alcun suono dalla bocca.
     Dio, era così stanco, e arrabbiato...
    «Ripetilo, se ne hai coraggio».
     Severus rimase in silenzio e abbassò lentamente il braccio.
     «Ecco, appunto. Lo sapevo. Fai tanto il gradasso quando si tratta di parlare, parlare...» mimò con la mano destra l'atto, «... ma una volta che si è passati ai fatti veri e propri...» scosse la testa, fissandolo negli occhi. Poi aggiunse: «Dev'essere una cosa di voi mostri, vero? Non avere neanche un briciolo di palle».
     «Rimangiatelo».
     «Che hai detto, sgorbio?»
     «Rimangiati ciò che hai appena detto» ripetè lui a denti stretti. Ancora non aveva alzato lo sguardo su Tobias.
     «Altrimenti?»
     Nella sua mente si formò un'immagine meravigliosa: una pozza di sangue, alcool e piscio, e suo padre che ci sguazzava dentro, esanime.
     «Ti uccido».
     Silenzio. Poi Tobias scoppiò di nuovo a ridere, mostrando i denti gialli rovinati da anni di vizi e incuria.
     «Ma sentilo! Sentilo, donna!» si voltò verso Eileen, che fino a quel momento non aveva osato guardarli ma era rimasta a fissare, tremando, il pavimento: sentendosi interpellata in questa maniera, alzò lo sguardo e lo fissò prima in quello di Tobias, poi in quello del figlio, che ricambiò. Si guardarono negli occhi per qualche istante; alla fine, però, Severus tornò a concentrarsi sulle sue scarpe, una strana espressione sul volto, come se avesse trovato qualcosa d’indecente sul viso di Eileen. Le labbra di questa sussultarono.
     «Senti come ha preso coraggio» continuò, ignaro di tutto questo, Tobias. «Oh, ma gli faccio vedere io, adesso, gli faccio proprio vedere io. Aspetta che vada a prendere la cintura e rimpiangerai il giorno in cui sei nato, razza di aborto. Altro che qualche schiaffo, no, sarai tu a pregarmi di ucciderti, quando avrò finito con te... Che cazzo credi di fare, ragazzino
     Eileen trasalì. In un attimo Severus aveva tirato fuori la bacchetta, puntandola contro il padre, che si era irrigidito tutto.
     Chi è che ha paura desso, papà?
     Fece qualche passo in avanti, fino a che non si trovò praticamente a qualche centimetro da lui.
     «Cosa credi di fare, eh?» ripetè di nuovo Tobias, studiando tutto il disprezzo sul volto del ragazzo. «Lo so che non puoi usarla, eh, lo so che non puoi fare magie fuori da quel letamaio che tu chiami scuola! Me lo ha detto lei!»
     «E ti ha detto anche come funziona la Traccia?»
     L'espressione di Tobias divenne tutto ad un tratto molto stupida: succedeva ogni volta che non riusciva a capire qualcosa; quasi per compensare questa mancanza, alzò di nuovo il braccio destro, pronto a colpire Severus sul volto per la seconda volta in pochi minuti, ma quando vide la bacchetta del figlio sprizzargli minacciose scintille rosse sulla camicia, decise di lasciar stare. Non gli era mai piaciuta, la magia.
     Severus premette così forte la punta della bacchetta nella carne al centro del suo petto che sicuramente avrebbe lasciato un segno.
     «Metti via quel legnetto» provò allora Tobias, senza indietreggiare, ma guardandolo fisso negli occhi. «Comportati da vero uomo. Pensi davvero che tu possa riuscire fare veramente paura a me? Credi che non conosca quelli della tua specie? Guarda tua madre!» e il suo sguardo si spostò ancora su Eileen, che ora aveva ripreso a singhiozzare contro al muro. «Guardala, la troia. Non ti fa schifo e basta? Non ti viene voglia di tirarle un pugno, ogni volta che vedi quella sua stupida faccia di merda? E tu pensi che io possa pisciarmi sotto se suo figlio minaccia di uccidermi? Siete uguali voi due, due codardi del cazzo che non hanno ancora imparato quale sia il loro posto nel mondo: sotto la suola delle mie scarpe» e rivoltò la testa all'indietro, compiaciuto per la sua stessa trovata, scoppiando per l'ennesima volta in una grassa e rauca risata.
     E Severus perse il controllo.
     «TU NON MI CONOSCI» urlò d'improvviso, il disprezzo sul suo volto aveva lasciato spazio a un'espressione di pura follia. Tobias spalancò gli occhi, tradendo il primo vero segno di disagio. «TU NON SAI NIENTE DI ME, NIENTE! PENSI DI ESSERE IL PRIMO, PAPÀ? PENSI DAVVERO DI ESSERE IL PRIMO BABBANO CHE UCCIDO? NON HAI MAI CAPITO NIENTE! IO NON SONO COME LEI» si girò, indicando sua madre con la punta della bacchetta, e questa si lasciò scappare un singhiozzo ancora più forte, mentre sussurrava tra le lacrime.
     «Severus... t-ti prego...»
     «IO NON SONO DEBOLE, IO NON HO PAURA, IO NON SONO UN CODARDO!»
     «Severus... no... Severus...»
     «SE SOLO FOSSI IN GRADO DI IMMAGINARE LE COSE CHE HO FATTO PER IL SIGNORE OSCURO...»
     «S-Severus!»
     «OH, SÌ! NON TE L'HO DETTO, MAMMA?»
     «Cosa... Io… P-Perché?»
     «E MI CHIEDI ANCHE IL PERCHÉ?»
     Seguì qualche attimo di silenzio. Poi scoppiò a ridere anche lui ma, a differenza di quella crudele e sentita di Tobias, la sua risata parve vuota e isterica.
     «Oramai è già da due anni, ma tu non te ne sei accorta, tu non ti accorgi mai di niente…» iniziò a strofinarsi il braccio sinistro, all’inizio inconsciamente, poi parve accorgersene. «Vuoi vedere, mamma?» chiese piano ad Eileen, con un tono di voce così inquietante che anche quel suo improvviso scoppio di ilarità parve essere nulla, in confronto. Questa rabbrividì, scosse la testa senza fiatare e si lasciò lentamente scivolare contro il muro, finendo rannicchiata sul pavimento. Seppellì il volto tra le mani e ricominciò a piangere più forte che mai. Severus si avvicinò e le si accovacciò di fianco, guardandola mentre cercava di allontanarsi da lui, spaventata neanche fosse suo padre. Poi cominciò ad arrotolarsi la manica della camicia sinistra. Eileen sbirciò tra le dita, e quando intuì le sue intenzioni cercò di spingerlo lontano, così lui dovette appoggiare la mano destra sul pavimento per non cadere. Ma era troppo tardi: il Marchio Nero era scoperto e perfettamente visibile, e per quanto Eileen si sforzasse di non guardare affatto, alla fine i suoi occhi si posarono sull'avambraccio scarno del figlio.
     Poteva aver vissuto come una Babbana per tutti quegli anni - da quando aveva sposato Tobias, in effetti - ma Eileen conosceva bene le ideologie e i metodi di certi maghi purosangue: lei stessa, come Prince, era stata educata secondo questi "nobili principi". Fino a quando, almeno, non aveva incontrato quel bel giovane di Cokeworth, e suo padre non aveva deciso di iniziare a far finta che fosse morta, tagliando tutti i ponti con lei e con la sua nuova, giovane, famiglia. Sapeva, perciò, di cosa questi maghi fossero capaci, e per questo motivo non fece nulla per mascherare l'orrore sul suo volto nello scoprire che suo figlio fosse diventato uno di loro.
     Lei, che aveva sempre pregato che non diventasse mai, mai come il padre...
     Proprio mentre apriva la bocca per parlare, un altro urlo riempì la stanza. Severus si voltò appena in tempo per vedere Tobias - di cui, incredibilmente, aveva quasi dimenticato la presenza - avvicinarsi pericolosamente a loro, una bottiglia vuota di birra stretta nella mano destra, pronta a colpirlo alle spalle.
     Fu più veloce. La mano che teneva la bacchetta guizzò in avanti. Urlò.
     «CRUCIO!»
     Tobias non ebbe neanche il tempo di stupirsi. La Maledizione lo colpì in pieno petto, e lui cadde come un sacco di patate sul pavimento, divincolandosi e urlando come mai aveva fatto, neanche quando era nel bel mezzo di una delle sue crisi di rabbia.
     E averlo finalmente ai suoi piedi era, pensò Severus, la sensazione più bella del mondo, che neanche la tortura di cento e mille Sanguemarcio o Babbani avrebbe potuto eguagliare. Si dimenticò totalmente di Eileen.
     Si rimise in piedi e fece qualche passo in direzione di Tobias, sovrastandolo dall'alto, in modo da potersi godere tutto di quel momento dolcissimo: la sua espressione tormentata, le sue urla... i suoi occhi che lo cercavano e lo pregavano di porre fine alla sofferenza, di farla finita una volta per tutte, di ucciderlo.
     «Uccidimi! Uccidimi! Uccidimi!»
     Ma non l'avrebbe fatto, non ancora almeno. Ci sarebbe stato tempo, per quello...
     Eileen si era alzata, trovando chissà dove la forza necessaria per rimettersi in piedi. Era barcollata verso di lui e l'aveva afferrato per un braccio scuotendolo debolmente, urlandogli di smetterla, di lasciare in pace Tobias e lei, di ricordarsi che, una volta in piedi di nuovo, suo padre si sarebbe arrabbiato molto...
     Fu di nuovo troppo. Diede uno scossone così forte al braccio che Eileen aveva afferrato, che questa quasi cadde per terra e fu costretta a mollare la presa.
     Era così stanco, Dio se era stanco...
     «IO NON TI CAPISCO» tornò ad urlare, coprendo le grida disumane di Tobias con le sue, «NON RIESCO A CAPIRE COME FUNZIONI IL TUO CERVELLO».
     «T-ti prego, S-Severus... Se fossi veramente in te non l'avresti m-mai fatto!»
     «DICIOTTO ANNI. DICIOTTO ANNI» si passò una mano fra i capelli, ignorando i suoi patetici tentativi di calmarlo.
     Non trovava nemmeno lui le parole adatte. Diciotto anni. Da diciotto anni non passava giorno senza che quell'animale non la insultasse e la picchiasse, tornato a casa ubriaco dal pub infondo alla strada. E lei, nonostante tutto questo, nonostante gli anni di sofferenza che aveva costretto anche lui, bambino, a sopportare - perché aveva scelto lei di rimanere in quella casa e di non tentare mai di scappare, troppo spaventata o cosa per farlo - ecco che non esitava un secondo, un secondo!, quando si trattava di difendere quel mostro, qualsiasi cosa accadesse. Non riusciva a capirla, era una cosa che andava oltre la sua concezione di masochismo.
     Forse, pensò dopo qualche attimo, aveva ragione Tobias: forse faceva schifo e basta, semplicemente. Aveva scelto di essere debole. Aveva scelto di non usare mai più la magia, di diventare meno che una miserabile Babbana, la feccia che lui e Lucius, e Avery e Mulciber e tutti gli altri si erano ripromessi di eliminare dalla faccia della terra.
     Era l'incarnazione di tutto quello che gli faceva più schifo al mondo.
     Abbassò la bacchetta: improvvisamente gli urli di Tobias cessarono e lui rimase incosciente sul pavimento. 
     «Me ne vado» disse mortalmente calmo, senza guardare né suo padre né sua madre, gli occhi fissi sulle scale che portavano al piano di sopra, alla sua angusta camera. «Non mi vedrete mai più, io non voglio vedervi mai più, sono fottutamente stanco» e dicendo questo agitò la bacchetta, e il suo vecchio baule di Hogwarts sfrecciò di sotto, posandosi accanto a lui. Lo afferrò, poi face per andare verso la porta. Non aveva idea di dove sarebbe andato, ma poco gli importava: quello che più gli premeva era uscire da quel posto e non tornare mai più.
     Appoggiò la mano sulla maniglia, ma rimase fermo sulla soglia. Non poteva andarsene così, prima doveva farle capire…
     «E se non l'ho ucciso, mamma» disse piano, parlando a pochi centimetri dalla porta, quasi si stesse rivolgendo ad essa invece che alla donna alle sue spalle, «sappi che non l'ho fatto per paura o per un qualche ripensamento. L'ho fatto perché ho appena deciso che tutte le botte te le meriti, mamma, e che se fosse per me, te ne darei anche il doppio. E sai una cosa? Spero proprio che un giorno ti faccia così nera da farti fuori» abbassò la maniglia e uscì, sbattendo la porta così forte che quasi coprì l'ennesimo, l'ultimo che avrebbe mai sentito, rantolo di sua madre.
   
 
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