Una
volta si diceva che i Koxol avessero un cuore enorme.
Una volta si
diceva che i Koxol avessero un animo forte e immenso.
In fondo,
come poteva essere altrimenti? Grande spirito e cuore per grandi
esseri. Esseri liberi e decisi, che un tempo si riunivano in un
unico, grande e fiammeggiante branco per le migrazioni annuali: e, di
isola in isola, di continente in continente, correndo gli
instancabili custodi dei vulcani coprivano distanze colossali,
attirando nella loro furia Pokémon della loro stessa indole.
Una
volta si diceva che i Koxol fossero i guardiani della Vita. Ma quel
tempo era ormai passato e non ne restavano solo che sogni e frammenti
di ricordi che ogni tanto riemergevano. Accadeva spesso soltanto nei
sonni inquieti dei più piccoli, che al levarsi del giorno già
avevano dimenticato le immagini della notte.
Ed era accaduto a
lui, anche dopo essersi lasciato alle spalle l'infanzia.
Il Koxol
levò il muso spettrale al cielo plumbeo per cercare di attirare
l'attenzione di qualcuno con urla e lamenti. Ma tutto ciò che uscì
dalla sua gola riarsa fu solo un umiliante gracidio.
Il Koxol posò
la testa ossea e le zampe anteriori sul parapetto della barchetta per
tirarsi un po' su e fissare con le orbite vuote l'acqua, che
rifletteva il grigiore metallico del cielo.
Nonostante non ci
fossero occhi visibili lui, come tutti della sua specie, riusciva a
vedere.
E ciò che l'acqua gli restituiva era il riflesso
di un essere grosso e nero, dal pelo lungo e folto, dalle zampe forti
dagli artigli lunghi e duri.
L'unica cosa che spiccava in
quell'ammasso di muscoli e pelliccia era solo la testa: un cranio
bianchiccio e affusolato, di forma caprina, con tanto di corna
bianche, curve e rivolte all'esterno, decorate da incisioni appuntite
e sporgenti.
Con un sordo brontolio lo Koxol strisciò dentro
l'imbarcazione per raggomitolarsi sul fondo, accanto al Numel, in
quel momento dormiente, che aveva deciso di seguirlo.
L'essere si
chiedeva perché quel Pokémon avesse preso una decisione così
drastica. Seguire il suo amico, nonostante questo era riuscito a
privare il Protettore dell'isola della sua pietra, della sua fonte
principale di potere. Come aveva potuto seguirlo?
Preso da
quelle domande, il gigante si raggomitolò attorno al suo piccolo
amichetto, cercando disperatamente di riscaldarlo ancora un po'.
Anche se ormai aveva perso anche la capacità di produrre fiamme,
forse il calore corporeo poteva bastare.
Ma tutto dipendeva dal
fuoco, dal Sole. E in quel momento erano entrambi circondati
dall'acqua, coperti giorno e notte da una coltre innaturale di nuvole
-non avrebbe disdegnato neanche la luce lunare, arrivato a quel
punto- per cui di fonti energetiche non se ne trovavano neanche a
sforzarsi. Tra l'altro neanche quella bonaccia prolungata era poi
così tanto naturale: oltre il reef il mare non era mai stato così
tanto clemente.
Il Koxol si chiese se tutto quello fosse uno dei
tanti giochi folli di Tapu Lele o significasse qualcosa di più
sinistro. Era ben noto che il potere del Protettore non era gran che
efficace oltre il reef, ma l'essere non era pronto a scommetterci
neanche un pelo che ciò valesse in maniera assoluta. D'altro canto,
quasi ci sperava che quello fosse tutta opera del Tapu e solo sua.
Il
solo pensare che la fonte di tutto quello fossero le... le cose dei
suoi incubi atterrì così tanto quel bestione, tanto da farlo
rabbrividire e strappargli qualche singhiozzo.
Si chiese
per quanto sarebbe rimasto senza Sole e calore prima di spegnersi del
tutto. Credeva di aver raggiunto il limite sopportando i giochi via
via più folli e crudeli di Tapu Lele: ma quelli riusciva a
sopportarli, dato che voleva ingannarlo e indurlo a consegnargli la
propria pietra -proprio la stessa che teneva incastonata sotto al
duro palato per non rischiare di perderla- spontaneamente. Tanto era
un gioco, no? Una caccia al tesoro quasi letale, che gli avrebbe
comportato mutilazioni e la prigionia nelle segrete buie del tempio
se il Protettore fosse rientrato in possesso della sua pietra.
Tanto
il Tapu ne era sicuro: sarebbe riuscito a scovarlo con la stessa
sicurezza di un Pyroar che caccia un Rattata. E la cosa, assieme alla
punizione per il suo sfidante, lo eccitava ancor di più. Non aveva
capito, forse, che il Koxol faceva sul serio.
Ma tanto che
importava? Da quegli incubi, dagli abomini che uscivano da strane
fenditure nello spazio, dall'isola con quel tempio particolare, da
quel tutto che aveva visto in visioni oniriche aveva capito che
quella pietra doveva uscire fuori dai domini di Ula Ula.
Il Koxol
gracidò disperato un'ultima volta rivolto al cielo, pregando di
avere ancora un po' di calore e luce. Ancora un altro po', ancora
un... altro...
Riuscì solo a posare l'enorme cranio sulla
testolina inerme di Numel. All'interno delle gigantesche fauci,
striscioline lucenti e calde di color magenta chiaro nascevano lente
da quella gemma. Senza alcuna fretta, strisciarono fra i denti
serrati, fra le orbite vuote e prive di qualsiasi vitalità,
avvilupparono quel corpo ormai rigido, accarezzandolo come una mano
materna.
E, come mosse da chissà quale misericordia verso
quell'essere, s'illuminarono e si strinsero attorno a lui, sempre più
strette, sempre più strette, sempre più strette.
Dentro quella
rete filamentosa -sempre più strette- una luce dapprima flebile
gradualmente aumentò d'intensità -sempre più strette!- finché non
inglobò anche il Pokémon ormai freddo trasformando quella barca,
prima portatrice di sofferenza, in un piccolo nuovo sole.
…
Il
ragazzino continuava a fissare in avanti. Vedere per intero il suo
interlocutore non gl'interessava. Voleva solo guardare il mare.
Forse, se guardava per bene in lontananza, avrebbe scorto qualcosa.
Magari qualche traccia del suo passato.
Come se la risacca potesse
restituirgli i ricordi come fa con le conchiglie.
-Ti abbiamo
trovato svenuto nella barca con più buchi che io abbia mai visto.
Galleggiavi nell'acqua rimasta ancora lì dentro, non rispondevi,
pensavamo che... insomma... -
Lui non disse nulla. Continuava a
fissare il mare piatto con sguardo assente. Si mosse un poco soltanto
quando sentì la testa calda di Numel contro il suo fianco, giusto
quel tanto per abbracciare il piccolo Pokémon.
-Come hai fatto a
sopravvivere? Da dove vieni?-
-Non... lo so- borbottò lui,
scostandosi una ciocca di capelli rossi da davanti gli occhi.
-Dai,
ricorderai pur qualcosa! Almeno sai come ti sei fatto quelle
bruciature sul corpo? Forse è quella pietra che ha il tuo Pokémon
sempre...-
-Non so nulla, hai capito? Nulla! Niente di niente!-
sbottò lui, stringendo istintivamente la pietra rosata che Numel si
portava sempre con sé, appesa all'esile collo con una cordicella
fatta da chissà chi.
Per la sorpresa, il Pokémon Tepore s'agitò,
non capendo la causa di quello sfogo. Il ragazzo sconosciuto sobbalzò
leggermente, ma cercò di non scomporsi troppo.
-Ok, ok, amico,
non preoccuparti! È che... sei il terzo che arriva in questo stato.
Non ricordi nulla, hai con te qualcosa di prezioso, bruciature e
ferite sul corpo, accento strano. Stiamo cercando di capire cosa
succede, tutto qua!-
A quelle parole il rosso si girò verso il
suo interlocutore, senza smettere di accarezzare il proprio
Pokémon.
Lo sconosciuto doveva avere più o meno i suoi stessi
anni. Ma di costituzione era più robusto, la pelle era di una
sfumatura olivastra e dalle zone non coperte dai vestiti bianchi
s'intravedevano strani disegni neri, che dovevano sicuramente
continuare sotto quei tessuti.
Quello lo osservava con aria
dubbiosa, gli occhi scuri esprimevano solo esitazione.
-Gli altri
però ricordavano il proprio nome. Solo quello. Tu... te lo ricordi?-
gli chiese infine, passando distrattamente le dita fra i capelli
neri, raccolti in un codino.
-Sì...- mormorò il rosso, tornando
a fissare il mare.
-Una volta, forse, qualcuno mi chiamava Max. Ma
non ricordo...-