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Autore: DurdenKurtz    15/06/2018    1 recensioni
Un ubriacone finisce misteriosamente sulla luna e si imbarca in un viaggio alla scoperta di se stesso.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Come ogni sabato sera, ero ubriaco fradicio. Avevo ingurgitato prima una bottiglia di birra Guinness da un litro, assaporandola fino all’ultimo goccio, accompagnata da un pacchetto di noccioline mentre guardavo un film, steso sul divano. Dopodiché, una volta finiti sia la bottiglia che il pacchetto, mi ero spostato sul terrazzo, accompagnando alla bella nottata stellata un bicchiere di Vodka alla pesca. Mentre quel liquido trasparente, così simile all’acqua che si beve per vivere, scendeva a riscaldarmi lo stomaco, cercai di giocare a riconoscere le costellazioni. Come ogni volta individuai il Piccolo Carro, l’Orsa Maggiore e la Stella Polare, ma non ebbi successo con le altre. Mi ricordo di quando andai in Sud Africa, ero ancora molto piccolo, con la mia piccola famiglia disastrata riunita per l’ultima volta. Lì, immobile, proprio mentre sbarcavamo da un minuscolo e indubbiamente pericolante aereo di linea, trovammo ad aspettarci un cielo totalmente diverso, con la maestosa Croce del Sud, che si stagliava nella nera profondità siderale come un simbolo in uno stendardo rinascimentale. Mi ricordo di aver pensato a come sarebbe stato bello, ogni sera, avere un cielo diverso in cui perdersi, perché il cielo che vediamo tutte le notti si conosce così bene che diventa difficile smarrirsi in esso. L’unico elemento che dovrebbe rimanere immutato è la Luna, quella sfera perfetta, così luminosa che sembra impossibile che essa non brilli di una luce propria, ma solo del riflesso di un astro più grande. Immerso in questi pensieri, ad un bicchiere ne seguì un altro, e poi un altro ancora, in questo modo solo alla fine mi accorsi di essermi scolato quattro bicchieri di Vodka alla pesca. I miei sensi cominciarono ad intorpidirsi, tuttavia non ero ancora pronto per dire basta. Così rientrai in casa e rimisi la bottiglia di Vodka sul suo scaffale, accanto alla foto della mia ex-ragazza. Prima era lei la mia dipendenza, ora sono dipendente dalla mia amatissima Vodka alla pesca. Due cose così diverse ma tossiche allo stesso modo, entrambe uccidono se se ne fa un uso eccessivo, con la sola differenza che l’alcool ti uccide meno dolorosamente.
Fui consapevole per la prima volta che ciò che ingurgitavo mi avrebbe fritto il fegato e ridotti i reni in poltiglia (o forse la milza?) la sera in cui presi parte alla riunione degli alcolisti anonimi. Non c’è niente di peggio di quelle stramaledettissime riunioni degli alcolisti anonimi, parlare sentendosi osservati da una cinquantina di idioti con gli occhi vacui come quelli di un pesce morto di dissenteria. Non avevo guadagnato molto, a parte una compagnia femminile nel regale talamo, dalla delicata essenza di Scotch e le labbra che sapevano di sigarette di quarta mano. Sigarette russe, è probabile. O polacche. O lettoni. Sempre che i lettoni producano sigarette.
Immerso in questi dolci pensieri - tranquilli, sono ironico, fu una serata orrenda - mi diressi in cucina, e misi tutto a soqquadro nella disperata ricerca della mia bottiglia di Whisky scozzese. Cominciai ad aprire cassetti alla rinfusa, lanciando cucchiai, coltelli e forchette in tutte le direzioni concepibili da un normale essere umano. Alla fine la trovai, e mi attaccai al collo della bottiglia come un povero assetato nel deserto del Sahara. Me la feci fuori tutta. Se già ero ubriaco fradicio dopo la birra e il mezzo litro di Vodka, figurarsi come poteva ridurmi una bottiglia intera di Whisky. La gettai sul pavimento, fracassandola. Una volta uscito dalla cucina pensai di sdraiarmi sulla prima poltrona che mi capitava davanti, ma il pavimento cambiò i miei piani, colpendomi in piena faccia. Mi chiesi come avesse fatto il pavimento ad avermi colpito sui denti, poi mi accorsi che, effettivamente, il pavimento mi aveva colpito, ma che ero stato io a sbatterci la faccia dopo essere caduto. Fu l’ultima cosa che pensai prima di perdere i sensi.
C'erano state molte ubriacature nella mia vita di trentenne, ma a nessuna erano seguite delle visioni tanto realistiche da apparire vere ai miei occhi. Forse non stavo sognando, sembrava troppo vero. Per qualche secondo mi convinsi che quello che mi stava accadendo era reale, poi riflettei un attimo e pensai che non capitava certo tutti i giorni di fluttuare in assenza di gravità nello spazio, cosa che stavo facendo in quel momento. Il cielo spaziale inizialmente sembrava vuoto, poi, guardandomi attorno, mi resi conto della moltitudine di stelle sospese intorno a me. Sembravano tante piccole luci natalizie, con l’unica differenza che non c’era un abete verde figlio del consumismo a sostenerle. Cominciai a volteggiare furiosamente per osservare le stelle, finché non mi resi conto che la testa mi girava altrettanto furiosamente. Così mi fermai, sospeso tra il tempo e lo spazio, finché non mi accorsi di Lei. Era proprio lì davanti ai miei occhi, l’avevo vista così bella solo nei miei sogni. Sembrava che la Luna fosse stata lì da sempre, ad aspettarmi: sembrava che mi sussurrasse di andare da lei. Il calore, la luce che emanava, e lo splendore rilucente che si effondeva dalla sua superficie candida la rendevano simile in tutto e per tutto alle stelle dalle quali era contornata. Sentivo la Luna chiamarmi. Non concretamente, ma provai un bisogno irrefrenabile di vedere com’era fatta, di essere un novello Astolfo, un novello Neil Armstrong, con l’unica differenza che entrambi avevano esplorato il nostro amato satellite da sobri. Il problema era che non sapevo come arrivarci. Ero totalmente perso in quello spazio. Non avevo la minima idea di come muovermi lì dentro. Cominciai ad agitare gambe e piedi, ma fluttuavo solo di pochi centimetri avanti, per poi ritornare repentinamente indietro. Così cercai di muovere i miei quattro arti simultaneamente, con il solo risultato che il mio corpo si rigirò, facendomi finire a testa in giù. O forse a testa in su, era impossibile capire quali fossero le direzioni giuste in quell’abisso blu. Spinsi avanti prima le braccia e poi subito dopo le gambe, come avevo imparato da bambino. La Luna si faceva sempre più vicina, e io cominciai ad acquistare sempre più velocità. Ero sicuro che ci sarei andato a sbattere, proprio come avevo fatto col pavimento. Invece, dopo un po’, il mio moto uniformemente accelerato cominciò a rallentare, finché non mi posai, delicatamente, sulla liscia ed argentea superficie lunare. La forza di gravità aumentò, e mi ritrovai come mi sentivo sulla Terra. Subito dopo mi chiesi che fine avessero fatto i crateri lunari tanto famosi: la superficie era totalmente liscia e rilucente, pareva quasi ricoperta da una superficie sottilissima di vetro, o meglio, di cristallo. Le mie scarpe da ginnastica cozzavano contro questa superficie, producendo un suono sordo. Mi diressi in una imprecisata direzione, non sapevo nemmeno io dove andare. Ero deluso, lo ammetto: la Luna era stata tutto quel tempo a chiamarmi, a farsi desiderare, e un volta giunto lì non avevo trovato né i famosi crateri (ero ansioso di ammirare il Mare della Solitudine o di verificare che il famoso sbarco sulla Luna non fosse una montatura, controllando se ci fosse davvero una bandiera americana piantata nel terreno), né una qualche città o Valle di senni smarriti, e senza nessuna di queste due condizioni non potevo essere il nuovo Armstrong, e nemmeno il nuovo Astolfo. Immerso in questi pensieri continuai a camminare sulla superficie lunare. Non c’era altro che il niente, il nulla, il vuoto più totale che i miei occhi avessero mai visto. Nella noia mi sdraiai per terra, dato che lo strato di cristallo era molto comodo ed emanava anche un calore soffuso. Mi misi a scrutare le stelle nel tentativo di riconoscerle. Provai un po’ di sgomento accorgendomi che erano stelle mai viste, senza nome, astri e pianeti sconosciuti. Come potevo chiamare questi nuovi corpi celesti? Iniziai a riflettere su nomi della mitologia latina che non fossero già presi. Cerere? No, sembrerebbe un pianeta fatto di cera, una gigantesca candela. Giunone? Mi sembrava un nome molto simpatico. Però non andava bene, si sa che tutti i pianeti hanno nomi da uomo. Che maschilismo: dopo anni e anni di lotte per i diritti delle donne, ancora non era possibile dare nomi femminili a dei pianeti. Che rabbia. I nomi degli dei erano finiti, quelli delle dee erano gli unici rimasti da utilizzare...
Decisi di spegnere temporaneamente il cervello. Cercai di ragionare un po’ sulla situazione in cui mi trovavo. Ero sulla Luna, e di certo una tale esperienza non mi sarebbe capitata mai più. E invece cosa stavo facendo, un’analisi filosofica sul maschilismo nella nomenclatura dei pianeti? Questa cosa si poteva definire in un solo modo: una colossale perdita di tempo. Dovevo agire, esplorare un po’ il luogo in cui mi trovavo. Dato che la storia delle dee e dei pianeti mi sembrava un grande idea, decisi di annotarla sul risvolto della mia camicia, con una penna trovata a terra. Per prima cosa credetti che fosse meglio alzarsi da terra e continuare sul mio cammino. Ad attirare la mia attenzione fu una sostanza che si trovava per terra, di fronte ai miei piedi: era una scia di cenere che portava chissà dove. La polvere scura risaltava ancor di più contro il bianco abbacinante prodotto dalla superficie lunare. La cosa più sensata da fare mi sembrò seguire la cenere, sapevo di doverlo fare. E, man mano che procedevo, anche il terreno sotto ai miei piedi cambiava: allo strato cristallino che avevo incontrato all’inizio si era sostituita una superficie marmorea, fredda e durissima al tatto. Una o due volte rischiai anche di scivolare e caracollare miseramente al suolo. In mezzo alla scia cinerea trovai una piccola provetta trasparente, sulla quale vi era un’etichetta con su scritto “IL TUO SENNO”. Svitai il tappo e bevvi un po’ del liquido che vi era contenuto. Difficile a crederci, sapeva di Vodka alla pesca. Se la Vodka alla pesca ero il mio senno, dovevo essere l’uomo più giusto e retto del pianeta, perché di sicuro il mio corpo non era mai stato a corto di alcool per più di cinque ore. O forse quella provetta stava a significare che l’alcool mi aveva fatto perdere me stesso. Ripensandoci ricordai che la prima volta in cui bevvi una Vodka (da lì era cominciata la mia dipendenza) mi trovavo a casa di un mio amico. La particolarità di quella casa era il pavimento: vero marmo, in ogni stanza della sua casa. D’un tratto mi resi conto del motivo per cui ero stato mandato sulla Luna: per trovare me stesso. Un bildungsroman in piena regola. Il termine bildungsroman mi faceva pensare al nome di una birra: una birra scura, dal sapore forte e deciso. Pensai che sarebbe stato divertente andare in un pub e chiedere un Bildungsroman ben shakerato con ghiaccio. Forse era davvero una birra scura, in caso contrario il cameriere mi avrebbe guardato come si guarda un pazzo. Cosa che ero.
Continuai a camminare, e dopo qualche minuto il terreno divenne sabbia: sabbia bianca. Trovai un baule mezzo sepolto che assomigliava al tesoro di Flint, e aveva la stessa etichetta dell’alambicco. Sollevato il coperchio, trovai la foto della mia ex-ragazza, la stessa che avevo sul comodino. Aveva deciso di lasciarmi in un fantastico giorno d’estate, sulla spiaggia. Mi aveva tradito con un agente del fisco. Quel giorno, seduto sul bagnasciuga, mentre mi faceva quella rivelazione, pensai: mio fratello è un agente del fisco. Subito dopo lei mi disse che l’agente del fisco con il quale mi aveva tradito era mio fratello. Mi ero fatto cacciare dal lavoro per stare più tempo con lei, e quando mi licenziarono lei mi aveva rassicurato: vedrai che con il mio aiuto ne troverai un altro. Una promessa subito caduta nel dimenticatoio.
Pieno di rabbia, lanciai la foto il più lontano possibile. Appena torno a casa butto questa foto al secchio, non merita il suo posto accanto alla Vodka alla pesca, pensai. Poi realizzai che per ricominciare a vivere sul serio avrei dovuto gettare via anche tutte le riserve di alcool che avevo in casa. Quel viaggio sulla Luna si stava rivelando utile: ero ansioso di ricominciare la mia nuova vita, di risollevarmi dallo stato di torpore in cui vivevo. Ero pronto per vivere, finalmente.
Proseguii sulla mia strada. Ad ogni cambiamento di terreno, trovavo qualcosa di diverso: su un pavimento di assi di legno, trovai la fede indossata da mia madre, che si era tolta dopo il divorzio da mio padre; su delle vecchie mattonelle verde pallido, mi attendeva una molletta per capelli appartenuta a mia nonna, forse l’unica che si era interessata veramente a me; su un prato fresco di pioggia, il mazzo di carte con cui giocavo insieme a mio fratello: una volta persi una scommessa, e gli assicurai che si sarebbe potuto prendere la prima ragazza di cui mi fossi innamorato. Non avevo assolutamente pensato che l’avrebbe presa letteralmente. Per finire, su un nero pavimento lurido, mi aspettava la cinghia di papà. Mi ricordavo bene il dolore che corrispondeva ad ogni sferzata sulla mia schiena.
Ma non me ne importava più niente ormai, la vita vera mi stava aspettando.
Era da un po’ che sentivo puzza di bruciato, ma non ci avevo badato. All'improvviso mi ritrovai ad aleggiare su una strada asfaltata. Doveva essere l’ultima parte del mio cammino di salvezza. A un lato della strada c’erano delle macerie brucianti. Mi ci volle un po’ per capire che mi trovavo sulla mia strada, e che quelle che bruciavano erano le macerie di casa mia: mi resi conto che significava che dovevo abbandonare tutto il mio stile di vita.
Ma poi capii. Non ero più sulla Luna, ero davvero sulla strada in cui abitavo; la mia casa era stata rasa totalmente al suolo da un colossale incendio. La strada era gremita di persone da tutto il vicinato. Non capivo cosa stesse succedendo. Fortuna che mentre la mia casa bruciava ero al sicuro sulla Luna. Chiesi a un passante: “Cosa è successo a casa mia?”. Non mi rispose, mi ignorò totalmente. Una macchina stava per investirmi in pieno. Non potevo morire dopo essermi salvato dall’incendio, ma non feci in tempo a scostarmi, così la macchina mi venne addosso. O meglio, mi passò letteralmente attraverso. Ero confuso, ma poi le sentii. Sentii le voci di quei dannatissimi passanti, l’ultima cosa che udii prima di svanire per sempre. Dicevano che non si sapeva bene cosa fosse successo. L’uomo che abitava lì aveva dato fuoco alla sua casa svuotando delle bottiglie d’alcool sulla moquette. Era morto soffocato dal fumo. Era depresso da tempo. Poverino, era un ubriacone. Certa gente non impara mai a vivere
  
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