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Autore: _Takkun_    19/06/2018    1 recensioni
Dal prologo:
Fece scorrere la playlist e, come di consuetudine, il suo dito andò a fermarsi su una canzone in particolare: Rise Again.
Quando la fece partire, Ranmaru indirizzò lo sguardo verso il cielo terso di quel pomeriggio.
Il giorno seguente sarebbe stato il primo di aprile, lo stesso giorno in cui, una decina di anni prima, il destino gli aveva riservato un inaspettato scherzo, facendogli incontrare un ragazzo che con la sua inesauribile vitalità e il sorriso sempre ben piantato sulle labbra, gli aveva cambiato la vita.
Rise Again era la loro canzone.
Sua e di quel ragazzo che un tempo rispondeva al nome di Reiji Kotobuki.
~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~
“Even if I lose everything, I’ll still love only you”
So in love… I don’t want to be apart from you
Even if my dreams are ripped to shreds
“Even in stormy winds… Even if lightning strikes… I will not fall again”
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Ranmaru Kurosaki, Reiji Kotobuki
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Angolo autrice: spero che siate contenti di rivedermi così presto! :
Vi spiego subito come mai sto facendo questo aggiornamento. Purtroppo penso di non poter essere in grado di pubblicare per luglio, quindi piuttosto che saltare il capitolo per il mese prossimo, ve lo pubblico ora! <33
Non ho molto da dire al riguardo, spero solo che vi piaccia e se volete farmi sapere i vostri pareri, sapete come fare! ;w;
Sotto vi lascio però il link di una canzone che comparirà nel capitolo con tanto di testo tradotto!
Un grazie speciale come sempre è dovuto ad Ailess, il tuo supporto è sempre molto importante! <33
Vi auguro una buona lettura, a presto! 
 


Rise Again

 
04. Una ragione per continuare


 
 


[3 aprile, sala studio universitaria, 08:45]
 
 


«Reiji? Ma ci sei, oggi?»
Il moro sbatté un paio di volte le palpebre, tornando a visualizzare le scritte della pagina che stava cercando di sottolineare da una ventina di minuti, più o meno.
Ryosuke sospirò, mettendo per un attimo da parte gli entusiasmanti calcoli di economia aziendale: quella mattina non poteva proseguire così, era arrivato il momento di capirci qualcosa riguardo ciò che sembrava tenerlo con la testa tra le nuvole.
Van scosse la testa, appoggiando la penna dietro l’orecchio – in realtà una pausa dallo studio non gli dispiaceva affatto.
«Beh, credo sia chiaro che non possiamo rimandare oltre. Vuoi spiegarci cosa è successo ieri o no?»
Reiji iniziò a rigirarsi l’evidenziatore tra le dita, picchiettandolo poi più volte sul libro. «Nulla di che, ho discusso ancora una volta con Inoue-san.»
«E fin qui ci ero arrivato.» disse Van, sporgendosi verso di lui. «Che stavi combinando, esattamente?»
«Ti ha cacciato definitivamente dal reparto?» chiese allora Ryosuke, preoccupato di una simile eventualità. Non era parte della facoltà di infermieristica, ma grazie alle voci che giravano sul suo conto - ma soprattutto a Van - era ben a conoscenza di quanto, in quegli ultimi mesi, Reiji era stato in grado di dare ai pazienti e all’intero reparto in generale, portando una ventata di allegria e leggerezza.
Come tutti, lo ammirava molto per quello. Primo perché non essendo un amante dei più piccoli, era sorpreso di come riuscisse a instaurare rapporti come quello di cui gli aveva parlato Van, con un certo Otoya; e secondo perché mai sarebbe stato in grado di andare così controcorrente in un ambiente ospedaliero, partendo da semplice tirocinante, riuscendo però a trascinare con sé molti altri studenti e persino il suo responsabile di corso.
Per uno come lui tutto ciò sarebbe stato impensabile, un’utopia, ed era proprio questo che gli aveva fatto perdere la testa per il moro: la passione che leggeva nei suoi occhi ogniqualvolta parlava delle nuove conoscenze fatte in reparto, o quando stando in ospedale imparava qualcosa di nuovo che lo spronava a proseguire con determinazione quel percorso, era assolutamente impagabile, sarebbe rimasto ore e ore ad ascoltarlo senza mai stancarsi.
«No!» rispose prontamente Reiji, con un tono di voce forse un po’ troppo alto per gli standard richiesti dalla sala studio. Il moro non tardò a chiedere scusa agli studenti seduti agli altri tavoli. «Non voglio nemmeno pensarci, anche se è vero che finisco sempre per tirare troppo la corda con quell’uomo.» aggiunse a voce più bassa. «Per lui la clown terapia è solo un fastidio per i pazienti, ma io so quanta differenza possa fare l’ambiente che ti circonda quando stai cercando di affrontare giorno dopo giorno qualcosa che è più grande di te, specialmente parlando di bambini. Quei piccoli hanno davvero una forza incredibile, ancora me ne stupisco.» disse l’ultima parte in un sussurro, lasciando cadere momentaneamente il discorso, perdendosi nuovamente in chissà quale pensiero.
Solo dopo essere stato scosso leggermente per un braccio da Ryosuke, Reiji tornò di nuovo tra loro, lasciandosi andare a un sospiro, accompagnato da un sorriso amaro. «Torno sempre a casa distrutto, eppure continuo a pensare di non fare abbastanza per loro. L’altro giorno, con il nuovo bambino, Tokiya, credo di aver fallito miseramente…» disse, premendosi le palpebre con i palmi delle mani.
Ryosuke si accigliò, scambiandosi un’occhiata con Van. «Tu non staresti facendo abbastanza? Ti stai spingendo oltre ciò che ti è concesso, sia a livello accademico che fisico, Reiji.»
Van incrociò le braccia, annuendo alle parole dell’amico. «Ryo-chan ha ragione, e ormai ne abbiamo già parlato un’infinità di volte. I tuoi intenti sono nobili, ma non puoi sperare di poter cambiare le cose in pochi mesi, soprattutto quando è il potere a mancarti. Inoltre ti comporti sempre come se fossi da solo ad affrontare tutto questo, potrei iniziare a offendermi, sai?» disse, non trattenendo un sorriso quando lo colpì scherzosamente con il piede da sotto il tavolo.
«È sorprendente che tu non sia ancora stato cacciato da quell’ospedale, a dirla tutta.» fece Ryosuke, tornando ancora una volta a guardare Van. «E mi riferisco anche a te.»
«Ehi! Io sono il braccio destro, lui è la mente!» il castano si fermò a pensare, aggiungendo: «E forse anche il braccio sinistro dato che fa entrambe le cose…» 
Reiji rise, scuotendo la testa. «Penso che giochino a mio favore il rapporto con i pazienti e i buoni risultati nello studio. Satou-san riesce sempre a mettere una buona parola su di me.»
Il corvino lo guardò seriamente. «Ma è anche vero che non puoi continuare così, altrimenti non arriverai mai alla laurea e l’ospedale potrai solo vederlo col binocolo. Inoltre quel pover’uomo potrà aiutarti fino ad un certo limite, a quel punto finirà lui stesso nei guai per colpa tua.»
«Woah, Ryo-chan, non essere così spietato!» provò a buttarla sul ridere, Van, facendo però scemare man mano il suo sorriso all’occhiata glaciale dell’altro.
Messaggio ricevuto, l’avrebbe lasciato parlare senza dire nulla.
«Quello che voglio dire è che forse dovreste impegnarvi di più a far cambiare idea a questo “terribile” primario in modo intelligente, ossia senza fare cose esagerate che possano aumentare l’antipatia nei vostri confronti, soprattutto i tuoi, Reiji.»
Reiji si infilò una mano fra i capelli, tirandosi appena una ciocca. «Idee di come possa riuscirci? Perché se non sono bastati questi mesi, non so che altro potrebbe convincerlo.»
«Beh, lo conoscete meglio di me. Van?»
L’interpellato iniziò a spremersi le meningi, premendosi l’indice sulla fronte. «Mmh, sbaglio o prima hai parlato di aver fallito con il nuovo bambino?»
Reiji annuì. «Tokiya è davvero chiuso caratterialmente e ha sopportato l’iniezione della terapia in un modo sorprendente per la sua età. Ho provato a portare Otoyan da lui per farli legare un po’, un amico fa sempre comodo quando ti trovi in un posto come quello…» il suo sguardo si fece vuoto e la presa sulla ciocca aumentò. «Ma non ne ha voluto sapere, nemmeno dei miei trucchi di magia. Ha solo chiesto che ce ne andassimo perché voleva stare da solo. Non riesco ad avvicinarlo in alcun modo, ho paura di farlo stare peggio, capite?»
«Beh, sarà il caso di iniziare a capire come possiamo conquistarlo. Forse se mostriamo a Inoue-san che grazie alla clown terapia la salute di Tokiya-kun migliora, non si mostrerà più così, uhm, costipato quando ci vedrà per i corridoi con i nasi rossi?»
«Costipato? Davvero, Van?»
«Tu non l’hai visto ieri mentre teneva in mano il naso di Reiji! Quello finto, eh. E sembra sempre disgustato quando vede i miei pupazzi! Nessuno prova disgusto per i miei pupazzi.»
Ryosuke alzò gli occhi al cielo, rivolgendo la sua attenzione a Reiji. «Prima che Ventriloquo-san inizi a parlare dei suoi figli, credi che l’idea possa funzionare?»
Reiji ci rifletté attentamente, arruffandosi poi i capelli in un gesto frenetico prima di reclinare il capo all’indietro. «Non lo so, ma se ce la facessi sarebbe prima di tutto per il bene di Tokiya. Vorrei davvero vederlo un suo sorriso, è assurdo che non l’abbia ancora visto felice.»
«Beh, neanche così tanto, in realtà.» fece Van. «Stiamo sempre parlando di un ospedale e si trova lì da poco.»
Reiji annuì, non potendogli dare torto. «È quasi vicino alla seconda settimana.» disse, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che una mano si posò sulla sua spalla, facendolo sobbalzare appena.
«Scusami, non volevo spaventarti.»
Quando Reiji si voltò a guardare la proprietaria di quella mano, la riconobbe come la ragazza del suo ultimo appuntamento, ma il nome… quello proprio non riuscì a ricordarselo.
«My girl, non preoccuparti~» disse, eliminando l’espressione di prima per lasciare spazio a uno sguardo ammiccante. My girl andava sempre bene, per tutte, e nessuna di loro si era mai lamentata di questo. «È successo qualcosa?»
Questa scosse la testa, scostandosi timidamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Mi chiedevo…» iniziò, sentendosi in imbarazzo davanti agli occhi degli altri due puntati su di lei, uno dei quali, Ryosuke, decise di facilitarle il compito, levando le tende.
«Penso che andrò a prendermi un caffè, fatemi sapere gli sviluppi.» disse, raccogliendo le proprie cose. «Noi ci sentiamo dopo.» aggiunse poi con una certa freddezza nel rivolgersi a Reiji, andandosene senza degnare di uno sguardo la ragazza.
Era una scena vista e rivista alla quale però non sarebbe mai riuscito ad abituarsi.
Relazione aperta, la chiamavano, sia lui che Reiji erano liberi di frequentare altre persone senza alcun problema, e se al moro sembrava venire naturale come atteggiamento, per quanto lo riguardava, dall’inizio del loro rapporto, non si era visto con nessuno all’infuori dell’aspirante infermiere.
Ancora non capiva, in realtà, perché Reiji avesse messo quella condizione alla loro relazione, ma il sentimento che provava per lui era così forte da averlo spinto ad accettare quella situazione, sebbene gli facesse male.
Tendeva infatti a nascondere una moltitudine di insicurezze al riguardo, ma non si era mai disturbato di farlo presente a Reiji per paura di poter sembrare irritante, di poter chiedere troppo e perderlo così per sempre.
Era patetico, lo sapeva bene, ma l’unica cosa a cui si aggrappava era il fatto che lui fosse l’unico uomo che Reiji stava frequentando al momento, non aveva mai mostrato troppo interesse per altre persone del suo stesso sesso… questo, però, fino a ieri sera.
Ancora non riusciva a togliersi dalla testa quel duetto, quello scambio di sguardi così intenso per gli standard di una semplice canzone da karaoke, per quello una volta tornati a casa aveva provato a monopolizzare le attenzioni del moro.
In ogni caso, le paure del giorno prima erano state messe a tacere con la conversazione di poco prima e poteva definirsi momentaneamente tranquillo, almeno fino a quando non sarebbe di nuovo uscito il nome di quel Ranmaru in qualche discorso di Reiji.
 
 
Il moro fece abbastanza in fretta con la ragazza, dicendole che l’avrebbe sicuramente contatta non appena fosse riuscito a trovare del tempo libero per un’altra uscita.
«Non ti ricordavi il suo nome, vero?» ridacchiò Van, tirando fuori una bottiglietta d’acqua per berne un sorso.
«Si è capito?»
Van richiuse la bottiglietta e scosse la testa, sempre più divertito. «My girl~» lo scimmiottò, ricevendo un pugno sul braccio da parte dell’altro. «Il 95% delle volte lo tiri fuori quando non sai che pesci pigliare davanti ad una che hai dimenticato subito.»
«Mh? E il restante 5%?»
Van scrollò le spalle. «Ti senti semplicemente figo. Su quella comunque potrei farci un pensierino… Cos’aveva che non andava?»
«Non me lo chiedere, so solo che non mi ha trasmesso troppo se non sono riuscito a ricordarmi il suo nome.» rispose, posando lo sguardo sulla sedia vuota di Ryosuke, pensieroso. «Niente di diverso dal solito...»
Van stette a guardarlo per un po’ prima di proferir parola. «Senti, parlando d’amore, non credi che sarebbe il caso di “lavorare” solo su una persona? E che quella persona possa essere Ryo-chan? Vi trovate bene insieme.» provò, ma dall’espressione non troppo convinta di Reiji capì quanto fosse inutile.
«Ryosuke è fantastico, ma non-» tentennò, tenendo lo sguardo basso.
«Cosa?» lo incitò a continuare, Van.
«Non sono ancora pronto per una relazione seria.»
«Questo ha sempre a che fare con Stanza 404?»
Ancora una volta bastò un’occhiata per far capire a Van di non spingersi oltre.
«Va bene, va bene, non ne vuoi parlare, ma in quanto tuo amico voglio solo che tu riesca a sistemarti con qualcuno che ti faccia stare bene, e non parlo di un bene da una notte e via.» si fermò, accigliandosi alle sue stesse parole. «Diamine, detto da me sembra quasi una barzelletta, ma sono serio, eh!» ci tenne subito a chiarire, ricevendo vari ammonimenti dagli altri per il tono di voce troppo alto.
Si scusò subito, piantando gli occhi sul libro e facendo finta di studiare. Dopo pochi secondi, quando rialzò lo sguardo su Reiji, lo colpì una seconda volta alle gambe nel vederlo soffocare con tutto se stesso delle risate.
«Hanno sgridato anche te, prima! Che ridi?!»
Reiji si passò una mano sul viso, riuscendo in qualche modo a reprimere le risa.
«Non so esattamente che cosa farei se non ci fossi tu, mi sento quasi in dovere di ringraziarti.»
«Tieni queste dichiarazioni per altra gente, io non casco ai tuoi piedi, Kotobuki.» rispose tutto impettito, riprendendo la penna dal suo orecchio per tornare – con chissà quale forza – alla stesura dei suoi appunti.
Reiji ne imitò l’esempio, togliendo di nuovo il tappo dell’evidenziatore per continuare lo studio di quel capitolo.
Senza neanche aver lasciato passare due minuti, però, quest’ultimo non riuscì a tenere per sé un commento: «Altra gente… tipo Ran-Ran?»
Van a quel punto sgranò gli occhi, sbattendo le mani sul tavolo e urlando un “lo sapevo!” che riecheggiò per tutta la sala, cosa che gli costò altri rimproveri, ma non ci fece troppo caso, limitandosi a ennesime, veloci scuse.
«Ora mi racconti che cosa pensi di quel tipo! Anche se posso immaginarlo…»
«Mmh, ma davvero?»
«Ti prego. Se non ci fossimo stati noi, saresti finito per fartelo sul tavolino di quella stanza! Mancava la musichetta da tensione sessuale in sottofondo e bam!» batté le mani, questa volta facendo attenzione a non fare troppo rumore. «E senti, non te ne sei accorto perché eri troppo impegnato a flirtare, ma ti ho guardato malissimo al “c’è altro che vuoi mettermi in gola?” Lo conosci il pudore, Kotobuki Reiji?»
Reiji si tenne lo stomaco in un disperato tentativo di non scoppiare a ridere, ma se l’amico avesse continuato di quel passo, molto presto gli studenti lì presenti si sarebbero decisi ad abbandonare la sala pur di non sentirli parlare.
«Oh, ma ne è valsa la pena. Hai sentito come ha pronunciato il mio nome?»
«Ringhiato, vorrai dire.»
Il moro appoggiò una mano sulla guancia e avvicinò il mignolo alla bocca, mordicchiando un po’ l’unghia. «Oh sì.» lanciò poi uno sguardo all’amico, spostandosi verso di lui. «In realtà la storia è più lunga di quanto pensi…»
Van ghignò, avvicinandosi a sua volta con la sedia. «Dimmi di più.»
 
 
§§§§
 

[Ospedale della baia di Odaiba, 16:54]
 


Terminata la simulazione di rianimazione cardiopolmonare, Reiji si diresse verso lo spogliatoio, così da potersi cambiare, recuperare le sue cose e scendere al piano inferiore per occupare il suo solito posto nel bar dell’ospedale, pronto a sfruttare le prossime ore per mettere per iscritto tutto ciò che aveva imparato di nuovo in quella lezione.
Ormai la sua vita ruotava attorno a due soli ambienti: l’università e l’ospedale, ma non se ne lamentava affatto, anzi, lo studio era un’ottima scusa per stare lontano da casa o da qualsiasi altra persona che avesse voluto tenergli “compagnia”.
Reiji sorrise al barista, salutandolo con un cenno della mano, e una volta sedutosi tirò fuori il suo quaderno e una penna, stilando i punti principali della rianimazione trattata poco prima.
 
  • Insufflare artificialmente dell’aria nei polmoni;
  • Favorire circolazione del sangue con spinte compressive sul torace;
  • Probabilità di sopravvivenza -> diminuiscono del 7-10% ogni minuto;
  • Essenziale la tempestività dell’intervento
 
Reiji iniziò a picchiettare la penna sulla pagina, riflettendo sull’ultimo punto.
“Tempestività…”
A volte si domandava se quel mestiere fosse davvero giusto per lui.
Credeva che con la sua empatia il rapporto con i pazienti non sarebbe mai stato un problema, anzi, era più che convinto che sarebbe finito per trattarli nel migliore dei modi, così come meritava una qualsiasi persona nel momento del bisogno.
Ma trascorrendo quei mesi nei diversi reparti in cui stava svolgendo il suo tirocinio, seguendo i suoi superiori nelle situazioni che sarebbe finito per incontrare una volta divenuto un infermiere effettivo, aveva lentamente iniziato a capire quanto la sua sensibilità potesse trasformarsi in un’arma a doppio taglio.
Se per esempio fosse finito col perdere un paziente a causa di un suo sbaglio, un paziente con cui aveva creato un certo legame… sarebbe davvero stato in grado di riprendersi in breve tempo, tornando al lavoro di tutti i giorni come se nulla fosse?
Di questo non ne era propriamente convinto, ma forse era qualcosa che si imparava a fare con l’esperienza, seppur detta così la cosa continuava a non entusiasmarlo affatto.
Il suo pensiero andò inevitabilmente al primario, e Reiji non fece a meno di domandarsi se quell’uomo fosse sempre stato così rigido e severo di natura o se, per l’appunto, il suo fosse solo un modo per difendersi da quel genere di sofferenza.
«Lo scoprirò col tempo, sempre se ne avrò la possibilità…»
Voleva dare ancora una chance a Inoue-san, dopotutto non era considerato uno dei medici più famosi di Tokyo per nulla, ma dall’altra parte non sapeva se…
«Cos’è che scoprirai col tempo, ragazzo?»
Il moro spostò lo sguardo sull’uomo che aveva appena preso posto affianco a lui con un panino in mano, sorridendogli gentilmente.
«Satou-san, è in pausa?»
Questo annuì, stravaccandosi un po’ sulla sedia, mostrandosi completamente sfinito. «Maledico il giorno in cui mi sono offerto di lavorare anche con l’università! Potrei addormentarmi da un momento all’altro!» fece, catturando l’attenzione del barista.
«Vedi di tenere gli occhi aperti, invece, o i miei panini gratis te li puoi sognare!»
Il responsabile si ricompose, mostrandogli un sorriso a trentadue denti, fintamente innocente. «Tanto so che adori farmi da mogliettina apprensiva! Eh? No- Metti giù quell’arma. È legale avere un coltello così grande in un bar?!»
«Se non vuoi ritrovarti sgozzato, piantala di dare aria alla bocca con frasi degne della tua stupidità. Sii più adulto e non disturbare lo studio del ragazzo!»
Satou assottigliò lo sguardo in sua direzione, scimmiottandolo con il labiale prima di tornare a parlare con il minore, il quale non riuscì proprio a trattenere una risata: Satou-san, esattamente come Van, riusciva sempre a creare un’atmosfera piacevole attorno a lui, e nonostante si lamentasse spesso della mole di lavoro, era sempre tra i primi a intervenire in caso di necessità senza battere ciglio, con un sangue freddo apparentemente insolito per una personalità come la sua, che Reiji non nascondeva di invidiargli.
Aveva ancora molto da imparare.
«Tornando a noi.» disse, dando un altro morso al suo spuntino pomeridiano. «Stavi parlando da solo, prima? È un brutto segno, eh.» lanciò una rapida occhiata agli appunti dell’altro, indicandoli. «Quando quelli diventano i tuoi migliori amici è la fine. Mi sembra di tornare indietro a quando Masah-» Satou si bloccò all’improvviso, facendo finta di aver mandato di traverso un boccone, battendosi più volte un pugno sul petto.
Reiji si affrettò a picchiettargli la schiena e alle sue spalle sopraggiunse il sospiro rassegnato del barista, il quale non si preoccupò nemmeno di raggiungerli con un bicchiere d’acqua in mano: non era per niente bravo a fingere, quello sciocco.
«Sto bene! Sto bene!»
«Non alzare la voce.»
«Grazie per esserti preoccupato!»
L’uomo al bancone lo ignorò, concentrandosi a pulire con attenzione il bicchiere che aveva in mano.
«Ma che le è preso? Che cosa stava dicendo prima di essere quasi morto?»
Satou fece finta di rifletterci, prendendosi teatralmente il ponte del naso tra pollice e indice, assumendo un’espressione alquanto seria e pensosa prima di esclamare un: «Me ne sono dimenticato!» tornando poi a gustarsi il suo pasto.
«Se n’è… dimenticato?»
Il maggiore annuì, non soffocando uno sbadiglio. «È l’età che avanza, probabilmente. Ma parlavamo di te, quindi lascia perdere!»
Reiji lo guardò con sospetto, notando una certa preoccupazione nel suo sguardo, come se l’altro stesse cercando di nascondergli qualcosa, ma non si fece troppe domande sul momento, limitandosi a scrollare le spalle. «Aspetto che inizi l’orario di visite per fare un salto da Otoyan e gli altri angioletti. Nel frattempo mi tengo impegnato con lo studio…» abbassò lo sguardo sul foglio scritto, evitando di dire a Satou-san – come ogni volta – di dover fare visita anche ad un’altra persona all’infuori dei suoi piccoli amici, ma quella era un’informazione superflua da dare, solo Van ne era più o meno a conoscenza dopo averlo visto uscire dalla famosa stanza 404.
Satou, sebbene fosse ben disposto a continuare la conversazione con il giovane alunno, trasalì una volta che posò il suo sguardo sull’orologio appeso alla parete del bar, realizzando quanto poco tempo avesse per rilassarsi.
Ingurgitò l’ultimo boccone del suo panino, fortunatamente senza attentare alla sua vita, e lanciò il tovagliolo nel cestino più vicino, facendo canestro con successo.
Arruffò velocemente i capelli di Reiji e si sistemò meglio il camice, spolverandosi la maglietta e i pantaloni dalle briciole di pane. «Devo davvero scappare, ho una simulazione da seguire con il prossimo gruppo! Ricorda però di prenderti del tempo anche per te! Stai viziando troppo gli altri, e questo va bene, ma senza esagerare!» disse prima di schizzare fuori dal bar il più velocemente possibile, sperando di non incontrare un certo Inoue-san, o meglio, Masahiru Inoue-san: l’ultima cosa di cui aveva bisogno era una ramanzina da quello scorbuticone.
Reiji scosse la testa, sorridendo amaramente alle parole del suo superiore.
«Non sto viziando nessuno, cerco solo di mettermi la coscienza a posto…» mormorò, riprendendo con un sospiro da dove si era fermato prima che i suoi pensieri e Satou-san lo interrompessero.
 
 
§§§§
 
 
[Parsley’s, 20:43]
 
 
Lo sfrigolio dell’olio in padella finì ancora una volta per schizzargli sul dorso della mano, facendolo imprecare tra i denti.
Si era lasciato distrarre dai suoi pensieri ed era finito per dimenticarsi di alcune pietanze, fu abile e veloce, però, nel salvare tutto e mettere ogni cosa nel piatto, aggiungendo le solite decorazioni che Yume gli aveva insegnato a fare per dare quel tocco in più sempre gradito all’occhio del cliente.
Suonò poi il campanello sul bancone per avvisare il cameriere della conclusa preparazione dell’ultimo ordine di quella serata. Non vedendolo arrivare, continuò a suonare con fare irritato finché Kurou, il suddetto cameriere, non fece il suo ingresso all’interno della cucina.
«Stai calmo, ci sono.» fece svogliato, prendendo i due piatti e facendo un mezzo inchino quando, uscendo, vide Yume in un angolo mentre li stava osservando.
«Lo butterei fuori da qua all’istante, non capisco perché continuate a farlo rimanere.» sibilò l’albino, passando uno straccio sul bancone per dare una pulita, usando tutto il vigore che ci avrebbe messo in un pugno diretto sul viso dell’altro. Spesso si dimenticava che era stato proprio lui a trovargli un lavoro lì.
Yume si avvicinò a Ranmaru, prendendo un panno asciutto per aiutarlo a eliminare ogni traccia di bagnato dalla superficie.
«Sembra un fratello minore che adora stuzzicare il maggiore. Lo fa apposta per provocarti, lo sai? Con i clienti in sala si comporta sempre bene e rimane comunque un ottimo aiuto.»
«Peccato che non sia un moccioso e abbia la mia stessa età.»
«Ma ognuno di noi raggiunge la maturità in tempi diversi, figliolo. In qualche modo penso che ti ammiri molto, probabilmente il suo è un modo per attirare la tua attenzione.»
Ranmaru schioccò la lingua sul palato, alzando gli occhi al soffitto. «L’unica cosa che otterrà con questo atteggiamento saranno delle pedate sul sedere.» fece, premurandosi di mantenere un linguaggio che non fosse troppo volgare in presenza della donna.
«Lasciando per un attimo da parte il vostro rapporto…» provò a cambiare argomento, lei, prendendo i due panni per lasciarli piegati vicino al lavello. «Sono rimasta sorpresa da come hai affrontato questo servizio.»
Ranmaru sembrò non capire. «In che senso?»
«Non posso nascondere di aver notato alcuni momenti di distrazione da parte tua.» disse, e quando Ranmaru cercò subito di ribattere, probabilmente per giustificarsi, Yume fu veloce a interromperlo prima che potesse farlo lui. «Nonostante ciò, hai fatto un ottimo lavoro, pulito e ordinato, nulla di cui possa realmente lamentarmi, come ogni volta, d’altronde. Quello che voglio dire è… C’è qualcosa di cui vuoi parlare, Ranmaru? Un pensiero che magari ti sta infastidendo in questo periodo?» domandò, intrecciando le mani sul grembo, guardandolo visibilmente preoccupata. «Se con me non ti senti a tuo agio, ricordati che c’è sempre Satoshi a disposizione per una chiacchierata tra uomini.» sorrise con dolcezza, inclinando appena il capo in una sorta di invito a cogliere una delle due opzioni.
L’albino scosse il capo, apprezzando quella considerazione nei suoi confronti, ma allo stesso tempo sentendosi infastidito dal fatto che si fosse accorta che c’era qualcosa che l’aveva tenuto distratto quella sera – anche se non era del tutto convinto che si stesse riferendo solo a quelle ultime ore.
«Non c’è niente che non vada, sto bene.»
La donna fece scemare il suo sorriso, assumendo un’espressione più seria che fece ben intendere a Ranmaru di non averla convinta pienamente.
«Non voglio in alcun modo obbligarti a dirmi qualcosa che vuoi tenere per te. Conosco il tuo carattere, so quanto possa venirti difficile, ma voglio solo che tu sia consapevole del fatto che io e Satoshi, per te, ci saremo sempre per qualsiasi cosa.» Yume gli si avvicinò nuovamente, allungando una mano verso l’alto, sulla sua guancia. «Ogni giorno che passa diventi sempre più simile a tuo padre, sei esattamente la sua copia. Pur trovandoti in una situazione difficile, non hai esitato un attimo a darci il tuo aiuto con il poco che avevi, e per questo te ne saremo per sempre grati.» Yume accarezzò con delicatezza la sua gota, allontanando poi la mano con una risata leggera quando notò la rigidità del ragazzo sotto il suo tocco. «Ma come tu stai continuando a dare una mano a noi, noi siamo pronti a darla a te. L’unica cosa che spero tu non abbia ereditato da tuo padre sono l’eccessivo orgoglio e la convinzione di potercela fare da soli, questi l’hanno-»
«L’hanno ucciso, sì.» la interruppe bruscamente, Ranmaru, forse più di quanto avrebbe voluto suonare, togliendosi il grembiule da cucina per poi appallottolarlo e lanciarlo sul bancone. Non poteva credere che fosse persino arrivata a nominare lui. «Ma non finirò mai per cedere, se è questo di cui avete paura. È difficile, ma ho ancora troppe responsabilità da portare a compimento, non sono disposto a buttare la mia vita per qualche ostacolo che mi si para davanti. Non sono mio padre.»
Ranmaru si avviò verso la porta della cucina, fermandosi sulla soglia giusto il tempo per dire un’ultima cosa a Yume: «E tanto per chiarire, non è stato il suo orgoglio a ucciderlo, ma la fiducia sbagliata che ha riposto in qualcuno che credeva suo amico.»
La donna non ebbe modo di aggiungere altro in risposta a quell’ultima frase, poiché l’albino aveva già levato le tende, facendosi strada fra i tavoli del locale per raggiungere il piccolo palco che era stato costruito da lui e Satoshi appositamente per le esibizioni del suo gruppo.
Mentre si mise ad accordare il suo basso, già collegato a una delle casse, alcune ragazze sedute ai tavoli della prima fila iniziarono a farfugliare tra loro, lanciando diverse occhiate al giovane bassista accompagnate da risatine mal trattenute.
Ora ancor più di cattivo umore, Ranmaru sollevò lo sguardo in cerca di Hiroto e Hisoka: dove diamine erano andati a cacciarsi quei due?
La risposta non tardò ad arrivare.
Kurou si avvicinò a lui, salendo sul palco col cellulare in mano, l’espressione visibilmente scocciata.
«Che succede?» cercò di arrivare subito al dunque, Ranmaru.
«Hiroto mi ha scritto che per stasera non verranno, e probabilmente nemmeno le prossime di questa settima. Sono, o meglio, quell’idiota è ancora “nervoso” per quello che è successo ieri.»
«Non me ne può fregar di meno.» rispose con immediatezza l’altro, sistemando il microfono sull’asta. «Non ho tempo per stare dietro ai loro stati d’animo, suonerò da solo.»
Come se fosse la prima volta, si disse mentalmente, ormai fin troppo abituato a quel genere di situazione. Quello era solo il primo step, era più che convinto che ce ne sarebbero stati molti altri che li avrebbero portati a distruggere il gruppo. La sua pazienza non era mai stata smisurata con le persone, specie con chi mostrava una certa immaturità nei confronti di qualcosa su cui lui era sempre così serio: con la musica non si scherzava.
«Levati di torno, lasciami libero il palco.»
Dallo sguardo che Ranmaru gli rivolse in quel momento, Kurou capì che rispondergli non sarebbe stata una decisione saggia.
Fece quindi come l’altro gli disse, lanciando un’occhiata alla tela che si era portato dietro per quella serata: non era propriamente convinto di voler provare a dipingere quello che sarebbe venuto fuori dalle sue canzoni, avvertiva già una sensazione spiacevole allo stomaco solo a vedergli tenere tra le mani lo strumento.
«Anthem.» il tono del diciottenne era basso, cupo, bastò dire solo il titolo della canzone per lasciare nel completo silenzio la sala, tutti erano in attesa di poterlo ascoltare.
Ranmaru era diventato famoso nella baia grazie alle sue canzoni capaci di trapassare l’anima di chiunque stesse a sentire le parole dei suoi testi.
Le emozioni che trasmetteva colpivano prepotentemente il suo pubblico, e non importava se i significati non erano dei più gioiosi, era impossibile non rimanerne quasi incantati.
Capitava molte volte che qualcuno finisse persino per commuoversi, scosso da chissà quale sensazione.
Kurou l’aveva pensato più di una volta: Ranmaru era la fiamma che attirava irrimediabilmente a sé un esercito di falene – lui compreso, purtroppo – a cui non importava di perdere le loro ali per colpa del calore eccessivo e morire. Se quello significava vivere con intensità ciò che l’albino riusciva a far provare, ne valeva decisamente la pena.
E per quanto il corvino non lo sopportasse, per colpa di uno scherzo della natura era forse il più fastidiosamente sensibile a quella moltitudine di emozioni.
Strinse in una mano il vassoio vuoto, disteso lungo il suo fianco, e inspirò profondamente al suo iniziale assolo di basso: nessuno osava fiatare prima della fine della sua esibizione.
Anthem era la canzone che aveva dato inizio a quella sottospecie di rapporto che li legava.
Nella sua mente era ancora vivido il ricordo di quel pomeriggio invernale, quando aveva assistito per la prima volta ad una sua esibizione.
Ricordava le mani rosse del bassista, screpolate dal freddo; ricordava quell’accenno di sangue sulle nocche che non gli aveva in alcun modo impedito di continuare a muovere le dita lungo le corde dello strumento, il tutto accompagnato da un’espressione che Kurou aveva ancora ben impressa nella memoria, e che era riuscito a descrivere con un solo aggettivo: disperata.
Perché sì, ogni volta che Ranmaru suonava, era come se non riuscisse ad averne mai abbastanza. Il suo era una sorta di insaziabile bisogno che cercava in qualche modo di colmare, fallendo però miseramente.
Era convinto che nessuno, all’infuori di lui, si fosse mai accorto di quella breve soddisfazione che attraversa sempre il suo sguardo alla fine di ogni sua canzone, che va poi a trasformarsi in frustrazione qualche attimo dopo, conscio di quanto, ancora una volta, quello non fosse sufficiente a liberarlo da qualsiasi cosa lo tormentasse.
E se qualcuno gli avesse chiesto come facesse ad essere così sicuro di cosa provasse il bassista, probabilmente si sarebbe messo a ridere davanti alla sua stessa risposta.
Forse nemmeno Ranmaru si era mai reso conto di quanto loro due fossero simili su quell’aspetto, probabilmente perché l’albino non si era mai mostrato troppo interessato alla sua vita privata.
L’artista conosceva fin troppo bene quella frustrazione, l’aveva provata più volte nel corso degli anni.
Se la musica poteva definirsi tutto per Ranmaru, lo stesso valeva per lui e l’arte.
Ma a differenza dell’altro, Kurou non aveva mai avuto il coraggio necessario per mettere l’arte al centro della sua vita.
Una serata, poco dopo la chiusura del locale e una pesante litigata tra lui e Ranmaru, Yume e Satoshi gli avevano brevemente raccontato quante cose avesse dovuto affrontare l’albino negli ultimi anni, venendo così a conoscenza delle sue vere origini.
Se con quelle confessioni gli anziani avevano sperato che Kurou potesse in qualche modo mostrarsi più comprensivo nei confronti dell’atteggiamento del coetaneo, questi si sbagliarono di grosso.
Venirne a conoscenza aveva semplicemente amplificato il risentimento che Kurou nutriva verso l’altro.
Proprio come lui, Ranmaru non era stato in alcun modo appoggiato nella scelta di voler proseguire nel campo della musica, anzi, visto il suo precedente status sarebbe stato impensabile.   
Eppure era lì, intento a condividere il suo talento davanti a un pubblico che sembrava venerarlo.
Aveva perso tutto, aveva tutte le ragioni per buttarsi giù e arrendersi davanti a un sogno apparentemente troppo grande per lui, ma non l’aveva fatto.
Se guardava Ranmaru, la prima cosa che gli tornava in mente era il sangue sulle nocche delle sue mani, e oltre a ciò Kurou non mancava mai di domandarsi quanto dolore doveva aver provato in quel periodo, ogni giorno, nel suonare al freddo.
La sua passione l’aveva spinto ad andare oltre la sofferenza fisica, a ignorare il pensiero di star ricevendo dell’elemosina dopo aver esposto a degli estranei alcuni dei suoi sentimenti più intimi, reprimendo il suo ben noto orgoglio.
E questo Kurou non poteva accettarlo.
Quando Ranmaru finì, i clienti partirono con rumorosi applausi e diversi fischi d’apprezzamento, ma nessuno di questi arrivò al bassista che in quel momento sembrava con la mente altrove, quasi in uno stato di trance.
Kurou lo guardò con rabbia, stringendo i denti. Non poteva accettarlo perché non capiva.
Non capiva dove avesse trovato le palle per cominciare tutto da zero, con le sue sole forze, e come senza essere nessuno fosse già riuscito a guadagnarsi questi primi riconoscimenti.
Non capiva come nonostante il suo dannatissimo carattere fosse riuscito a mantenere intatto l’affetto che Yume e Satoshi nutrivano per lui fin dall’infanzia – e del quale l’albino non sembrava rendersi minimamente conto.
Tutta quella determinazione, tutti i suoi sforzi lo urtavano da morire, ma ciò che veramente lo infastidiva era sapere perché non riusciva a sopportarlo.
Se su alcuni aspetti Kurou si rivedeva in Ranmaru, gli ultimi appena citati non avevano nulla a che vedere con lui.
Se paragonata alla vita del giovane bassista, quello che Kurou aveva vissuto sembrava essere una cosa nulla, così come il suo amore per l’arte.
E sebbene sapesse quanto questo non fosse vero, non aveva mai fatto nulla di così eclatante per seguire l’unica cosa che pareva dargli delle soddisfazioni: sapeva bene di mancare di spina dorsale anche solo per fronteggiare suo padre.
«Mr. waiter
Kurou si sentì picchiettare sul braccio da un cliente, e quando si voltò verso il suddetto corrugò le sopracciglia con fare alquanto perplesso: che diavolo di problemi aveva quell’omone per indossare degli occhiali da sole di sera e soprattutto in un locale?
«Vorrei avere il conto, grazie.»
Kurou lanciò un ultimo sguardo a Ranmaru che ormai sembrava essersi ripreso, pronto per suonare la prossima canzone, e gli diede le spalle, decidendo di lasciare da parte altri pensieri inutili: gli affollavano la mente a sufficienza quando se ne stava a casa, ci mancava che se li tenesse anche fuori.  
«Arrivo subito.»
Una volta alla cassa, dopo aver preso lo scontrino per l’uomo, Kurou si concesse una veloce occhiata al cellulare, pensieroso. L’altra sera, al karaoke, aveva tirato un po’ troppo la corda, non poteva negarlo.
Digitò velocemente un messaggio e rimise lo smartphone in tasca, sospirando.
 
Da: Kurou [21:22]
Vorrei parlare con te riguardo quello che è successo ieri.
 
Mantenere la facciata del deficiente menefreghista non gli dava comunque il diritto di ferire i sentimenti di qualcuno più fragile di lui.  
Fortunatamente era sveglio abbastanza da capire almeno questo.
 
§§§§
 
[Ore 23:04]
 
 
Reiji infilò stancamente la chiave nella toppa, trascinandosi all’interno del suo appartamento.
Lasciò cadere la borsa a terra e si tolse il cappotto, appendendolo sull’attaccapanni lì all’entrata.
«Casa dolce casa…» disse con un sorrisino amaro: si poteva definire felice a metà, l’idea di essere solo alla fine non lo entusiasmava mai molto.
Era ironico come prima dicesse di voler rimanere per conto suo, e l’attimo dopo sentisse il bisogno di avere qualcuno al proprio fianco.
Aprì la porta della sua stanza e, prima di lasciarsi cadere sul letto, accese la TV, mantenendo il volume basso ma comunque udibile, giusto per avere un sottofondo che gli tenesse compagnia.
Sdraiandosi a pancia in giù affondò il viso nel cuscino, stringendo la federa tra le mani, mentre il comico di un noto programma televisivo se ne uscì con una battuta che fece ridere di gusto il pubblico.
Soffiò piano dal naso nel cambiare posizione del volto, mettendosi a fissare il comodino con uno sguardo assente.
Necessitava di stimoli continui che gli tenessero la mente occupata, per questo era raro che rimanesse chiuso in casa durante uno dei suoi giorni liberi.
Allo stesso tempo, però, stare in mezzo alle persone con cui si circondava diventava veramente insostenibile: era difficile mantenere la solita maschera ventiquattro ore su ventiquattro senza avere la possibilità di confidare a qualcuno il suo vero stato d’animo.
Non si riteneva un falso o un bugiardo quando mentiva e si mostrava apparentemente tranquillo e spensierato, il suo era solo un modo per evitare di far preoccupare gli altri con dei problemi che nessuno di loro sarebbe stato in grado di sostenere insieme a lui o quantomeno capire.
Nemmeno Ryosuke e Van rientravano nelle persone di cui sentiva di potersi fidare a pieno nonostante stesse bene in loro compagnia.
A volte si chiedeva che razza di problema avesse con questo brutto vizio di tenere ogni cosa spiacevole per sé, ma l’origine di quest’abitudine era quasi certo di conoscerla…
«Mmh, pensa ad altro, pensa ad altro…» si disse, rigirandosi per mettersi supino, tirando fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni.
Sebbene fosse stanco morto sapeva che ci avrebbe messo un po’ prima di potersi effettivamente addormentare, quindi l’opzione migliore in quei casi era iniziare a stancarsi gli occhi scorrendo senza un vero e proprio interesse la home di Facebook o qualsiasi altro social.
Si ritrovò a sorridere intenerito quando incontrò tra i post il video di un gatto che se ne stava tranquillo tra le braccia del padrone a godersi diversi grattini con tanto di fusa d’apprezzamento.
L’animale lo portò inevitabilmente a ricordare l’incidente dell’altro ieri, quando Ranmaru aveva praticamente messo a rischio la sua vita pur di proteggere quella del micio, e il suo sorriso non poté che diventare sempre più ampio al pensiero del ragazzo.
«Sei una brava persona. Mi sono bastate poche volte sparse qua e là per capirlo, anche se ciò non toglie che sei davvero troppo impulsivo, Ran-Ran.»
Impulsività, però, che la sera prima non aveva avuto modo di vedere quando l’amico si era rivolto a lui e Ryosuke in quel modo, nonostante Reiji avesse letto del dispiacere nei suoi occhi per la situazione che era venuta a crearsi. Quando gli aveva chiesto se aveva qualcosa da dire, non si era aspettato che prendesse e se ne andasse senza aggiungere altro.
Ammetteva di esserne rimasto dispiaciuto, ma al contempo avrebbe voluto ringraziarlo per averlo coinvolto con quella canzone che aveva sicuramente aiutato a migliorargli l’umore oltre che a incrementare il già vivo interesse nei suoi confronti.
«Peccato che non abbia il tuo numero.»
E che probabilmente non avrebbe mai avuto.
Dubitava del fatto che l’albino avesse ancora intenzione di incontrarlo, gli aveva mandato un chiaro messaggio nell’andarsene in quel modo.
Onestamente se l’avesse rivisto, era certo che sarebbe finito col trovare difficile trattenersi dal parlargli e proporgli un’altra uscita, magari solo loro due soli, questa volta, ma temeva di poter finire completamente nelle sue antipatie se avesse insistito troppo.
Dopo quello che gli aveva fatto passare il giorno prima non aveva più alcun diritto di convincerlo a dargli una seconda chance.
«Bye bye, occasione~» disse amaramente, uscendo dall’applicazione per poi passare ai messaggi, aprendo una chat che ormai da un paio di anni a quella parte era diventata il suo piccolo nonché unico rifugio di sfogo quotidiano.
 
Da: Reiji
[23:26] Ora penso che proverò ad andare a dormire!
[23:26] Preparati a un’altra chiacchierata, per adesso ti auguro ancora la buonanotte~
[23:27] (๑・ω-)~♥”  ♥
 
Rimase a fissare quei messaggi per un po’, scorrendo poi all’indietro quella conversazione che ormai da troppo tempo stava procedendo a senso unico, senza che lui potesse fare realmente qualcosa per cambiare la situazione.
«No, no, devo dormire.» si disse, massaggiandosi le palpebre con pollice e indice.
Alla fine si decise a mettere da parte il cellulare una volta installata la sveglia per la mattina dopo.
Spense la luce, si coprì fin sopra le spalle e si premurò di lasciare la TV accesa, avvertendo un briciolo di sicurezza in più nel non essere in completo silenzio.
«Ci vediamo domani, Ai-Ai…» mormorò, spostando dietro l’orecchio una ciocca di capelli che gli era finita sul viso, e solo dopo essere rimasto a fissare per un minuto buono un punto indefinito nella penombra, arrivò finalmente a chiudere gli occhi, pregando l’insonnia di non venirgli a fare visita.
 
§§§§
 
[Ore 23:52]
 
«Dannatissima porta.» sibilò Ranmaru quando riuscì finalmente ad entrare nel suo appartamento dopo aver quasi rischiato di distruggere la maniglia.
Sbatté la porta alle sue spalle e dopo essersi tolto le scarpe si avviò verso il divano, appoggiandoci la custodia con all’interno lo strumento.
Subito dopo si diresse in bagno per potersi togliere la lente a contatto e struccarsi gli occhi, sciacquandosi infine il viso per darsi una breve rinfrescata.
Quando girò la manopola per chiudere l’acqua, Ranmaru rimase a fissare il suo riflesso allo specchio con il volto ancora bagnato. Posò il suo sguardo sulle occhiaie scure e scavate, chiedendosi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta in cui era riuscito a dormire come una persona normale. Era naturale che Yume gli avesse fatto quella domanda, persino un imbecille sarebbe arrivato a fare due più due nel vederlo in quello stato.
«Posso ancora farcela.» si disse, aggrappandosi con le mani ai lati del lavandino, tanto da arrivare a sbiancare le nocche e i polpastrelli delle dita. «Devo farcela.» digrignò i denti, tirando poi una forte manata sulla ceramica bianca del lavandino, imprecando un merda quando il dolore, dalla mano, si propagò lungo tutto il braccio.
«Merda, merda, merda!» urlò con un tono sempre più alto, sentendo poi dei colpi da parte del vicino provenire da una delle pareti della sala, ricordandosi solo in quel momento quanto fossero sottili.
Si spostò dal lavandino e si mise con la schiena premuta contro il muro del bagno, lasciandosi scivolare fino a terra, dove si sedette con le gambe distese, sollevando poi lo sguardo sulla luce emanata dalla lampadina che a volte aveva il brutto vizio di andare a intermittenza, un po’ come la sua sanità mentale.
Per quanto volesse rifiutarsi di ammetterlo a se stesso, in quel periodo bastava veramente poco per farlo vacillare rispetto ai primi tempi, quando ancora molte cose riusciva a ignorarle e a passarci su più facilmente.
Stava diventando debole, debole come lo era diventato suo padre. A che serviva dire che non avrebbe ceduto, quando la verità era palesemente un’altra?
«Merda…» disse ancora, questa volta piano, portando una mano sul viso per massaggiarsi le palpebre con le dita.
Rimase con gli occhi chiusi, concentrandosi forse troppo su quel nodo che aveva in gola.
La sua cassa toracica continuava ad alzarsi e abbassarsi in modo veloce e irregolare, percepiva l’aria entrare nei suoi polmoni ma senza riempirli completamente. Sentiva il bisogno di ricevere più ossigeno, cercava di rendere più profondi i suoi respiri, ma nemmeno quello pareva essergli utile: oltre a quell’enorme nodo che sembrava bloccargli le vie respiratorie, c’era anche un forte peso che avvertiva nel petto, qualcosa da cui non era ancora riuscito a liberarsi dalla morte di suo padre.
Il battito del suo cuore divenne talmente forte da rimbombargli nelle orecchie, e solo quando percepì una sensazione simile a quella dello svenimento, colpì con un pugno il pavimento del bagno, riaprendo immediatamente gli occhi.
Si portò una mano sulla spalla sinistra e iniziò a massaggiarsela lentamente, toccando determinati punti che sapeva lo avrebbero portato a rilassarsi. Poi sospirò, facendosi forza per rimettersi in piedi.
Il giorno in cui aveva saputo del suicidio del padre tramite le notizie dei giornali era ancora ben impresso nella sua mente.
Quando si era ripresentato nella casa che appena un anno prima aveva lasciato per inseguire i propri sogni, il mondo gli era completamente crollato addosso nel momento in cui la madre gli aveva raccontato nel dettaglio in che modo i Kurosaki erano finiti per accumulare tutti quei debiti.
Ranmaru si lasciò cadere sdraiato sul divano, appoggiando la nuca sul bracciolo.
Sentire il nome di Hariya aveva scatenato in lui una moltitudine così ampia di emozioni che invece di affrontare aveva preferito archiviare, o meglio, congelare dentro di lui.
L’uomo che credeva gli avesse sempre rivolto dei sorrisi sinceri in mezzo a quell’ambiente pieno di falsi aristocratici pronti a pensare solo al loro interesse, era stato Hariya.
L’uomo che gli aveva fatto scoprire il mondo della musica con occhi diversi, alimentando in lui una passione nuova, che aveva infiammato il suo giovane quanto ingenuo animo, era stato Hariya.
Quell’uomo che per un lungo periodo era stato il suo confidente più intimo, alla fine si era rivelato un lurido bastardo che non aveva solo tradito la fiducia di suo padre, portandolo con le spalle al muro senza alcuna via d’uscita, ma aveva anche calpestato senza alcun tipo di pietà quella stessa fiducia che per anni Ranmaru aveva riposto in lui.
Da quel giorno la sua mente non aveva smesso un attimo di tormentarlo con numerosi “se”.
Se non avesse lasciato casa per inseguire il suo bisogno di fare musica, se si fosse informato prima sul perché i Kurosaki fossero finiti col rischiare tutto a un tratto la bancarotta, se solo avesse lavorato fianco a fianco con suo padre per dargli anche solo un briciolo dell’aiuto che sarebbe stato capace di offrirgli, forse la situazione in cui versavano lui, sua madre e sua sorella sarebbe stata totalmente diversa.
Se non fosse stato così sciocco da cadere trappola di quella gentilezza, di quella schifosa disponibilità ad aiutarlo a scegliere il suo primo basso, a dargli delle lezioni su come poterlo suonare al meglio…
A quel pensiero un ringhio sfuggì dalla gola di Ranmaru.
Alla fine dei conti la colpa era sua. Solamente sua.
Il senso di nausea che aveva percepito qualche ora fa mentre era sul palco del Parsley’s tornò a infastidirlo di nuovo.
Parlava di musica come sua unica salvezza, ma se ripensava a come era arrivato a provare quel bisogno estremo di aggrapparsi a qualcosa che gli permettesse di mostrarsi per quello che era, aveva come unica tentazione quella di scaraventare lo strumento contro il muro.
Se anche la musica, più che liberarlo da quei pesi, si fosse trasformata in qualcosa da eliminare dalla sua vita per non dover più ricordare grazie a chi era stato in grado di scoprire quel mondo rivoluzionario, così in contrasto a quello a cui era stato abituato per buona parte della sua infanzia…
 
Che senso avrebbe continuare a vivere?
 
Ranmaru appoggiò l’avambraccio sugli occhi e strinse i denti.
Già, quella voce aveva ragione.
«Nessuno.»







Link per Anthem
https://www.youtube.com/watch?v=YtdeD_vSsaA
Traduzione del testo: https://misachanjpop.wordpress.com/2017/06/29/anthem-oldcodex/
 
  
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