Titolo: Somebody [to love]
Genere: Drammatico, romantico,
introspettivo.
Rating: Arancione.
Personaggi e combinazione: Sirius
Black, Remus Lupin
[Sirius/Remus]
Avvertimenti: One shot, what
if…?, shonen ai.
Summary: «Meglio avere amato
e perso che non avere amato mai».
Che cosa stupida.
Desclaimers: La canzone1
è Somebody to love ©Queen.
I personaggi sono ©JK Rowling. Non sono usati a
scopo di lucro, ma per
semplice divertimento.
Note: L’aforisma da me scelto
è “Il sesso allenta le tensione,
l’amore le causa”. Spero di averlo
interpretato bene, anche ha un ruolo un
po’ nascosto.
La fiction non è un granché e me ne
scuso, ma sono fuori fase mi sa. XD
Spero comunque che vi emozioni almeno un po’.
Buona lettura.
Karyon
Somebody
[to
love]
Meglio
avere amato e perso che non avere amato mai.
Che cosa stupida.
Sirius
si alzò dalla solita ammuffita poltrona del
salone e lanciò un vacuo sorriso all’ennesima
persona – conosciuta o
sconosciuta – che attraversava la soglia di quella porta
nera. Da un paio di
settimane Grimmauld Place era la sede ufficiale dell’Ordine
della Fenice
e, da altrettante settimane, quel luogo era diventato ancor meno suo di
quanto
non lo fosse stato in passato.
L’anima estranea che impregnava quelle mura sospirava,
soffocata dalla coltre
di risate argentine e saluti amichevoli. Per quanti sforzi i Weasley,
Silente e
l’intero Ordine potessero fare, quella casa lasciava
l’impalpabile odore acre
dell’abbandono e del dolore.
E per quanti sforzi lui facesse nel ripulirsi del sangue che lo
pervadeva,
quella casa era in lui, era la parte di se stesso
che ripudiava anche
nei suoi infimi pensieri.
Causalmente gettò un’occhiata
all’esterno - dove la cupa piazzetta era
totalmente immersa nel silenzio -, e appoggiò il palmo alla
parete, osservando
quei vetri sporchi e sbiaditi come se fossero importanti.
«Verrà, Sirius. Alla fine ha accettato anche lui,
ma non avevo alcun dubbio…»
«Non sa di cosa parla» scattò, senza
girarsi a guardare. Se lo avesse fissato
in quegli occhi azzurri, si sarebbe scusato quasi inconsciamente; anche
perché
non era certo colpa sua.
«Oh, ovviamente è molto probabile che io non
sappia di cosa parli, mi capita
spesso!» Esclamò il Preside di Hogwarts, ridendo.
Sirius si girò a squadrarlo, inarcando un sopracciglio: no,
non capitava
affatto che si sbagliasse.
Naturalmente aveva finito per guardarlo e – altrettanto
naturalmente – si
scusò.
«Non scusarti, l’impazienza rende stupidi alle
volte» replicò Silente,
fissandolo con quello sguardo che sembrava trafiggerlo, potente come
ogni
volta.
Sirius sospirò «Io lo sono quasi sempre»
rivelò, ma anche quello il vecchio
Preside già lo immaginava.
«Oh, non è detto che sia sempre un
male… ci riporta al passato, non credi?»
Sirius lo guardò, quasi senza vederlo: il passato. Il
suo passato era
pressoché inscindibile dalla stupidità.
«Già» soffiò alla fine,
mentre vagava oltre le sue spalle foderate dalla solita
tunica stravagante.
Ed eccolo lì, ce l’aveva fatta.
Era invecchiato ancora di più in quell’anno che
non si erano visti, ed era
dimagrito; molto, troppo. Notò nuove
striature tra i folti capelli
castani e nuovi solchi sul viso; lo fissò come se potesse
attraversare lo
strato di mantello nero, i vestiti sgualciti e toccargli la pelle.
Pelle che –
lo avrebbe scommesso – era ancora più segnata.
Remus scambiò qualche convenevole con Molly Weasley,
attraversò silenziosamente
l’atrio con il ritratto della terrificante Signora Black e si
girò verso di
loro, proiettando un debole sorriso sincero.
Silente annuì «Remus, è bello
rivederti».
«Preside…» mormorò lui,
percorrendo il salotto con due grandi falcate e
stringendogli calorosamente la mano.
«Molly, che ne diresti di una tazza di tè per
tutti i nostri ospiti?» Domandò
Silente con elegante casualità, prima di allontanarsi con la
donna verso la
cucina.
In pochi attimi, il restante dei membri si riversò nella
cucina, svuotando la
Sala come l’acqua di un fiume. Rimasero soli.
«Sei venuto» mugugnò Sirius, fissandolo.
«Temevi non lo facessi?» Domandò
innocuamente Remus, mentre si sfilava il
mantello.
L'altro esitò, cercando di trattenersi «Sei in
ritardo mostruoso» fece poi,
scorbutico, e Remus sorrise «Le metropolitane babbane sanno
essere molto
moleste, sai…»
«Potevi avvisarmi» lo interruppe lui, incrociando
le braccia.
«Sì, con un bel gufo facile da intercettare, o
magari potevo venire
direttamente in Metropolvere e andare a fare un salutino al Ministro
della
Magia, già che c’ero…»
«Non eri tu che insistevi tanto con le cose babbane? Esistono
i postivi,
immagino…»
«Postini, Sirius... e
comunque avrei fatto prima io a venire tre
volte che un postino a consegnarti una lettera!»
Ribatté Remus, sorpreso che
avesse addirittura invocato l’aiuto di una diavoleria
babbana.
Sirius sospirò, girandosi nuovamente a guardare alla
finestra: Dedalux sembrò
toccare leggermente il cappello in segno di saluto.
Remus aspettò qualche secondo, poi sospirò
«Sirius, cos’hai? A parte la casa
invasa dall’Ordine…»
«Non me ne frega un Merlino di niente della casa,
l’ho messa a disposizione
proprio per questo» sbottò, mentre gli occhi cupi
si allacciavano ai suoi
chiari. «Ero preoccupato».
L’espressione accigliata di Remus si sciolse in un sorriso.
«Non guardarmi in quel modo! L’ultima volta che ti
ho visto eravamo in quella
maledetta Stamberga con Peter!»
L’altro finse di non aver sentito la prima parte della frase
e annuì «Lo so, ma
nel frattempo ci siamo scritti… almeno dieci lettere al
giorno. E sarebbe stato
ancora di più se sapessi usare un telefono».
Sirius sbuffò «Non è la stessa cosa,
Remus! Io… temevo di non vederti più».
«Ma ora sono qui! Facciamo entrambi parte
dell’Ordine e questa casa è la nostra
base, come credi sia solo lontanamente possibile non
incontrarci?» Replicò,
rassicurante come al solito.
Il bruno si morse il labbro e sospirò «Sono uno
stupido».
«Oh, lo so. Ma sono disposto a sopportarti per
altri… mmh, facciamo dieci anni»
confermò, sorridendo.
«Solo?» Sibilò
Sirius, stringendo gli occhi cinerei.
«E dov’è finito tutto il tuo pessimismo
di bravo Black diseredato?» Remus lo
fissò, mentre lo sguardo gli si riempiva di un fremito;
impercettibile per
tutti, ma non per lui che poteva contare le pagliuzze dorate in quelle
iridi
chiare.
Sirius provò a sorridere «A volte
anch’io torno a essere l’allegro cagnaccio
che ero, che credi?»
Peccato che nulla si estendesse allo sguardo inquieto; se gli occhi
erano lo
specchio dell’anima, loro due erano in grossi, grossi guai.
«Credevo non ne fossi più capace»
replicò, con quella che aveva il sapore di
una sentenza.
Dopotutto lui lo sapeva, sapeva che non sarebbe
ritornato.
Non quello di una volta, che immancabilmente si ficcava nei problemi
più
assurdi, capace di cancellare ogni difficoltà con una
semplice battuta. Il
Sirius irresponsabile, irruente, fedele e terribilmente cocciuto; il
dannato
bambino che non conosceva le mezze misure.
Il Sirius che, in una sola notte, aveva annullato ogni
tensione con un
semplice tocco di dita.
Quella notte di tanti anni prima, si era trasfigurato in un animale di
passione
e tenerezza, trascinandolo in salvo; leccando ogni ferita che il suo
corpo e la
sua anima erano arrivati a sostenere, senza spezzarsi ancora una volta.
Amandosi, si erano denudati di un passato troppo pesante da portare
ancora,
troppo fragile da abbandonare alla deriva di un futuro anche allora
incerto. Le
sue parole, sussurrate in un vortice di verità e dolore,
così semplici e
dirette, avevano penetrato ogni intimo anfratto del suo essere,
lasciandolo
spossato sia nella mente sia nel fisico.
Quella notte, era diventato lui.
Per un solo istante, avevano fuso le loro essenze, come mai sarebbe
più
accaduto. Nella loro sola e unica liberazione, Sirius gli aveva aperto
una
porta sul mondo di serenità e pace che mai avrebbe
immaginato.
E quando il mondo entrò a giocare la sua partita,
annientando ciò che avevano
costruito, sradicando i loro punti di riferimento, distruggendo la
realtà in
cui – tanto faticosamente – avevano cercato di
vivere, si era svegliato troppo
tardi.
Si era svegliato troppo tardi e James e Lily erano morti e
l’essenza di Sirius era
scivolata via, abbandonata a se stessa.
Neanche se n’era accorto, impegnato com’era a respirare.
Credeva che viaggiassero insieme, sostenendo lo stesso fardello, ma non
era
così; non aveva capito che il suo dolore era più
e più volte troppo grande e troppo
profondo, perché il suo amore potesse solo lontanamente
sperare di salvarlo.
Non gli era bastato.
E quando scoprirono che il loro calore non bastava a riscaldarli e che
la sola
presenza non riempiva alcun vuoto, semplicemente si erano allontanati.
«Andiamo a prendere il tè?»
Domandò Remus, battendo le palpebre. Sirius non
aveva mosso un muscolo, non aveva smesso di fissarlo
«Dov’eri?»
«Quando?» Replicò lui, perplesso.
«Qualche istante fa, dov’eri andato?»
Chiese ancora, curioso.
Alla fine, nonostante tutta la razionalità del mondo, Remus
adorava
“viaggiare”: avvolgere e rimandare il mondo,
all’infinito.
«Non dire scemenze, ero qui» mentì
Remus, muovendosi verso la cucina.
Sirius sospirò, poi lo afferrò per un polso
«Torneresti indietro, se potessi?»
Gli chiese, con una nota quasi urgente nella voce.
Remus ci pensò, ci pensò sul serio, ma non
trovò una risposta assoluta.
Tornare indietro… a cosa sarebbe servito? A rivivere
nuovamente la propria
impotenza di fronte ad un mostro impalpabile, ma tanto tenace da
trainarlo
verso il basso. A strappargli via qualcuno che non aveva avuto il
coraggio di
affrontarlo se non per se stesso, almeno per il ricordo.
«No, non tornerei indietro» gli rispose, senza
guardarlo.
«Stai mentendo» replicò Sirius, due
parole che gli bruciarono la pelle quanto
il suo sguardo.
Quella maledetta tensione che gli s’insinuava tra i vestiti,
appiccicosa come
una membrana invisibile. Remus si girò con un cipiglio
«Cosa vuoi che ti dica?»
«Qualcosa!» Sbottò
Sirius, lasciandolo. «Non abbiamo mai più parlato,
dannazione! Noi potremmo…»
Remus lanciò un’occhiata alla porta chiusa e lo
fissò «Cosa? Noi potremmo cosa?»
Il bruno si limitò a guardarlo e Remus sospirò
«L’ultima volta che ci siamo
visti, eravamo nella casa nascosta di Godric’s Hollow, a
pensare chi tra noi
potesse essere la spia di Voldemort».
«È questo il problema? Il fatto che io ti abbia
accusato di essere una spia?
Eravamo tutti sotto accusa, tutti»
replicò, furioso.
«Non m’interessa niente che tu mi abbia accusato
Sirius! Era più che normale,
visto che eravamo gli unici a sapere del Fidelius!»
«Allora, qual è stato il problema? Parlamene,
Remus. Non posso leggerti il
pensiero!»
«Un giorno ci saresti riuscito» gli fece notare
l’altro, appoggiandosi a una
poltrona.
Sirius si passò una mano tra i capelli lunghi «Ora
è diverso».
«Già, ora è diverso» convenne
anche lui.
Il silenzio riempì lo spazio tra loro come un muro di
piombo, mentre
continuavano a guardarsi da ere diverse. Nonostante fossero trascorsi
più di
quattordici anni dalla morte di James e Lily, dal tradimento, da
Halloween, da
Voldemort, i suoi occhi erano gli stessi: occhi pieni di rancore,
malinconia e
inquietudine; ancorati al passato, sebbene guardassero il presente.
«Da quando sei andato avanti?» Buttò
lì Sirius, tanto acido da farlo
sussultare. Il passato faceva ancora troppo male, ma viverlo da soli
era
infinitamente più difficile.
«Sei tu che non mi hai permesso di aiutarti»
replicò Remus, come se ogni parola
costasse fatica.
«Io… volevo. Forse non hai capito» ma
non era vero. Quel dolore era suo, suo e
di nessun altro; così come la colpa di aver scelto Peter e
non Remus: di essersi
fidato di quel verme strisciante e non del ragazzo che,
più di chiunque
altro, lo aveva cambiato.
«Già, forse è
così» replicò
lui, allontanandosi.
[Got
no feel, I got no rhythm
I just keep losing my beat (losing and losing)
I'm ok, I'm alright
(he’s alright, he’s alright)
I ain't gonna face no defeat
I just gotta get out of this prison cell
One day (someday) I'm gonna be free…]
Non ho più sensibilità, non ho ritmo
Continuo solo a perdere colpi (perdere e perdere)
Sto bene, sono a posto
Non subirò più sconfitte
Devo solo uscire da questa cella
Un giorno sarò libero… 1
Io
credo che tu stia sognando.
Ne sono quasi sicuro.
Apri gli occhi.
Sirius
aprì gli occhi, guardandosi intorno.
Quella era Hogwarts: il Castello ai tempi dei Malandrini, di James e
Peter e di
un Voldemort come un’ombra inavvertibile al di là
delle spesse mura.
E di lui e Remus in quella dannata stanza, quella maledetta notte.
«Grazie, Sirius…»
«Oh Merlino, Remus! Grazie di cosa?»
Sirius si girò a fissare l’altro, con un
sopracciglio inarcato e il maglione
scuro ancora stretto fra le mani tremanti.
Remus arrossì, abbassando il capo «Beh,
per… questo…»
Il piccolo letto scarlatto del dormitorio rotondo
scricchiolò quando il bruno
vi saltò sopra, con un ghigno enorme sul viso
«Palla di pelo che non sei altro,
non bisogna ringraziare per queste cose!» Sbottò,
in realtà per nascondere
l’imbarazzo di quello sguardo così genuino.
«Sì, ma…» provò a
protestare un impacciato Remus, mordendosi le labbra.
Sirius si avvicinò tanto da sfiorargli il naso
«È stato un piacere» gli
sussurrò sul viso, prima di sfiorargli le labbra con un
casto ma dolce bacio.
Come se tutto quello che era appena accaduto, fosse stato solo
un’illusione
ardita, Remus arrossì più intensamente,
spostandosi all’indietro
«Scusa…»
balbettò, allo sguardo accigliato dell’altro.
Il bruno sbuffò, rifilandogli un buffetto in testa
«Ma la pianti con tutte
queste cerimonie? Sei sempre il solito vecchiaccio!» Lo
stuzzicò per un attimo,
poi lo tirò a se per la camicia «Non avrai
intenzione di dimenticarti presto di
tutto questo, mh?»
D’accordo, la sua vicinanza gli mandava fuori quadro la
bussola, allora? Non lo
sopportava. Remus alzò gli occhi al cielo, accompagnando il
gesto da una
smorfia, ma le mani agonizzavano sul petto nudo dell’altro,
senza riuscire
minimamente a spostarlo. E come se non bastasse, Sirius reagiva
maledettamente
bene alle carezze.
«Mmh, abbiamo appurato che questo aiuta a sciogliere
le tensioni?»
Domandò Sirius, mentre già sentiva i polpastrelli
delle sue mani sfiorargli
timorosamente la pelle.
«Sì… no…»
replicò Remus, mentre la mente vagava per altri lidi.
«Forse. Sono
confuso» ammise, sotto lo sguardo divertito
dell’amico.
«Forse dovremmo riprovare… sai, per esserne
sicuri…» asserì Sirius, lasciando
scivolare le mani per le braccia magre. L’altro
annuì, non riuscendo a fare
altro che spostare le carezze verso le spalle nivee.
Non riuscì a non reprimere uno scatto d’ira,
quando gli occhi si aprirono sul
soffitto cadente e polveroso della sua camera a Grimmauld Place.
Sospirando
pesantemente, Sirius si girò ad avvinghiare la sveglia
magica regalatagli da
James una vita prima.
Due e diciassette. Di notte.
La sveglia volò a rompersi contro la parete ammuffita,
seguita da un ringhio di
frustrazione: pochi mesi in quella casa e già cominciava a
dare i numeri.
Uscì in corridoio quasi in punta di piedi, sebbene sapesse
che quel piano era
totalmente deserto, e si avviò per le scale il
più silenziosamente possibile,
nonostante gli scalini cigolassero ad ogni passo. L’atrio era
immerso nella
quiete ma d’altronde, oltre ad alcuni Weasley e a Remus,
tutti i membri
dell’Ordine erano andati via.
Raggiunse la cucina, riuscendo nell’impresa di non svegliare
il quadro di sua
madre, e quasi prese un infarto alla vista di un’ombra che si
muoveva ai
fornelli.
«Chi c’è?» Sbottò,
più seccato che altro.
Il viso di Remus si rischiarò alla luce della bacchetta, poi
il fuoco si accese
sotto al bollitore.
«Neanche tu riesci a dormire?» Gli
domandò, sedendosi.
«Incubi» borbottò lui, accasciandosi
sulla sedia di fronte.
L’altro lo fissò per qualche istante, poi si
passò le mani sul viso, sospirando
«Sai, credo che dovrei scusarmi».
«No che non devi» ribatté Sirius,
alzando la testa.
«E che sono molto nervoso, in questo
periodo…» continuò Remus, come se
niente
lo avesse interrotto.
«Lo siamo tutti» asserì il bruno,
alzandosi al fischio del bollitore in rame.
Remus negò col capo, sorridendo col suo sorriso che
nascondeva sempre tutto
«No, non tutti per lo stesso motivo».
Sirius posò il bollitore e appoggiò la schiena al
mobile, incrociando le
braccia «Hai ragione. Il mio è questa casa, il
tuo?»
«Oh, anche il mio!»
Si guardarono per un istante, scambiandosi un sorriso, poi Remus si
alzò,
avvicinandosi tanto da fargli perdere un battito. Ma era solo per
quello
stupido bollitore che lui aveva già dimenticato; prese due
tazze dal ripiano e
le riempì, porgendogliene una «Tu sicuramente
odierai a stare rinchiuso come…
un cane nella cuccia, vero?» Fece, trattenendo la tazza
più del necessario.
Sirius lo fissò diritto negli occhi
«Già… ma non riesco a immaginare il
motivo
per cui tu possa odiarla, a parte le orde di Doxy e la muffa,
s’intende»
replicò, mentre la voce si abbassava di un tono. Qualche
secondo di troppo e
Remus dovette fare marcia indietro, tornando al sicuro sulla sedia a
mezzo
metro da lui «Beh…» cominciò,
schiarendosi la gola «… diciamo che è
un problema
logistico».
«Del tipo?» Fece curioso Sirius, tornando a sedersi
di fronte a lui. Remus non
sembrava tanto entusiasta di spiegargli il suo punto di vista; anzi,
per la
precisione evitò proprio il suo sguardo.
«Cosa ti passa per la testa?»
«Io sono stato tra quelli a rifiutare questa casa, come
base» ammise
velocemente, quasi per paura di perdere coraggio. Sapeva quanto Sirius
odiasse
essere tagliato fuori, soprattutto dal momento che non poteva spostarsi
da
quell’abitazione; dal momento in cui era stato condannato
senza processo per la
morte di James e Lily, aveva agognato l’azione. Anche
se, ne era sicuro,
lui cercava solo un modo, un modo per non pensare.
«Perché?» Gli domandò. Una
sola nota gelida.
«Non pensavo fosse giusto usare un luogo così
malvisto dalla maggior parte dei
membri dell’Ordine, e comunque scomoda o poco curata come
ques-» cominciò,
drizzando il capo a Sirius che si alzava.
«Capisco…» mormorò lui,
stringendo la tazza di porcellana nelle mani nivee.
Remus sospirò, abbassando lo sguardo a fissare quella
superficie ambrata: tutte
bugie. A lui non fregava niente che la casa fosse stata dei Black o che
fosse
sporca e polverosa né che fosse sorvegliata dal quel vecchio
elfo assetato di
sangue.
Merlino, era lui. Lui era il problema.
«Da quando t’interessano le questioni di sangue?
Questa casa è mia, l’ho
ereditata io e, dal momento che io non appartengo ai Black da ben
quindici
anni, non vedo quale sia il problema» replicò,
gelido come non lo era mai
stato.
Remus serrò per un attimo gli occhi, poi si alzò,
la sedia che scorreva sul
pavimento duro a sottolineare il silenzio tra loro.
«Questo è quello che penso»
mormorò, ormai prosciugato dalle stesse falsità
che
non gli davano scampo.
Sirius lo conosceva bene, talmente bene da leggergli il pensiero senza
alcun
bisogno di Legilimanzia, tuttavia la voce gli tremava. Era furioso.
«No. Questo è quello che vuoi
farmi credere» gli intimò, trattenendo a
stento la collera.
Remus riuscì persino a fissarlo negli occhi, quando ebbe il
coraggio di
sussurrare «Sei tu che vivi in una specie di sogno a occhi
aperti. Cresci una
buona volta».
Sirius fece un passo indietro, come schiaffeggiato, poi lo
guardò con quello
sguardo cupo che tanto odiava e amava al contempo «Hai
ragione. Dopotutto le
persone cambiano. Perché non dovrebbero i
sentimenti?» Mormorò, allontanandosi
verso la porta.
Il tempo sembrava dilatarsi all’infinito, così il
momento della sua scomparsa
si allontanava; Remus sembrò avere mille e mille anni per
decidere e una sola
occasione per mutare il corso del tempo, ma non ce la fece.
Ciò che lo legava a
Sirius era talmente inafferrabile e impalpabile da sembrare illusorio,
se si
riusciva ad avere gli occhi aperti. Così, se la loro storia
viveva e cresceva
nei sogni, la realtà richiedeva qualcos’altro. Il
mondo esigeva un sacrificio
ben diverso, che strappava entrambi dal passato.
Sirius viveva nel passato, era il
passato. Lui, lui avrebbe
voluto seguirlo, avrebbe voluto lambirlo e sfiorarlo come un tempo, ma
non
poteva, non ci riusciva.
Un tempo, Sirius era riuscito a lasciarlo fuori dal dolore che
pervadeva
entrambi fino alle ossa, che li percuoteva fin dentro
l’anima. Ora reclamava
qualcuno, qualcuno che potesse aiutarlo. Lui.
Avrebbe potuto farlo, come lui lo aveva fatto quella notte,
strappandolo alle
preoccupazioni e alla sofferenza. Avrebbe potuto essere il suo
sostegno, il suo
legame con il passato.
Ma no, non gli bastava.