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Autore: Piperilla    21/06/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Il dieci di maggio iniziò cupo come l'umore di Vera: il cielo era velato da nuvole scure che filtravano la luce calda del sole rendendola grigia e smorta, e il meteo prevedeva temporali.
   La conversazione avuta con Fabiola la sera precedente perseguitò Vera dal momento in cui si alzò e per tutto il tempo che trascorse al lavoro: aver ammesso ad alta voce i tentativi di non pensare all'amica persa un anno prima aveva risvegliato in lei un senso di colpa più profondo del solito, che si intensificava ogni minuto che passava. Vera si vergognava di se stessa: che diritto aveva non solo di essere viva, ma anche felice? Che diritto aveva di non soffrire, evitando di pensare a Noemi e a quanto la sua assenza fosse così feroce da aver assunto una dimensione quasi fisica, bruciando all'interno del suo corpo, simile a veleno? Che amica era – che persona era – se per respirare normalmente doveva evitare i ricordi di quella che ancora considerava una sorella?
   In ufficio non combinò granché, e alle undici fu felice di salutare il professor Maesani: forse, credeva, fuori da quelle quattro mura le sarebbe stato più facile concentrarsi su altro e tenere così a bada il grumo viscido e pesante che le si agitava senza sosta nello stomaco. Il viaggio dalla facoltà a Settecamini fu tedioso, ma tranquillizzante: concentrarsi unicamente sul traffico le permise di nuovo di non pensare, ma stavolta senza sentirsi in colpa.
   Quando arrivò di fronte alla chiesa vicino casa, a mezzogiorno meno dieci, sul piazzale c'erano già parecchie persone: erano riunite in gruppuscoli e parlavano piano, e qualcuno si spostava da un capannello all'altro per salutare qualche conoscente appena arrivato.
   Vera varcò il cancello che delimitava la proprietà e scrutò la gente che aveva di fronte: Eugenio e Fabiola erano vicini all'ingresso della chiesa insieme ai signori Massari – i genitori di Giulia – mentre la sua migliore amica e Tiziano si erano sistemati accanto a un'aiuola rotonda e parlavano con alcuni vecchi compagni di classe della prima.
   L'ex ginnasta chiuse gli occhi e prese un respiro profondo per prepararsi ad affrontare i presenti; proprio in quel momento, però, sentì qualcuno avvicinarsi a lei tanto da sfiorarle il braccio col proprio.
   Alzò la testa e vide l'ultima persona che si sarebbe aspettata di trovare lì.
   «Valenti?» esclamò Vera, sorpresa. «Che ci fai qui?»
   «Sostegno morale» rispose lui. Lasciò vagare lo sguardo sulle persone che indugiavano vicino alle porte della chiesa. «Ho pensato che qualcuno dovesse essere qui solo per te».
   La ragazza inarcò le sopracciglia. «Sei andato a ficcanasare in giro un'altra volta, per sapere che oggi c'era la... la messa di commemorazione per Noemi?»
   Vittorio si grattò la nuca. «Ho visto le epigrafi quando sono andato al parco la settimana scorsa» ammise.
   «Okay, ha senso» concesse lei. «Ma comunque, tu non... non dovresti essere al lavoro?»
   Vittorio scrollò le spalle. «Mi sono fatto cambiare di turno da Luciano».
   «Ti sei fatto...» ripeté Vera con qualcosa di simile alla meraviglia. Tacque per qualche momento. «Sai, Valenti, tu sei davvero...»
   «... strano?» concluse l'uomo per lei.
   Vera gli rivolse un sorriso stentato ma sincero. «Buono».
   Vittorio si appoggiò un po' di più a lei e la spinse appena. «È la prima volta che mi fai un complimento vero quando invece potresti insultarmi. Mi devo preoccupare?» scherzò.
   «Nah» rispose piano la ragazza, gli angoli della bocca lievemente sollevati. «È stato solo un episodio: non farci l'abitudine».
   Il carabiniere sorrise per un momento, poi tornò serio e accennò con la testa alla chiesa.    «Credo sia ora di entrare» mormorò.
   Vera fece un cenno affermativo e sollevò lo sguardo appena in tempo per vedere sua madre scrutarla con attenzione; Fabiola fece per andare verso di lei, ma Vera scosse lentamente la testa e lasciò che Vittorio prendesse la sua mano e se la sistemasse nell'incavo del gomito. Fabiola annuì e tornò da Eugenio; la coppia, insieme ai signori Massari, si avviò all'interno della chiesa seguendo la famiglia di Noemi, presto imitati dagli altri presenti.
   Tiziano si avvicinò rapido a Vera.
   «Vè?» mormorò mentre rivolgeva un frettoloso cenno di saluto a Vittorio. «Stai bene?»
   «Io...». Vera sentì la propria gola chiudersi e si sforzò di annuire mentre tentava di recuperare l'uso della parola. «Sì. Sì, sto bene». Scoccò una rapida occhiata a Giulia: era pallida e si guardava intorno con aria smarrita. «Torna da Giulia. Io non sono sola» lo spronò, dando, al contempo, una lieve strizzata al braccio di Vittorio.
   Tiziano le scoccò un rapido bacio sulla fronte e tornò da sua moglie a passi veloci. Vera alzò lo sguardo su Vittorio e gli si avvicinò tanto da fargli conficcare il suo stesso gomito tra le costole, ma lui non ci badò: si limitò a guardarla, aspettando che fosse lei a decidere di muoversi.
   Vera fece un passo in avanti con gambe incerte, e il carabiniere la seguì prontamente; procedettero lenti, lasciandosi sfilare dagli ultimi ritardatari, e Vittorio poteva sentire la riluttanza della venticinquenne nel tremito della mano appoggiata al suo braccio, e nella cadenza breve e spezzata del suo respiro.
   Appena varcarono la porta la ragazza si bloccò, incapace di andare avanti. Vittorio le rivolse uno sguardo preoccupato, ma Tiziano venne in suo aiuto: da un banco nella terza fila agitò con discrezione la mano, accennando ai posti liberi al suo fianco.
   «Vera, avanti» le mormorò all'orecchio il carabiniere. «Il tuo amico ci sta aspettando, ti ha tenuto il posto accanto a Giulia. Puoi arrivare fin lì, lo so che puoi arrivarci...»
   Vera prese un respiro tremante e raddrizzò le spalle; Vittorio annuì incoraggiante al debole tentativo della ragazza di mostrarsi coraggiosa e la guidò da Tiziano e Giulia. Vera zoppicò verso l'amica e quasi inciampò nell'inginocchiatoio; la mano di Vittorio, avvolta saldamente intorno al suo bicipite, la tenne in piedi, e Giulia le accarezzò i capelli non appena furono vicine.
   L'ex ginnasta posò una mano sulla guancia dell'altra, gli occhi fissi nei suoi. «Ciao» mormorò, senza fiato.
   Giulia le percorse di nuovo la lunghezza dei capelli con le dita. «Ciao» rispose debolmente.
   In quel momento iniziò il canto d'ingresso e tutti tacquero. Il tempo trascorse con lentezza quasi agonizzante, e la mente di Vera si perse nelle varie fasi della messa; fu solo alle prime parole dell'omelia che la ragazza si riscosse.
   «La nostra è una piccola parrocchia» esordì il sacerdote, «e oggi quasi tutti i presenti sono intervenuti per una messa di suffragio; per questo, sebbene non sia d'uso farlo, ho deciso di spendere qualche parola in più rispetto alla sola intercessione». L'uomo tacque per un momento: i suoi occhi vagarono sui banchi affollati, soffermandosi in particolare su Giacomo e Carmela, i genitori di Noemi, e sul loro secondogenito Nicola. «Affrontare la perdita di una persona cara non è mai facile, ma quando a lasciarci è una persona giovane e sana, il lutto può diventare impossibile da superare. Oggi ci siamo ritrovati nella casa del Signore per ricordare Noemi, che è tornata al fianco del Padre esattamente un anno fa, e non starò qui a dirvi quanto fosse buona e generosa, piena di vita, o di quanto ancora avesse da dare e ricevere; non solo perché tutti voi la conoscevate, ma soprattutto perché non è per queste cose, che la ricordate. Come ognuno di noi Noemi aveva numerosi difetti e imperfezioni, ed erano proprio questi a renderla meravigliosamente umana: e il suo impegno giornaliero per essere migliore ce la rendeva ancora più cara. La sua assenza è dolorosa, ma anche se ci è stata portata via quando avrebbe potuto restare con noi ancora a lungo, Noemi ha amato ed è stata amata: parte di lei resterà sempre nei nostri cuori e ci guiderà, fino al giorno in cui saremo tutti riuniti».
   Il sacerdote si allontanò dal pulpito per proseguire con la funzione e Vera, che aveva resistito fino a quel momento, cedette alle lacrime. Vittorio le passò un braccio intorno alla vita e l'attirò a sé, mentre con la mano libera le accarezzava la testa; accanto a loro, Tiziano teneva stretta Giulia allo stesso modo, sussurrandole parole di conforto.
   Alla cieca, Vera allungò una mano verso la sua migliore amica: l'altra l'afferrò e le due donne rimasero in quella posizione per parecchi minuti, recuperando lentamente il controllo.
   Fu solo quando finì la messa che Vera si staccò da Vittorio.
   «Grazie» mormorò con voce soffocata mentre si asciugava il volto con la mano libera, senza mai incontrare il suo sguardo.
   L'uomo s'infilò le mani in tasca. «Quando vuoi, Gamba Bionica» rispose placido.
   Giulia tirò la mano dell'amica, ancora saldamente stretta nella propria, e quando ebbe la sua attenzione, accennò a un punto un paio di metri più avanti: Carmela e Giacomo erano attorniati da parecchie persone, tra cui i genitori di entrambe le ragazze, ma Nicola si era sistemato un po' più in là, solo e con lo sguardo puntato a terra.
   Vera e Giulia si fecero strada tra la folla e raggiunsero il ventenne: insieme lo avvolsero in un abbraccio, mettendoci dentro tutta la forza che avevano, e con delicatezza gli fecero rialzare la testa.
   «Nico, va tutto bene» bisbigliò Vera. «Va bene stare male, va bene essere arrabbiati. È normale: Noemi ti manca da morire». La sua voce tremò. «Manca anche a noi».
   Il ragazzo annuì, in silenzio.
   «Quando ti sembra di non farcela e vuoi parlare di lei, quando vuoi ricordarla, vieni da noi» aggiunse Giulia in un sussurro. «Lo sappiamo che non è la stessa cosa, ma Noemi per noi era una sorella». Gli accarezzò una guancia e si sforzò di sorridere. «E questo fa di te il nostro fratellino».
   «Minore e un po' scemo» tentò di scherzare Vera. «Perché queste cose te le abbiamo già dette, e comunque hai deciso di tenerti tutto dentro. Guarda che ti veniamo a cercare noi e ti facciamo fare tutte le figuracce che prima ti... ti faceva fare Noemi».
   La bocca di Nicola si curvò appena all'insù, quasi contro la sua volontà.
   «Va bene» mormorò con voce rotta. Per la prima volta da quando l'avevano abbracciato, il ragazzo ricambiò la stretta. «Ma la cosa è reciproca».
   «Fai pure del tuo peggio» sorrise Vera; una nuova lacrima scese dai suoi occhi mentre depositava un bacio leggero sulla guancia del ventenne.
   Tiziano, che si era avvicinato con passi leggeri, posò una mano sulla spalla di sua moglie.
   «Stanno uscendo tutti» li informò in tono basso e calmo. «Nico, i tuoi genitori e altri stanno andando al cimitero per... per portare dei fiori a Emi». Deglutì. «Vuoi venire con noi?»
   Nicola scosse la testa. «È meglio se vado con i miei genitori». Raddrizzò la schiena e si asciugò gli occhi. «Ci vediamo lì».
   I tre annuirono mentre il più giovane si allontanava; quando fu a metà strada verso la porta della chiesa, Vera si voltò a cercare Vittorio e lo trovò che la fissava da un angolo, in disparte. Lo raggiunse senza staccargli gli occhi di dosso.
   «Valenti, noi... noi stiamo andando da... da N-Noemi» farfugliò la ragazza.
   Il carabiniere la guardò da vicino per la prima volta dopo parecchi minuti: era pallida, col viso gonfio e gli occhi cerchiati di rosso, e in quel momento gli parve così fragile da fargli credere che un soffio di vento avrebbe potuto mandarla in pezzi.
   «Ragazzina, vuoi che venga con te?» le domandò sottovoce, afferrandole i gomiti con delicatezza e chinandosi su di lei.
   «Io... ti va?» replicò Vera, supplichevole.
   «Certo. Certo che mi va» dichiarò Vittorio, col tono di chi dica un'ovvietà. «Vieni in macchina con me? Qualcuno deve farmi da navigatore».
   «Sì, io... sì» riuscì a dire Vera. Raggiunsero la porta, seguiti da vicino da Tiziano e Giulia, e appena fuori dalla chiesa trovarono Eugenio e Fabiola in attesa.
   «Papà?» chiamò Vera con voce strozzata. «Io vado al cimitero con... con Valenti. Non... non sa dov'è e così gli... gli posso indicare la strada».
   Eugenio rivolse un lungo sguardo prima a sua figlia, poi al carabiniere.
   «D'accordo» disse infine.
   Vera si voltò per dire qualcosa a Giulia, ancora vicina a loro, ed Eugenio fece cenno a Fabiola di seguirlo; quando passò accanto a Vittorio, rallentò per un istante. «Grazie» mormorò al suo indirizzo, senza fermarsi. Il quarantenne annuì e le tre coppie si separarono.
   Il viaggio fino al cimitero e la visita alla tomba di Noemi furono ancora peggiori, almeno per Vittorio: Vera rimase in silenzio per tutto il tempo, alternando istanti in cui pareva chiudersi completamente nella propria testa con i pensieri che l'assillavano, a periodi in cui sembrava così smarrita da non capire dove si trovasse. Vittorio fu costretto dapprima a fermare Tiziano per chiedergli di fargli strada con la propria auto, e più tardi a trascinare Vera praticamente di peso fuori dalla macchina e dentro al cimitero.
   L'ex ginnasta sembrò riscuotersi solo al momento di affiancare i suoi genitori per offrire il mazzo di fiori che avevano portato. Vittorio era restio a lasciarla allontanare da sé: se possibile, Vera sembrava ancora più sconvolta che in chiesa, quasi terrorizzata dalla foto allegra della sua migliore amica che le sorrideva dalla lapide di marmo chiaro.
   Quando la vide barcollare, appena dopo aver posato i fiori, Vittorio decise di infischiarsene delle formalità: sgomitò tra le persone accalcate davanti al loculo e la prese per i fianchi, sostenendo quasi tutto il suo peso.
   «Vera? Vè?» sussurrò con urgenza al suo orecchio. La ragazza non rispose e lui la trascinò indietro, verso un punto sgombro e tranquillo, tallonato dai coniugi Nicolini. «Ragazzina? Gamba Bionica?»
   Vera alzò su di lui uno sguardo perso. «Eh?»
   Vittorio la scrollò appena. «Ci sei?»
   La venticinquenne batté rapidamente le palpebre. «Sì. Sì, ci sono... più o meno». Prese un respiro profondo, e per la prima volta dal momento in cui avevano messo piede in chiesa, a    Vittorio apparve davvero padrona di sé. «Scusa, scusatemi tutti» disse; nella sua voce era ancora presente un tremito, ma con un secondo respiro lento e profondo, riuscì a contenerlo. «Mi ero un po'... persa».
   «Non fa niente: era il meno che potesse succedere» la rassicurò Vittorio. «Senti, ho il turno di notte quindi non devo tornare al comando prima delle undici e mezza. Vuoi che... che facciamo qualcosa, vuoi andare da qualche parte...?»
   Vera scosse la testa. «Devo andare a casa a cambiarmi e prendere la macchina: ho detto a Giovanna che oggi avrei lavorato lo stesso, ho bisogno di farlo, mi... mi aiuta a distrarmi».
   Il carabiniere lasciò la presa sui suoi fianchi soltanto per afferrarle le spalle. Piegò appena le ginocchia per portare gli occhi all'altezza di quelli di lei.
   «Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, chiamami» scandì lento. «Non stare da sola se non ce n'è bisogno. Capito?»
   «Capito» rispose Vera. «Sono calma, Valenti. Adesso sono calma».
   «D'accordo» disse Vittorio.
   «E non sarò sola» aggiunse la ragazza. «Quando finisco in palestra vado da Giulia – facciamo una piccola cena per festeggiare il compleanno di Ludovica. Sarò sempre con qualcuno».
   «D'accordo» ripeté l'uomo. Lasciò la presa sulle sue spalle e Vera ondeggiò per un breve istante. «Ci sentiamo più tardi».
   Vera fece un cenno affermativo e rimase a guardarlo andare via; e nonostante le braccia di sua madre fossero avvolte intorno alla sua vita e la mano di suo padre premuta sulla sua spalla, per un lungo istante si sentì terribilmente sola.

******

La cena per festeggiare il compleanno di Ludovica era stato un affare semplice e riservato: oltre a Tiziano e Giulia erano presenti i quattro nonni della bambina, i due zii – tutti e due da parte di padre e, come era solita dire Giulia, più matti persino di lui – e Vera. Nonostante la tristezza che aveva caratterizzato la maggior parte della giornata, durante quelle tre ore scarse nell'appartamento erano risuonate chiacchiere allegre e anche risate; tutti si erano concentrati su Ludovica, e il naturale buonumore della bambina era riuscito a risollevare gli animi.
   In quel momento Vera sedeva coi gomiti appoggiati al tavolo e il mento puntato sulle mani, lo sguardo fisso sulla sua figlioccia. La bimba era seduta sul pavimento, insieme agli zii e a una delle nonne, intenta a giocare: al suo fianco, un cagnone di pezza più grande di lei – evidentemente il più gradito dei regali fatti da Vera – copriva il pavimento come un tappeto, con l'inseparabile RincoRino piazzato sulla schiena.
   «Come fai a scovare sempre il pupazzo in grado di farla innamorare al primo sguardo?» chiese Giulia con sincera curiosità, sistemandosi accanto all'amica.
   «Abilità naturale» rispose Vera con leggerezza forzata, senza distogliere gli occhi da Ludovica: ogni volta che si spostava, anche solo di pochi centimetri, aveva la sensazione di scorgere Noemi ai margini del proprio campo visivo, proprio lì dove sarebbe dovuta essere, e dopo oltre un'ora aveva scoperto che era più semplice tenere lo sguardo fisso su un unico punto il più a lungo possibile. «Oppure potrei aver notato che Lulù si illumina ogni volta che in televisione appaiono dei San Bernardo».
   «Sapevo che c'era il trucco!» gnaulò Giulia.
   «È un'informazione riservata: vedi di non dirlo a tutti» sogghignò l'altra. Dopo qualche istante, si alzò. «Si sta facendo tardi: è meglio se torno a casa».
   Giulia tornò seria all'istante. «Vuoi che venga con te?»
   Vera le rivolse un'occhiata sardonica. «Vorresti salire sulla tua macchina solo per seguirmi fino a casa e poi tornare indietro?»
   La padrona di casa rifletté per un istante. «Va bene, messa così suona veramente come un'idea scema».
   «Perché è un'idea scema» ribatté Vera con voce serica. Schivò il tovagliolo appallottolato che Giulia le aveva appena tirato contro. «Tranquilla: non lo dirò a nessuno... per stavolta».
   «Troppo buona» bofonchiò sarcastica Giulia.
   Vera sorrise in modo genuino; prese la borsa e la giacca, salutò i presenti e con un ultimo bacio sulla fronte di Ludovica, lasciò l'appartamento. Una volta in macchina, al riparo dalla pioggia che cadeva da oltre un'ora, tirò fuori il cellulare dalla borsa e lo soppesò per un minuto buono; poi si decise e avviò una chiamata.
   La persona all'altro capo rispose al secondo squillo.
   «Ciao» disse subito la voce di Vittorio. «Allora, Gamba Bionica? Come ti senti?»
   Vera prese un respiro profondo e lasciò che ogni emozione, dentro di lei, sfumasse fino a sparire: solo allora vide cos'era rimasto.
   «Stanca» rispose in tono piatto.
   «Quanto stanca?» indagò il carabiniere.
   La ragazza esitò per un istante. «Così stanca che, se mi sdraiassi, non riuscirei a rialzarmi mai più».
   Il silenzio regnò sovrano per alcuni secondi.
   «Vera? Non sento niente in sottofondo. Perché?» chiese Vittorio, inquieto.
   «Sono uscita da casa di Giulia cinque minuti fa» spiegò lei. «Sono in macchina. Ti ho chiamato prima di partire: ho pensato fosse... meglio».
   «Quindi stai per andare a casa?» la incalzò Vittorio.
   «Io... io ho bisogno di stare un po' da sola» rispose Vera. «Devo... devo riordinare tutto quello che ho in testa, e... e rimettere a fuoco le cose». Prese un respiro breve e spezzato. «Buonanotte, Valenti» mormorò un attimo prima di chiudere la chiamata.
   Ad alcuni chilometri di distanza, Vittorio fissò il telefono ormai muto con un macigno sullo stomaco. Le parole e il tono di Vera non gli erano piaciuti per niente: da che la conosceva l'aveva sentita arrabbiata, sarcastica, allegra, rilassata... ma così spenta, mai, e questo lo spaventava. Negli ultimi giorni l'umore di Vera era stato instabile, sì, ma per il momento in cui aveva lasciato il cimitero gli era sembrata abbastanza calma e controllata; aveva pianto ed era stata sconvolta, certo, ma c'era da aspettarselo; nei pochi messaggi che si erano scambiati nel pomeriggio era anche riuscita a parlare dei regali di compleanno che aveva comprato per Ludovica, e lui si era convinto che il peggio fosse passato, che se Vera non era crollata dopo essere andata via dal cimitero, allora per quel giorno non sarebbe più potuto succedere.
   Vittorio si diede mentalmente dell'idiota: dopo quello che gli aveva raccontato Giulia mesi prima, avrebbe dovuto aspettarsi che Vera cedesse non nel momento più triste, ma in quello – almeno teoricamente – più felice: quello in cui spiccava l'assenza di Noemi. Proprio com'era successo al battesimo di Ludovica.
   Il carabiniere afferrò la giacca di pelle e le chiavi dell'auto prima di schizzare fuori dal comando: corse in macchina tanto velocemente che la pioggia a stento gli inumidì i capelli e mise in moto mentre provava a chiamare Vera; gli squilli si susseguirono lenti, in totale contrasto col battito frenetico del suo cuore, ma lei non rispose.
   Fermo a un semaforo, Vittorio si spremette le meningi mentre continuava inutilmente a chiamare inutilmente la ragazza: dove poteva essere andata? Non a casa, questo era sicuro: poco prima gli aveva detto chiaramente di voler stare da sola. Ma a quell'ora, di mercoledì sera, e con quel tempaccio, in che posto poteva rifugiarsi senza essere disturbata?
   La risposta gli attraversò la mente rapida come una stella cadente nella notte; la luce verde del semaforo s'illuminò e Vittorio schiacciò il piede sull'acceleratore, facendo due rapidi calcoli. Se la sua intuizione era giusta, Vera era molto più vicina di lui a Ponte Milvio: da casa di Giulia non poteva distare più di sette chilometri, la metà di quelli che separavano quel particolare ponte dal comando, e la ragazza era già in macchina quando le aveva parlato. Vittorio pregò di non trovare traffico, di essere più veloce di Vera, mentre imboccava una strada dopo l'altra e si avvicinava alla sua meta.
   Una decina di minuti più tardi, Vittorio giunse a destinazione: abbandonò l'auto nel parcheggio più vicino e corse lungo il ponte. La pioggia si era trasformata in un temporale, ed era tanto fitta da ostacolare la visibilità. Il maltempo, l'ora tarda e la serata feriale avevano fatto scappare le persone che solitamente affollavano il posto: l'unico suono era quello dei suoi passi, che rimbombava attraverso il fragore della pioggia.
   «Vera!» urlò a pieni polmoni. «Vera!»
   Nessuno rispose. Vittorio non si fermò; continuò a correre, voltando la testa da destra a sinistra per controllare i parapetti del ponte. Si chiese se non avesse preso un abbaglio, se la sua intuizione non fosse sbagliata, ma il suo istinto continuò a urlargli che Vera era lì, che non poteva fermarsi, che non doveva perdere nemmeno un secondo.
   E poi una sagoma scura, a stento visibile nel temporale, apparve davanti ai suoi occhi: era in piedi sul parapetto di sinistra, incerta sulle gambe e incurante della pioggia che le martellava addosso.
   «Vera!» gridò Vittorio. Scattò con tanta foga da sentire i muscoli dolere e i polmoni bruciare alla ricerca d'ossigeno; ormai era vicinissimo e poté vedere il volto di Vera, i suoi lineamenti stravolti dall'agonia, e per un istante ebbe l'impressione che si stesse piegando in avanti...
   Senza rallentare, Vittorio le cinse la vita con un braccio e la trascinò sul selciato: lo slancio e il peso della ragazza gli fecero perdere l'equilibrio ed entrambi franarono a terra.
   L'uomo sentì il corpo di lei sotto il proprio e un dolore sordo al braccio e al ginocchio che aveva battuto nella caduta. Senza lasciare la presa su Vera, rotolò di fianco per non pesare su di lei e la tirò sopra di sé.
   «Non farlo mai più» ansimò, sconvolto e terrorizzato; la strinse tra le braccia con tutta la forza che aveva, e anche se una parte di lui sapeva di farle male, non allentò la morsa in cui l'aveva serrata. «Non farlo mai più, Vera, non farlo mai più, maledizione».
   Vera spinse le mani sul petto di Vittorio in una muta richiesta di lasciarla andare; non appena le braccia dell'uomo si aprirono, la ragazza si rimise goffamente in piedi.
   «Che hai fatto? Che cos'hai fatto?» chiese con voce distorta dal dolore. «Dovevi lasciarmi andare!»
   Anche Vittorio si rialzò, e le rivolse uno sguardo sconcertato.
   «Lasciarti andare?» ripeté. «Lasciarti suicidare, vorrai dire!»
   «Sì, è esattamente quello che voglio dire!» replicò Vera.
   Vittorio la prese per le spalle e fissò i propri occhi nei suoi. «Sei diventata pazza? Come puoi dire che avrei dovuto lasciare che ti suicidassi?» sbottò. Tacque e si sforzò di prendere un respiro profondo per dominarsi. «Vera, io capisco che questa per te sia stata una giornata tremenda, ma non è suicidandoti che risolverai i problemi, o che starai meglio!»
   La donna si divincolò dalla sua presa.
   «Tu capisci?» gli fece eco. «No che non capisci! Ma che ne sai, tu? Hai mai perso qualcuno che ami? Hai mai perso una sorella? Be', io sì, in caso te ne fossi dimenticato! Ogni mattina, quando mi sveglio, resto sdraiata nel letto e mi chiedo perché io sono ancora viva e Noemi no! E anche se mi hanno spiegato cento volte la dinamica dell'incidente – che Noemi è stata centrata in pieno dal SUV, che l'angolo dell'impatto ha fatto sì che a parte la mia gamba io non fossi colpita in modo letale dall'altra auto – continuo a chiedermi ogni giorno per quale motivo la mia migliore amica sia morta e io invece no, perché quella Seicento era un vecchio macinino e a rigor di logica anch'io sarei dovuta morire, incastrata tra quelle lamiere!» urlò.
   «Ma tu sei viva, Vera!» gridò di rimando Vittorio. L'afferrò e la strinse di nuovo, incurante del suo divincolarsi. «Sei viva, dannazione, anche se ti ostini a comportarti come se fossi morta, ma non ci sto. Ormai fai parte della mia vita, e non ti lascerò suicidare. Hai capito?» disse con voce tremante.
   «Chi sei tu per dirmi cosa posso o non posso fare?» sibilò lei, intrappolata tra le sue braccia.
   «Sono uno stronzo arrogante che per puro caso è finito sulla tua strada» rispose Vittorio, ripetendo le parole che lei gli aveva rivolto settimane prima. «Se vuoi morire prima devi avere il mio permesso, e io non te lo darò mai. Tutto quello che puoi fare è impegnarti per rendere la mia vita un inferno: questo te lo concedo».
   «Sei davvero uno stronzo arrogante! Non puoi decidere per me!» tuonò Vera.
   «Non posso lasciarti morire, Vera. Non posso» sussurrò lui.
   Vera gli tempestò le spalle di pugni. «Bastardo prepotente! Non potrai starmi addosso ventiquattro ore su ventiquattro, e non arriverai sempre in tempo!»
   «Vuoi scommettere?». Vittorio appoggiò il mento sulla sua testa. «Mi congederò dall'Arma e mi ammanetterò a te, se sarà necessario per non farti fare sciocchezze. Sono più cocciuto di te, sai che sono capace di farlo».
   Sfinita, Vera si afflosciò tra le sue braccia. «Perché lo fai?» singhiozzò, mentre la tensione della giornata finalmente esplodeva dentro di lei. «Perché t'interessa tanto che io viva?»
   L'uomo prese un respiro incerto. «Non lo so. So solo che il mondo è un po' più brutto, se tu non ci sei». Sospirò. «Vera, ti prego, promettimi che non proverai mai più a farti del male».
   «Va bene» bofonchiò lei.
   Vittorio strizzò gli occhi per un istante. «No, Vera, devi prometterlo sul serio, perché io non... non posso lavorare, non posso dormire, non posso respirare, se ho il timore che tu possa provare di nuovo a fare una follia come quella di stasera. Devi darmi la certezza che non farai mai più una cosa del genere».
   L'uomo abbassò lo sguardo e incontrò quello di Vera.
   «Come faccio a prometterti una cosa del genere? Non so neanch'io se riuscirò a non avere più un desiderio simile. In che modo posso garantirlo a te?» mormorò lei.
   «Allora giurami che se penserai di nuovo di fare una cosa del genere, me lo dirai» la implorò Vittorio. «Non devi seguire per forza quell'impulso: se lo proverai di nuovo vieni a parlarne con me, e io ti terrò stretta finché quel momento non sarà passato. Almeno questo me lo puoi promettere?»
   Vera prese un respiro tremante, ma non distolse gli occhi da quelli di lui. «Sì, questo te lo posso promettere».
   Vittorio lasciò andare un vistoso sospiro di sollievo; poi si mise a ridere, le prese il volto tra le mani e iniziò a costellarlo di baci.
   «Dio, Vera, grazie, grazie, grazie...» esclamò tra un bacio e l'altro.
   Vera sorrise suo malgrado prima di mettergli una mano sulla faccia per spingerlo via.
   «E smettila!» ridacchiò. Dopo un momento tornò seria. «Senti, Valenti, possiamo... possiamo tenere per noi quello che è successo poco fa?» chiese, desolata.
   Lui gettò indietro la testa e inspirò lentamente, accecato dalle gocce di pioggia che gli martellavano gli occhi.
   «Non lo so» rispose piano. «Una parte di me sa che dovrei dirlo almeno ai tuoi genitori, per la tua sicurezza, ma...». Deglutì, un po' a fatica; Vera vide il suo pomo d'Adamo, appena accennato, tremare. «Mi hai appena fatto una promessa» proseguì. «Se dicessi a qualcuno quello che è successo stasera significherebbe che non mi fido di te, che non credo che terrai fede alla tua parola, ma io ci credo». Chiuse gli occhi. «Spero solo di non pentirmene».
   Vera scosse la testa quasi tra sé. «Non te ne pentirai» mormorò.
   Vittorio si avvicinò al parapetto, senza mai staccare gli occhi dalla ragazza, e prese la borsa che Vera aveva abbandonato sul selciato; poi tornò indietro, le passò un braccio intorno alla vita e si avviò con lei verso l'estremità del ponte da cui era arrivato.
   «Vieni: sei fradicia, voglio portarti a casa prima che ti venga una polmonite» la esortò.
   Un po' spingendola, un po' trascinandola, il carabiniere riuscì a farla arrivare al parcheggio: la sentiva tremare contro il suo fianco, e si affrettò a portarla alla propria auto.
   «Ho la mia macchina» disse fiaccamente Vera quando lui tentò di farla entrare nell'Alfa.
   «Te la riporto io domani mattina, quando stacco dal turno» rispose deciso Vittorio. Le spinse sul sedile del passeggero e le mise la borsa tra le braccia. «Anzi, dammi le chiavi, va'».
   Appena Vittorio si mise alla guida, la ragazza gli porse le chiavi della Up! con un gesto rassegnato e si lasciò andare contro il sedile; il viaggio trascorse in silenzio, e quando arrivarono davanti casa Nicolini, il carabiniere si voltò a guardare Vera.
   «Tieni sempre il telefono con te» le disse calmo.
   «Perché, Valenti? Vuoi assicurarti che non mi anneghi nel lavandino durante la notte?» chiese Vera; nella sua voce non c'era alcun ardore.
   «Sì» rispose Vittorio. «A meno che tu non voglia che io faccia una chiacchierata con tuo padre...»
   «Ricattatore» bofonchiò la donna. Fece per scendere dall'auto, ma Vittorio le afferrò il polso con un gesto fulmineo e la trattenne.
   «Per favore» insisté.
   Lei abbassò lo sguardo. «Va bene».
   Vittorio la lasciò andare; Vera entrò in casa e salì cautamente le scale, attenta a non far rumore per non svegliare i suoi genitori. Quando entrò nella sua stanza, si affacciò alla finestra e fece un cenno con la mano; solo allora l'Alfa ripartì.
   
 
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