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Autore: ___Aliena___    23/06/2018    1 recensioni
"Il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte. Non bisogna guardare che all'amore" ('Salomé', Oscar Wilde)
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In un tempo dove la Morte pretende di creare la Vita, che cosa resta all'Amore?
Brevi scintille di umanità che lanciano la loro luce nelle tenebre del Nuovo Mondo.
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«Medea, tu sai perché Watari ha deciso di chiamarti così?».
«Era il nome di mia madre».
«E poi?».
«Non lo so, non gliel'ho mai chiesto».
«Cos'è che distingue Medea da tutte le altre eroine tragiche?».
«Di certo non un destino più clemente».
«Alla fine della sua storia, Medea resta in vita. Ricordalo, perché dovrà essere lo scopo della tua esistenza. Tu devi vivere, Medea, non importa quello che accadrà a noi altri. Tu devi vivere».
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Watari
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4
Le campane
 
 
Ebbene, tu l’hai visto il tuo Dio.
Ma me, me... tu non mi hai mai vista.
(“Salomé”, Oscar Wilde)
 
 
 
 
«Volevi vedermi, Ryuzaki?».
«Ho riflettuto a lungo, Watari, e alla fine ho preso una decisione».
«Quale sarbbe?».
«Se dovesse accadere qualcosa ad uno di noi due, ti ordino di cancellare tutti i dati relativi al caso Kira raccolti fino ad ora. Non dovrà rimanere alcuna traccia».
«Hai paura, Ryuzaki?».
«Non c’è tempo per questi discorsi. Un giorno, forse... lontano da qui...».
«Farò tutto quello che mi chiederai, Ryuzaki, ma in cambio devi giurarmi che non accadrà nulla a mia figlia. Sono vecchio, presto o tardi sarei andato incontro alla morte in ogni caso, ma Medea no, Medea non ha niente a che vedere con questa storia. Promettimi che la salverai, Ryuzaki, ed io non esiterò ad obbedirti».
 
 
*
 
 
L, sai che gli Shinigami mangiano soltanto mele?
Ryuzaki sollevò stordito la testa dal rapporto del signor Yagami e fissò gli occhi oltre la finestra. Notte fonda, ovattata, scalfita di tanto in tanto dai sibili lamentosi del vento che si insinuavano tra le imposte; una cappa di nubi nere aleggiava sulla città dormiente, recando con sé il sentore inconfondibile di un imminente temporale.
Ryuzaki si portò un dito alla bocca mentre strofinava con insistenza i piedi nudi l’uno contro l’altro. Nonostante la solita, insondabile espressione stampata sul viso, sentiva crescere dentro di sé il desiderio di abbandonarsi completamente al potere purificatore della pioggia, consapevole comunque che nulla al mondo avrebbe scacciato il macigno che da giorni gravava crudelmente sulle sue spalle curve.
L, sai che gli Shinigami mangiano soltanto mele?
Quella frase continuava a rimbombargli nella mente senza tregua.
Gli Shinigami... gli Shinigami esistono...
Era un pensiero inconcepibile, a cui però era stato costretto a cedere nonostante avesse tentato fino alla fine di aggrapparsi con disperazione alla confortevole e nel contempo fallace luce della ragione.
Gli Shinigami...
Ryuzaki abbassò lo sguardo sul suo polso, libero ormai dalle manette che per lungo tempo l’avevano tenuto legato a Light Yagami ma avviluppato in una nuova, letale catena che non gli avrebbe concesso scampo.
Gli Shinigami...
Ogni certezza era franata all’improvviso.
L’uomo alla Yotsuba sospettato di essere Kira era stato fermato e, come in un sogno allucinato, il quartier generale s’era inaspettatamente ritrovato a fare i conti con la spaventosa verità celata dietro un effimero, funesto quaderno nero.
Non ha alcun senso.
Se l’era ripetuto giorno e notte, chiuso nella sua stanza fino ad allora inutilizzata, senza però giungere ad alcuna conclusione sensata che riuscisse a sopperire al senso di vuoto causato da quella rivelazione. Nonostante gli sviluppi delle indagini, nonostante la tenacia costante dei suo collaboratori non riusciva più a farsi strada nella nebbia fitta che lo avvolgeva. Che fare ancora? Che senso avrebbero avuto gli sforzi di un misero pugno di uomini contro gli dei della morte?
 
 
«Abbandona questo caso, Ryuzaki».
«Ti ho già detto di restare fuori da certe questioni».
«Ascoltami, almeno per una volta! Continuare imperterriti in questa direzione è soltanto sciocco e inutile, non fingere di non accorgertene. Ryuzaki, non... non si tratta più di un assassino... gli Shinigami... è qualcosa di troppo grande, anche per te».
«Ormai è tardi per tornare indietro».
«Ho paura, Ryuzaki. Per la prima volta nella mia vita io temo per te».
 
 
 
Paura... già... il morbo che aveva infettato ogni membro della squadra, il parassita che si stava nutrendo della loro forza, che stava pian piano succhiando dalle loro vene ogni goccia di vitalità. La paura... ne erano tutti succubi, eppure nessuno l’avrebbe mai ammesso, non di fronte ai compagni, non di fronte a lui; era un patto che ognuno aveva stretto con se stesso, la speranza di riuscire ad esorcizzare la morte con il silenzio. Ma non sarebbe stato così.
L si alzò in piedi e lentamente si diresse verso il balcone, permettendo all’aria fresca della sera di sferzargli il viso. La città appariva da lì come un lontano formicaio silenzioso. Non aveva mai amato l’altezza, non eccessivamente almeno, non come l’amava lei. Da bambino s’era più volte chiesto cosa ci trovasse, quella ragazza, nello stare tutto il giorno con i piedi penzoloni, senza la certezza del contatto con la terra.
 
 
 
«Che cosa ci fai su quel ramo?».
«Leggo».
«Posso salire anche io?».
«Se ci riesci».
«Perché te ne stai sempre lassù?».
«E tu perché non parli mai con nessuno?».
«Non è vero. Sto parlando con te, ora».
 
 
 
Era uno dei pochi misteri a cui non aveva ancora trovato una soluzione. Forse non ci sarebbe mai riuscito, nonostante gli sarebbe piaciuto, ma poco importava in quel momento.
Gli Shinigami...
Sollevò la testa e non poté fare a meno di ridacchiare tra sé. Era lì, lo sguardo perso all’orizzonte, incurante dei metri che la separavano dal suolo ma in fondo consapevole che il cielo stesso non le avrebbe permesso di cadere. Era in momenti del genere che la mente di Lawliet rinunciava ad ogni pretesa di razionalità, concludendo che se una creatura come quella era fatta di carne e sangue, allora anche gli Shinigami dovevano essere reali.
Gli Shinigami...
Rimase in attesa per svariati istanti, finché non la vide muoversi e spostare gli occhi nella sua direzione; un attimo dopo era già scomparsa all’interno. Trascorsero soltanto pochi minuti prima che il giovane avvertisse qualcuno bussare alla porta.
Come volevasi dimostrare.
La ritrovò ferma sull’uscio a scrutarlo con la testa reclinata, un vassoio tra le mani e il corpo esile fasciato in una tunichetta verde che le scendeva morbida sul petto, accarezzando le forme acerbe dei seni. Gli risultò spontaneo chiedersi se l’avesse indossata apposta, negando immediatamente quel pensiero puerile.
Come potrebbe?
L si mordicchiò un pollice mentre osservava il contenuto del vassoio: un plico di fogli fittamente scritti e gli avanzi della torta alle fragole di Watari. Affondò pigramente un dito nella panna montata. «Come facevi a sapere che avevo bisogno di zuccheri?».
Medea si strinse nelle spalle. «Io non so niente, è mio padre che mi manda. Ha detto che devi finirla, altrimenti andrà a male».
«E questi fogli?».
«Sono i nomi segnati in quel quaderno dello Shinigami. Li ho ricopiati in ordine, come mi avevi chiesto».
«Perfetto».
Le sfilò il vassoio dalle mani e si voltò, attendendo che lo lasciasse solo. Ma non lo fece. Rimase lì, i piedi scalzi che giocherellavano con le frange del tappeto e le labbra arricciate in una smorfietta indecifrabile. L posò la torta sulla scrivania.
«Devi dirmi altro?».
«No».
Silenzio, palpabile e denso come una colata di gelatina.
«Mi stai forse chiedendo di entrare?».
«Questa è una tua congettura. D’altronde, se insisti...».
Gli sorrise sorniona passandogli accanto, e nella mente del giovane s’affacciò vivido un ricordo che credeva ormai sopito.
La Wammy’s House, una plumbea sera di novembre, un ragazzetto curvo e scarmigliato e una bambina insonnolita.
Non era cambiato nulla. All’epoca però era stato lui a cercarla.
 
 
 
«Lawliet, questa è la mia stanza!».
«Lo so».
«Che cosa vuoi?».
«È scoppiato un brutto temporale. Tuo padre mi ha mandato a controllare che stessi bene».
«Puoi dire a mio padre che non ho paura dei tuoni».
«Bé, ora probabilmente no, ma credo che presto andrà via la luce e passeremo la notte completamente a buio».
«E allora?».
«Ti ho avvisata per prevenire un tuo improvviso accesso di pianto. Sveglieresti gli altri ragazzi e non sarebbe opportuno».
«Lawliet, mi stai forse chiedendo di restare a dormire qui?».
«Questa è una tua congettura. D’altronde, se insisti...».
 
 
Non parlarono molto, non ne avvertirono la necessità. Si limitarono ad ascoltare l'uno il respiro dell’altra, lui comodamente rannicchiato sul letto con una fetta di torta tra le mani, lei seduta sulla scrivania.
«Che cosa c’è?» L trangugiò maldestramente un abbondante boccone, intercettando lo sguardo ambrato della ragazza intento a carpire ogni suo movimento. «Vuoi un po’ di dolce?».
Medea scosse energicamente i riccioli arruffati.
«Davvero?».
Annuì.
«Prendi almeno questa fragola» il giovane le porse il frutto scarlatto che ornava la sua fetta.
«Non la voglio, davvero».
«Ma io voglio che tu la mangi».
«Non mi piace la panna».
Lawliet soppesò quelle parole con attenzione. Senza distogliere gli occhi, si portò la fragola alla bocca e leccò per bene ogni residuo di panna, analizzando incuriosito il lieve rossore che velò le gote della ragazza.
«Adesso è pulita. Mangia».
Medea lo accontentò titubante. Diede un piccolo morso al frutto che Ryuzaki le tendeva, affrettandosi immediatamente a voltare la testa verso la finestra spalancata. Esili gocce d’acqua picchiettavano sulla balaustra.
L si alzò in piedi, un sorriso ad increspargli il volto. «Lo senti?».
«Che cosa?».
«Il suono delle campane».
Medea inarcò un sopracciglio. «Non c’è nessuna campana nelle vicinanze».
«Non è vero» si sporse verso di lei, le mani affondate nelle tasche dei jeans sgualciti. «Suona da giorni, ormai. È una melodia che mi accompagna incessantemente».
«Sei completamente impazzito».
«Medea» si avvicinò ancora, sfiorandole accidentalmente un ginocchio nell’afferrare il plico di fogli. «Tu sai perché Watari ha deciso di chiamarti così?».
La ragazza arretrò istintivamente. «Era il nome di mia madre».
«E poi?».
La vide sondare l’aria circostante con il sensi all’erta, alla ricerca di una possibile via di fuga come un animale braccato. «Non lo so, non gliel’ho mai chiesto».
Ryuzaki si allontanò di qualche passo, dandole la schiena. «Cos’è che distingue Medea dalle altre eroine tragiche?».
«Di certo non un destino più clemente».
Tacquero. La pioggia aveva iniziato a scrosciare copiosamente, ruggendo un feroce requiem assieme al suono delle campane.
«Alla fine della sua storia, Medea resta in vita» Ryuzaki inspirò a fondo. «Ricordalo, perché dovrà essere lo scopo della tua esistenza. Tu devi vivere, Medea, non importa ciò che accadrà a noi altri. Tu devi vivere».
Percepì un fruscio, un lieve tocco sul gomito destro.
«Che cosa stai dicendo?».
Non rispose, non ce n’era più bisogno.
«Ryuzaki?» il tocco si fece più deciso, divenne una stretta consapevole, supplice. «Mi senti o no? Ryuzaki? Lawliet?».
Il giovane abbassò le palpebre per un istante. «Devi farlo, Medea, non devi dimenticarlo».
«Anche tu!» avvertì le sue dita aggrapparsi tenacemente a lui, strattonarlo, scuoterlo. «Lo farai anche tu! Ciò che dici non ha senso, tu...».
«Devi vivere» si voltò inespressivo, fronteggiò quelle iridi ardenti che nemmeno il temporale sarebbe riuscito a soffocare. «Lo devi fare, Medea, è nel tuo nome».
La ragazza si portò le mani alle orecchie. «Taci».
«Devi continuare a comporre poesie e leggerle ad alta voce ad Aiber, o a Matsuda, anche se non vorranno ascoltarti».
«Taci, taci».
«Devi tornare alla Wammy’s House presto, il prima possibile».
«Ho detto taci, basta!».
Fu un attimo. Un battito di ciglia. Medea lo afferrò per le spalle curve e lo spinse a terra; gli fu addosso con un balzo ferino, incurante dei fogli che si sparsero, incurante degli occhiali che volarono via e della tunica che si sollevava. «Basta, non ti voglio sentire, devi tacere! Io sono viva e lo sei anche tu! Non ci sono campane che suonano, non servono questi discorsi! Ti prego...».
L non reagì. Sapeva che sarebbe accaduto, e sapeva anche che sarebbero bastati pochi secondi prima di vederla scattare in piedi e fuggire via terrorizzata e pentita.
O forse no.
La guardò negli occhi, in quelle fiamme inquiete che lo sovrastavano, che si opponevano alla razionalità della sua mente... forse le uniche armi in grado di fronteggiare Kira senza soccombere.
L, sai che gli Shinigami mangiano soltanto mele?
Smise di riflettere. Le sfiorò il viso, spinto dal solo desiderio di toccarla, di purificarsi dal marciume che lo insozzava fino al midollo. E lei non si sottrasse.
Le imposte della finestra cozzarono l’una contro l’altra, sospinte da una folata improvvisa di vento.
Ryuzaki si tirò su con lentezza, calibrando ogni movimento con scrupolosa cautela nel tentativo di non spaventarla. Lei lo assecondò piano e si accoccolò ancora di più contro il suo palmo aperto affondandovi la fronte, le labbra, inspirando inebriata la vaga essenza di vaniglia che sgorgava da quella pelle diafana.
Il giovane chiuse gli occhi. Era già accaduto una volta, da bambini, dopo averla ascoltata recitare una poesia per suo padre. All’epoca lei s’era ritratta inorridita, nascondendosi dietro un mobile e scatenando le risa di Watari.
 
 
«È soltanto una carezza, Medea».
«Non la voglio».
«Non essere scortese. Lawliet vuole congratularsi con te».
«Ha le dita troppo fredde».
 
 
Era cresciuto e quelle dita non s’erano riscaldate affatto, almeno non fino a quel momento. La ringraziò in silenzio.
Appoggiò le spalle curve al bordo del letto e le permise di insinuarsi tra le sue gambe, di sprofondare il viso nel suo petto scarno, di circondarlo con le braccia nude. Intrecciò le mani in quei riccioli scomposti, percependo all’istante il fremito che le attraversò il corpo. «Tu vivrai, Medea. Io so che lo farai».
Intanto la pioggia precipitava con furia e i rintocchi delle campane si avvicinavano nel buio.
 

 
*
 

Medea si svegliò il giorno dopo nel letto di Ryuzaki, un lenzuolo adagiato sulla pelle candida. Si sollevò in piedi con una mano sulla fronte, nella testa l’eco dell’acqua che batteva contro la finestra. Trovò gli occhiali sulla scrivania, accanto al vassoio vuoto. Il dolce non c’era più, erano rimaste soltanto alcune grosse fragole succose, abilmente ripulite dalla panna. Medea sussultò e arrossì. Ma non ebbe il tempo di ricordare. Un grido di dolore al piano di sotto la colpì in pieno, togliendole il respiro. Seguirono scalpiccii concitati, tonfi attutiti, voci confuse.
Medea si precipitò alla porta e impallidì all’istante trovandola serrata. La nebbia nella sua testa iniziò a diradarsi.
L'ha fatto apposta...
Urlò, scalciò, batté i pugni fino a ferirsi le nocche, ma fu inutile. La stanza prese a vorticare forsennatamente, le pareti sembravano sul punto di crollarle addosso.
Lawliet...
Scavalcò il letto con un salto e uscì sul balcone, incurante delle gocce che le sferzavano il corpo, taglienti come cocci aguzzi di vetro. Tentò di arrampicarsi sulla balaustra ma le braccia cedettero, le gambe tremarono.
La città era così piccola da lì, il cielo così lontano...
Boccheggiò alla ricerca di ossigeno.
Vertigini?
E di colpo tutto cessò. Due braccia forti la trascinarono dentro, la avvolsero in qualcosa di asciutto e la costrinsero dolcemente a sedersi sul materasso.
Papà...
«Signorina Medea...». Soichiro Yagami le asciugò il viso con le mani ruvide.
Sull’uscio della porta c’era il resto degli agenti della squadra. Immobili. Medea lasciò vagare lo sguardo allucinato dall’uno agli altri, nelle orecchie l’incessante rintocco delle campane.
E capì.
 
 
NOTA DELL'AUTRICE.

A casa ho un gattino bianco e nero  che ama arrampicarsi sugli alberi. Non è mai stato molto affettuoso, nemmeno con me. A volte però se ne sta immobile anche per ore intere a fissarmi, soprattutto quando fingo di non considerarlo. Non si avvicina, a meno che non lo si chiami, e quando finalmente mi decido ad accarezzarlo, resta accoccolato sul mio gembro facendo le fusa. Una volta ebbi una terribile giornata e scoppiai a piangere senza controllo. Il gattino mi si avvicinò, si arrampicò sulle mie ginocchia e con la zampetta tentò di raggiungere una mia lacrima. Non è una favola, è realtà. Si tratta di cose che mi hanno da sempre fatto riflettere. Cosa c'entra il mio gatto con la storia? Sinceramente non lo so, però scrivendo pensavo intensamente a lui. Sono una gattara pazza.
Siamo a metà della raccolta. Chi sarà il protagonista del prossimo episodio? Lo scoprirete a breve... spero!
Grazie a tutti quelli che si sono fermati a dare una sbirciatina.
A presto!
 
 
   
 
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