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Autore: Alba_Mountrel    27/06/2018    1 recensioni
Una ragazza è persa dentro se stessa... ma qualcosa, o qualcuno la salverà
Genere: Generale, Introspettivo, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Matt, Mello, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Terzo capitolo
"Sovraccarico d’informazioni"
 
La mia attuale instabilità mentale non mi darà tregua per un bel po’ temo. Un lampo di lucidità e freddezza all’improvviso mi attraversa la schiena e la mente… non mi ha rivelato praticamente niente, nessun dettaglio, niente di niente. Questo apparentemente agli occhi di uno stolto, ma ha praticamente ammesso a cuor leggero e senza giri di parole, che è un mafioso. Perché non mi sono ancora alzata da questo maledetto letto? Ah già… lo so io perché… perché sono disperata ecco perché. Ma, tra l’altro cosa mi ha fatto rinsavire e venire in mente questo ‘dettaglio’? La sua presa forte e decisa? Se… può essere, in questo caso mi meraviglio dei miei riflessi, molto a scoppio ritardato devo dire… ma essere così dura con me stessa non servirà a risolvere la situazione, devo ricordarmi che stavo per compiere un atto peggio di tante cose, quindi lo sconvolgimento e le reazioni non proprio tanto normali sono quasi da prevedersi. Ma che devo fare? A parte che mi ha fatto capire di non essere un santo ma neanche un assassino, comunque se mai dovessi continuare a vivere, non voglio avere niente a che fare con gente simile… comunque anche se non prende parte alle azioni, comunque il proprio contributo con le azioni della ‘feccia’. Non m’interessa se per loro ci sarà redenzione o se lui è un bravo ragazzo. Come l’ho chiamato poco fa solo io, tra le altre cose. Perché? PERCHÈ? Dalla padella alla brace e, che brace… una brace che… veramente arde di fiamme, ma non fiamme comuni. No. LE fiamme, le fiamme dell’inferno. L’inferno sulla terra. Quello che mi aveva quasi trascinato a sé. Sto nel letto con un servo del demonio! No. Basta essere debole. Con un grugnito più rabbioso che mai, mi stacco dalla sua dolce ma decisa presa… che ne so di cosa hanno toccato queste mani? E non sto parlando dei germi. No, non voglio mai più vederlo. Sarà più facile che bere un bicchier d’acqua perché se dovessi andarmene lui non potrebbe farsi vedere troppo in giro per un motivo così futile come: cercare una ragazza. Inoltre… se dovessero decidere di farmi fuori perché so dove stanno e li ho visti in faccia… non lo rivedrei e non rivedrei neanche più questo mondo, mondo di merda che, come colpo di grazia, mi ha fatto avvicinare pure alla mafia, all’inferno reale e terreno oltre che a quello mentale, spirituale. Mio Dio, mi sento troppo mio padre in questo momento. Ma non ho mai voluto essere come lui… quindi in teoria se lui dicesse di no io dovrei dire di sì… ma no, non è così semplice, devo ragionare con la testa e, questo per tanto comporta che devo dare la possibilità di spiegarsi al mio interlocutore.
«Bellezza, che ti prende? Credevo che dovessi continuare un discorso». Mi chiede sinceramente confuso.
“Non dovresti minimamente avere espressioni sincere. Non si addicono a gente come te o come il tuo amico. Statemi lontani, non voglio macchiarmi anche di sangue oltre che di un marchio già in me indelebile”.
«Non prendere per il culo». Sibilo inviperita con lo sguardo rivolto in basso verso le lenzuola candide e ringhio di nuovo.
“Queste lenzuola dovrebbero essere intrise dei vostri peccati. Non linde e pinte come quelle di un ospedale. Là le persone vengono curate, invece che uccise o torturate, o… stuprate e abusate”.
Ringhio di nuovo e non riesco a fermare il fiume in piena dei pensieri.
“Avevo detto che non lo avrei giudicato. Che non l’avrei fermato fino alla fine, ma è più forte di me. È come se mi fossi risvegliata da un letargo autoindotto direttamente da questo ragazzo. Dalla sua bellezza, dalla sua loquacità, dal suo saperci fare, dal fatto che mi ha salvato la vita, dalle sue mani, il suo petto, le sue battute e le sue espressioni sempre troppo vere e sempre troppo amplificate per reggerne il confronto”.
Ringhio nuovamente ma stavolta ne segue che, con le mani sul suo petto, mi spingo via dal meraviglioso sconosciuto.
“Stavolta non oserà riprendermi o giuro che lo mordo con quanta forza ho. Dovrebbe aver capito che non sto più giocando e non sono più allegra. Non è scemo come gli altri. Per mia sfortuna. Per come mi stanno andando le cose in amore, farei meglio a dare una possibilità al mio amico Gian. Ma no che dico? Che centra ora? Non mi piace e non mi interessa in nessun modo. Perché dovrei chiedergli di uscire? Però… troppi interrogativi, non è il momento adatto”.
Vedo una mano avvicinarsi timorosamente al mio viso: la sua mano.
“Non voglio quelle mani sul viso, non sul viso, passi, sul corpo finché ero indifesa, bisognosa di calore umano, depressa, debole e quant’altro che poi mi verrà in mente. Ma ora… BASTA”.
Mi alzo di scatto su una mano per allontanare appunto il mio viso da lui e la sua mano e lo sguardo che mi scappa, lo avessi visto io stessa, avrebbe intimorito anche me.
“Non lui”.
Pur fermandosi a mezz’aria con la mano continua a fissarmi come niente fosse, come se si aspettasse una reazione simile.
“Non è possibile…  è stata una reazione istintiva la mia, e il semplice e puro istinto non si può affatto prevedere, giusto? Mi dà fastidio il suo continuo restare calmo, come se tutto intorno a lui non lo riguardasse, non lo sopporto. Mi dà sui nervi. Lo vorrei un po’ più umano, un po’ più imperfetto, un po’ più vulnerabile e meno allegro in situazioni critiche, forse per la mancanza in me di allegria o spensieratezza non sopporto di vederla negli altri nei momenti peggiori. Vorrei che tutti provassero le stesse emozioni, un altro dei miei problemi, non so soffermarmi unicamente su ciò che provo io e mi fisso sempre su quello che dovrebbero provare gli altri, potrei anche fregarmene però in questo caso, visto chi ho di fronte...”.
«Stammi lontano!». Sputo fuori con quanta irruenza e crudeltà riesco a immettere nella voce.
«Devo tenere in conto di avere un’altra regina isterica nella squadra, come il mio compagno, o c’è qualcosa che devi dirmi sui tuoi istinti che non so?».
“Mi provoca anche, non è contento di aver provato ad abbindolarmi, ha anche il coraggio di insultare”.
«Isterica a chi? Mafioso!». Torna più serio di prima, con una punta di consapevolezza e conseguente tristezza negli azzurri e verdi occhi.
«Dolcezza…». Prova a persuadermi con trucchetti tanto insulsi e infantili quanto viscidi ma lo blocco sul nascere, perché non aprirò una volta di più il cuore, senza saperlo prima al sicuro.
«Sta zitto! Dolcezza…». Sibilo di nuovo, carica d’odio e scherno.
«Senti… ti giuro che ti dirò ogni cosa che vorrai, senza tralasciare dettagli, ma devi credermi… non sono la brutta persona che il mio racconto vuole farmi apparire…».
“E come no, adesso vuole anche provare a far la vittima”.
«Di certo non sei un santo, non trovi?». La mia voce è ironica e a stento trattengo le urla di frustrazione, per questa assurda situazione.
«Giusto...». Non riesce a continuare la frase.
“Strano”.
Penso ironica.
“Credevo avessi tutto e tutti sotto controllo, esattamente come i mafiosi. Che stupida ragazzina sognatrice che sono, non mi sembrava strano che uno sconosciuto sapesse dov’ero, io che sono estranea a tutto e a tutti, io che non esco mai di casa? Che sono un fantasma vivente? Idiota che non sono altro”.
Mi guarda rattristato ma leggo nei suoi occhi un lieve speranza che mi torni la voglia di ascoltarlo.
“Forse potrei ma mi sento infiammare. Ogni minuto che passa. Forse sono davvero mestruata, però non ricordo l’ultima che mi è successo. Il lavorare continuo del mio cervello ha soppresso qualunque cosa di normale o bella ci fosse nella mia vita. Ecco perché ero lì, su quel benedetto balcone, unica mia fonte di salvezza”.
Continua a guardarmi con occhi timorosi.
“Ma cosa vai temendo? Un’estranea che non può farti nulla, di cui non ti può fregar niente? Perché non te ne frega niente, giusto? Non mi spiego tutto quello che stai facendo per me ma comunque non vuol dire che te ne freghi veramente qualcosa… magari non volevi una vittima sulla coscienza… una cosa del genere. Ma perché? Perché tutti mi devono mettere in difficoltà? O sono io che vado nel panico e perdo la ragione per un nulla… sì, probabilmente è così. E d’altronde cosa potrei fare per cambiare? Beh, di certo non frequentare sta gente. Devo farlo finire col racconto? Ma vaffanculo. La presa su di me l’ha mollata quindi sono libera di fare ciò che voglio”.
Con uno scatto mi sollevo seduta sul letto, man mano che passa il tempo sono sempre più furiosa, e forse questo perché non sta andando avanti.
“Se ne sta zitto, zitto come un vigliacco, come un codardo, un cane bastonato… e non mi sembra che nessuno di questi aggettivi gli si addica. Però, forse le cose si capovolgeranno…”.
Si alza anche lui con movimenti più tranquilli ma pronti a fare la propria mossa, mentre continua imperterrito a fissarmi dritto negli occhi.
“Cosa che non ho mai sopportato perché infrange ogni controllo che ho di me stessa, mi squarcia quella sottile barriera che ho di sicurezza nello sguardo”.
Ancora adirata volto lo sguardo da un’altra parte, insostenibile.
“Non riesco mai a sostenerlo lo sguardo, di nessuno, con o senza confidenza. Mi eviteranno tutti per questo? Ma lui no… beh, è chiaro… vorrà una spia in più, o peggio ancora…”.
«Perché mi hai cercato? Che intenzioni hai?». Il controllo su ogni mio pensiero è definitivamente sfumato.
«La mia intenzione era di non lasciarti andare, di non lasciarti sola, Des…».
“Cos’era quello? Il diminutivo del mio nome, per caso? Non può essere… ma d’altronde… se fa parte della mafia, quanto gli ci può volere per scoprire il nome di una semplice civile qualunque”.
«Come sai il mio nome?» adirata. La voce è completamente e irrimediabilmente adirata, come sul tetto quando mi ha afferrato per trattenermi sul tetto.
“Già allora ho sentito un senso di pericolo. Lieve e insensato ma ora tutto è più chiaro”.
«Senti…».
«Dimmelo!». Quando perdo la ragione sono irriconoscibile ma non posso proprio fermarmi o agire in modo sensato e quello che succede, succede.
«L’ho sentito… al bar. Varie volte quel cameriere biondo ti ha chiamato amichevolmente per nome e ti ha sorriso svariate volte, perciò o doveva essere scemo o dovevi per forza conoscerlo e quindi chiamarti così e, anche se era solo un nomignolo e capisco perché… non è poi così difficile per uno come me conoscere una cosa così semplice come il nome di una semplice civile… non mi fraintendere… semplice lo dico solo per dire. Non per rivolgermi alla tua persona».
“Continua a farlo, ripete a voce le parole che uso nella mia testa, la quale mi sta solo per scoppiare da quanto si sta frantumando in mille pensieri e congetture. E, ora che ci penso… quando mi ha parlato del cameriere la sua voce è impercettibilmente mutata. Forse era… scherno… verso il cameriere carino biondo? Può essere? Ma no, non mi deve interessare la presunta gelosia di un mafioso, anche se non ha ammazzato non sono pane per i suoi denti”.
«Beh ormai è andata, lo sai. Ma sappi questo… bel rossino» lo redarguisco con perfidia in un filo di voce, come a farla apparire appunto perfida «Non sono pane per i tuoi denti, non mi farò mettere i piedi in testa da te. Criminale!» sbotto infine. Mi sento svuotata dopo questa affermazione: questa ‘conferma’ dei miei pensieri nei suoi confronti.
“È come se l’ira funesta che serpeggiava dentro di me, non riesca infine a prendere libero potere e, venga di nuovo rilegata negli inferi della mia mente contorta. Insomma, mi sento svuotata, nuovamente senza forze o più che altro senza più voglia di sbraitare, o di attaccarlo. Questa cosa mi ha sempre fatto sentire vulnerabile più degli sguardi penetranti perché permette all’altro di attaccarti indisturbato approfittandosi della tua mancanza di… ’argomenti’”.
«Intanto te l’ho detto… non ho mai ammazzato nessuno, in nessun modo possibile, nemmeno coinvolgendolo in un incidente. Mi sarebbe pesato a vita. Anche se non sembra, sono sensibile oltre modo a queste cose». Sogghigno a quelle parole.
“Secondo me invece ne hai fatte di cose indicibili finora… eccome anche”.
«Ti prego di credermi, ci ho sempre fatto attenzione». Ringhio, è l’unica reazione che la poca energia che mi è rimasta mi permette.
“Sarà un calo di zuccheri, sì, non so da quanto è che non mangio e dubito che sia possibile ingerire qualsiasi cosa mentre si è addormentati. Dubito anche e, pure fortemente, che mi abbia portato in un qualche ospedale per attaccarmi a una flebo. Li avrebbero scoperti di sicuro… poveretti”.
Penso con vivida stizza.
“Io potevo morire ma di sicuro non potevano portarmi a curarmi come si deve”.
Batto debolmente un pugno sul letto.
«Mi sento debole all’improvviso, perché?».
«Perché ti ho dovuta nutrire con una flebo improvvisata. Diciamo che siamo preparati a certe evenienze». Strabuzzo gli occhi e socchiudo le labbra.
“Allora mi sbagliavo, non mi hanno lasciato in fin di vita. Per come sono abituata io sarei sicuro morta dopo tre giorni di digiuno completo. Allora non è poi così cattivo come pensavo, in teoria. In teoria, visto che, come si dice… una donna trasforma l’uomo. Ma non so se posso accettare di trasformare la bestia in un principe, non so se posso accettare la bestia. Non lo so”.
La testa mi duole e infatti non posso fare a meno di posare la mano destra sulla tempia nel vano tentativo di far passare quel pulsare, quel bruciare incessante. Sento la testa andare quasi a fuoco, il digiuno ha sempre un pessimo effetto sulla mia stabilità mentale e, basta saltare un pasto.
“Lo dice anche Caparezza che siamo tutti già troppo grassi per digiunare. Ha ragione cazzo eppure mi sono sempre impegnata a non oltrepassare la soglia, quella sottile soglia di inutilità. Quella a cui vieni indotto dai media”.
Di pensiero in pensiero, il male aumenta tanto che non mi accorgo nemmeno di aver iniziato a lacrimare, semplicemente ho iniziato. Vengo assalita dallo sconforto, a causa della debolezza che mi impedisce di innalzare una corazza contro le avversità.
“Non posso più sopravvivere a nessuna esperienza, di nessun genere. Oddio che negatività, spero sia la mancanza di cibo a parlare. Non è vero che sono debole, non del tutto almeno. Però se sto a digiuno non c’è niente da fare… divento una macchina di negatività e depressione”.
I suoi occhi attenti non si lasciano sfuggire le mie lacrime e piano si avvicina, per poi abbracciarmi nuovamente con tutte e due le braccia, una mano sui capelli rossi, ora più sfibrati e malconci che mai e, l’altro braccio a cingermi le spalle e la schiena, carezzandomi lievemente.
“Non voglio, non voglio il tuo calore. Il tuo sporco calore. Voglio il calore di una persona per bene, di un buon ragazzo che la pensi come me sulla natura e sulla giustizia, non di certo un fumatore incallito e criminale. Anche se sono stordita sento perfettamente l’odore acre e penetrante di fumo sia impregnato nella stanza stessa, sia nei tuoi vestiti. È cattivo questo odore. Non lo sopporto e sono abituata ai sapori e odori forti ma buoni. Come quello della cioccolata: al peperoncino, all’arancia e, altre ancora. Quello è un sapore buono e non lede al corpo, perché di certo non crea dipendenza e quindi non ti ci strafoghi. Non so come fate voi che fumate, con quel sapore perenne in bocca, mezzo dolciastro, mezzo acre, mezzo bruciato, mezzo tutto. Non si capisce che sapore abbia”.
Continua la dolce tortura che non voglio dalle sue mani.
“Chissà cos’hanno toccato”.
«Mi sento svenire. Ho fame». Siccome non posso svenire di nuovo, a stento torno lucida, ma la testa duole terribilmente.
«Vieni. Andiamo a mangiare qualcosa, non mi devi svenire così. Non tra le mie braccia».
“Questa frase… che dolce”.
Cerca di sollevarmi ed è quello che faccio anch’io, ma nel mettere i piedi a terra sento un capogiro da paura e le gambe, ovviamente molli per l’inattività cedono e, trattenendomi a lui quasi mi accascio a terra. Gemo per il dolore e la frustrazione, mentre mi tiene in piedi per un fianco, con un modo molto, ma molto protettivo e rassicurante.
“Sarà abituato a… non di certo ad ammazzare, mi dico. Sono davvero una causa persa”.
Penso sconsolata.
“Perché all’improvviso ho cominciato tutta quella sceneggiata? Non mi ero forse detta di aspettare la fine della sua storia? Sono molto coerente. Ma forse è stata solo la foga e l’adrenalina accumulata in questi anni e soprattutto in questi giorni, nei quali ho solo dormito”.
Mi porto una mano nuovamente alla tempia e le lacrime mi pungono nuovamente gli occhi e mi rigano le guance, che già scottano da sole perché avrò anche la febbre.
Arriviamo dopo poco a un tavolo di legno lercio, vecchio, brutto. Non me ne interesso ma i miei occhi vagano, anche se sono doloranti. Appoggio il gomito con cui mi sto tenendo la testa, sulla superficie del tavolo e l’unico istinto che in questo momento riconosco vagamente, è quello di tremare. Tutto il mio corpo è scosso da violenti tremori che non provo nemmeno a controllare, mi farei solo del male.
“Questa reazione non l’avevo mai provata personalmente, ma mi immagino sia normale visto che non mangio da giorni. E le lacrime non smettono di scendere, non smettono, NON SMETTONO”.
Ringhio, nervosamente perché tutto il dolore mi sta sopraffacendo. Passa un tempo che non riesco a quantificare, nel quale c’è solo quel male a farmi compagnia, e a tenermi presente alla realtà. Dopo quello che sembra un minuto, ma in realtà sono solo pochi secondi, mi vedo posizionare davanti al naso un bel panino fresco e abbondante di farciture varie: vegetariano, come piace a me.
“Neanche farlo apposta. Neanche gli avessi rivelato i miei gusti… ma a pensarci bene… è da un po’ che mi osserva e quindi per questo sa una cosa del genere”.
Il martellio alle tempie si fa più intenso, il che mi fa gemere sommessamente.
«Des… basta pensare e mangia». Mi intima calorosamente, per poi accendersi una sigaretta elettronica avvicinandola però alla finestra aperta, di quella che deve essere la cucina.
“Lo farà per non investirmi direttamente col fumo mentre mangio... anche se in effetti, non credo si sentirebbe un così cattivo odore. È uno dei tanti dubbi… ma non ce la faccio nemmeno ad aprir bocca”.
«Mangia, ti sentirai in forze dopo».
“E va bene. Non posso fare altro per ora”.
Mangio con fin troppa calma, non ho energie neanche per fare quella piccola e semplice azione. Un’azione vitale, indispensabile ma mi riesce ugualmente molto difficile, ho la gola secca e i bocconi di un pane se pur morbido mi raschiano ugualmente le pareti della gola come fossero lame.
“Anzi, le lame farebbero meno male perché essendo affilate non le sentirei”.
Deglutisco forzatamente facendomi appunto male alla gola, con un rumore fastidioso che non sfugge alla costantemente osservazione dello strano sconosciuto ancora a torso nudo.
«Ti do dell’acqua. Non vorrei che ti ferissi solo perché hai fretta di finire quella schifezza». Lo guardo di striscio e sorride malandrino.
«Quale schifezza? A me sembra un panino normalissimo e, anche molto buono… e fresco». Mi giro totalmente verso di lui con una smorfia imbronciata e interrogativa.
“Tanto so cosa vuoi dire, è inutile che mi sorridi con quella brutta faccia da schiaffi. Voglio tornare al mio balcone e al mio destino…”.
«Ti do dell’acqua. Comunque intendevo che è senza carne. Per me un panino senza carne è una vera schifezza. Non c’è nemmeno un pezzettino di formaggio. Come mangiarsi un pezzo di pane con dell’erba di campo».
“Immaginavo intendessi quello, caro rossino ma non mi immaginavo invece che fossi così ‘crucco’”.
«Ma scusa, ce lo avevi tu in frigo…». Gli domando sardonica.
«Non ci provare, è ovvio che hai capito che ti stavo seguendo da tempo. Infatti, sono sempre più preoccupato per la tua reazione che verrà, dopo esserti rimessa in forze. Tieni». Mi porge dell’acqua ghiacciata già al tatto, come piace a me. Sospiro e mando giù un sorso, lentamente e non troppo abbondante, come sono abituata quando la bevo fredda altrimenti si bloccherebbe anche il respiro, oltre che la digestione. Poi, la sua bontà semplice e rinfrescante mi travolge e nella foga mi dimentico tutto ciò, trangugiando un sorso dietro l’altro.
“Mi sento veramente riarsa”.
«Mio Dio, quant’è buona fresca. Soprattutto con l’arsura che mi sentivo dentro». Chiudo gli occhi e riprendo a mangiare, perché non posso lasciare quella delizia in balia della pattumiera anche se mi è molto difficile sforzare lo stomaco, il quale nonostante i pochi morsi è già pieno.
“Sono sicura. Se lasciassi questo buon panino incustodito, non aspetterebbe nemmeno di arrivare a sera per buttarlo. Nemmeno fosse farcito con vera erba di campo incolta. Deglutisco di nuovo rumorosamente, dovrei bermi tutta la bottiglia prima di tornare come prima. Il giorno stesso in cui mi ha trovata sul balcone, cioè non tre ma ben quattro giorni fa, avevo già smesso di mangiare. Era da giorni che lasciavo il frigo vuoto. Apposta per non consumare niente ma nemmeno permettere che qualcosa andasse a male. Sono sempre stata così, sempre troppo fissata su questi atteggiamenti di preservo e, si può dire, rispetto verso la natura; per accorgermi o convincermi che stavo andando verso una direzione di non ritorno. E sono ancora ora in queste condizioni. Seduta a un tavolo vecchio e malandato, in una cucina puzzolente di muffa e chiuso, senza luce, davanti a un mezzo sconosciuto a petto nudo, che se mi vedesse mia madre, mi darebbe della… Donna di compagnia. Ma lo farebbe in ogni caso ed è anche a causa sua che ho tanti complessi, secondo lei non dovrei nemmeno pensare che questo ragazzo è bellissimo, è peccato… e di certo non dovrei fissargli i pettorali scolpiti ma poco pronunciati come piacciono a me: è peccato, non dovrei nemmeno immaginarmi di fare un sacco di cose che sono peccati, secondo certi canoni”.
Torno a un’espressione imbronciata, ma sono molto più concentrata sul finire il panino per seguire il filo logico dei miei pensieri. Così dopo un attimo, mi dimentico irrimediabilmente di certi sottili dettagli e, dopo un altro morso stentato finisco di mangiare.
Espiro e questo piccolo, semplice gesto mi appare come una depurazione per la mente.
“Anche se in realtà non dovrebbe succedere proprio nulla, farlo mi aiuta in parte a sentirmi un poco più leggera, ed è come ricominciare da capo. Come esempio non centra nulla ma, in questo caso mi succede così e, ogni volta dopo sto meglio. Devo ammettere che funziona, mi sento meglio e più rilassata: sono un fascio di nervi a causa dei vari giorni passati senza mangiare e, a causa delle mie debolezze”.
Penso amareggiata.
Finisce la sigaretta e si avvicina a me, cauto, sedendosi poi di fronte.
“Diciamo che posso credere almeno a metà delle parole che mi ha detto: innanzi tutto, ci sono solo due sedie qui, quindi può essere vero il fatto che abbia solo un coinquilino; poi se avessi più forze e voglia di vivere, girandomi intorno con lo sguardo, potrei valutare tutto il resto da certi dettagli, i quali anche volendo non si possono nascondere del tutto…  non esiste il ‘delitto perfetto’. Queste parole le trovo abbastanza appropriate a questa situazione, una situazione alquanto assurda per i miei gusti. Mi trovavo su un semplice tetto, quando all’improvviso sono stata catapultata nel covo di due… ‘mezzi mafiosi’. Guarda tu cosa mi tocca sentire: in teoria non sono un mafioso, perché non ho ancora ucciso nessuno. E meno male, che bella consolazione. La vita mi sta proprio sputando in faccia, a quanto pare. A questo punto, tanto vale fargli continuare la sua bella storiella, a cui non devo crederò a occhi chiusi, così si concluderà questa sceneggiata e, qualunque sarà la conseguenza mi andrà più che bene”.
«Senti… penso di aver esagerato. In questi giorni… diciamo che non ero io… anche se in realtà una vera me…».
“Non c’è… vorrei dirle queste due semplici parole, ma non credo lo farò. Anzi, non devo emettere un solo suono, ho detto anche troppo”.
«Non preoccuparti bel…». Lo guardo con una faccia indecifrabile, bloccando sul nascere quella parola.
“Non dovrà più chiamarmi così, riferita alla mia persona”.
Lo sento schiarirsi la voce, e abbassare per un secondo lo sguardo, quel suo sguardo quasi sprezzante, che ora si fa un po’ più serio.
«Va bene. Farò il serio d’ora in poi. Però, posso chiamarti per soprannome, almeno? Farei abbastanza fatica a non chiamarti in qualche modo».
“Lo so benissimo anch’io, ‘sconosciuto’”.
«Beh, non è che io sia in una posizione migliore. Mi dovevi raccontare tutti i tuoi più oscuri segreti… e non so nemmeno il tuo nome, o un soprannome con cui ti chiamano di solito… e chiamarti tizio non è che sia il massimo».
“Che stronzata di discorso”.
«Almeno mi parli ancora. Comunque, per il momento mi puoi chiamare Giovanni, o Giò se proprio vuoi. Anzi, per il tuo bene avrei dovuto darti subito questa info, come vera. Non dovresti nemmeno sapere che questo non è il mio vero nome». Sospira leggermente chiudendo gli occhi.
“O, è un ottimo attore, o sta dicendo la verità. Credo… la seconda? Spero. Non sono così brava a leggere le persone, non sono un’investigatrice. Né una brava psicologa”.
«Detto questo…» esita un secondo, infinito e insopportabile «Continuerò il mio discorso e lo farò senza interruzioni, quasi come io sia una macchinetta».
“Finalmente”.
Penso, guardandolo di sottecchi. Ora come ora, mi sembra di essere in un film
“È come se lui fosse il mio ragazzo e lo avessi beccato a quasi tradirmi. Non mi piace né subirli, né porli gli interrogatori, perché anche se in realtà sta dicendo tutto lui… è come se implicitamente fossi io a porgli le domande/accuse, visto che mi vuole a tutti i costi dare spiegazioni e, dal canto mio, se gli devo restare vicina devo pur sapere qualcosa di lui. O per lo meno, devo potermi fidare di lui e sapere che alla prima occasione non mi ammazzerà a bruciapelo o non mi sbatterà sul letto a mo’ di bambola per i giochi”.
«Dopo quel giorno… in cui il mio amico si fece quella bruciatura al corpo, passai notti insonni a cambiare garze piene di sangue e… beh, diciamo altro. Non voglio traumatizzarti». Mugugno e muovo la testa in gesto di assenso ma lo guardo in una maniera che lascia trapelare un bel ‘Va avanti, e comunque non me ne frega niente di che dettagli aggiungi, sono grande ormai per certe cose e, comunque non sono dell’umore adatto per le gentilezze costruite’.
«Ma… alla fine guarì nel giro di una settimana, mentre altri ci avrebbero messo almeno due mesi. È un duro, di quelli veri. Dopo questo episodio abbiamo dovuto quasi arrivare a rimetterci la vita per risolvere quel caso di cui ti parlavo prima. Di cui preferisco non parlarti per una serie di motivi. Alla fine però, si è risolto tutto nel migliore dei modi e noi due, al contrario di ogni previsione, siamo sopravvissuti. Io, perché sono stato sostituito da un nostro sottoposto all’ultimo secondo. E il mio compagno, perché ha dato ascolto anche alla propria coscienza, oltre che al proprio cervello. In poche parole, non ci siamo dovuti sacrificare. Che sollievo che ho sentito quando dopo qualche mese dal nostro quasi fallimento, sono venuto a sapere che un altro detective aveva finalmente risolto il caso. Alla fine l’ha risolto lui, perché noi due dovevamo restare fuori dai giochi per un bel po’. E con la risoluzione del caso, acquistammo anche una certa meritata fama nell’ ambiente nostro e non, perché l’altro detective ci lasciò il merito di tutte le operazioni: che non erano state rese note in nessun modo, semplicemente si dichiarò un nostro valido ma indiretto aiutante. In ogni caso. Purtroppo non posso farci niente, è andata così… essendo nella mafia, io e lui avevamo un unico e difficilissimo compito, oltre a quello di detective… restare in vita e assicurarci che la gerarchia venisse rispettata e, soprattutto che non venisse minata da ‘esterni’. Voglio dire… niente vietava a qualcun altro di fare la stessa cosa che fece il mio amico all’inizio per farsi strada e raggiungere la vetta, cose indicibili sicuramente. La gerarchia in questo schifoso lavoro si supera solo uccidendo quello più in alto, non certo convincendolo a ritirarsi. Andando avanti con la storia: siccome durante i vari avvenimenti di quel caso, il capo di Los Angeles era morto, e anche i suoi diretti sottoposti… noi due eravamo quelli più in alto, in quella città almeno. Solo che il mio compagno voleva complicarsi ulteriormente la vita. Anzi, credo non sia mai soddisfatto e, quindi decise di trasportarmi in questo buco di paese come l’hai definito tu poco fa». Mi sorride dolce, forse ripensando alla battuta che ho fatto.
“Vorrei… non so nemmeno io cosa vorrei. Per ora mi limiterò a fissarlo imperscrutabile, così non si perderà e andrà al punto senza stupide interruzioni”.
«Ufficialmente, siamo venuti qua perché potesse conquistare una qualche posizione anche qui, farsi conoscere in un certo senso. Non so cosa potrà mai ottenere. Mah, avrà un piano, anzi mille piani… che spero non prevedano troppe morti o, non ne prevedano affatto. Ogni volta torna a casa più cupo del solito. Non sarà mai come la prima volta che si sentiva quasi eccitato per aver ‘salvato il mondo’ da una persona malvagia. Dopo aver compreso l’entità del gesto ha capito che dal momento in cui ha cominciato, non poteva ne smettere ne salvarsi l’anima. Sapeva e sa che ogni volta tornerà a casa irrimediabilmente compromesso, cambiato, peggiore e triste. Nonostante questo non permette a niente e nessuno di scoraggiarlo. Ogni volta trova un modo differente e più incisivo per venirne fuori e per non cedere, non farsi sopraffare. Certamente, quelle che fa fuori sarebbero persone indegne ma pur sempre persone. Saprai a grandi linee come funziona la mafia, no?! Uccidere per non essere uccisi. Ah…» sospira. All’improvviso il suo sguardo viene assalito da una sfumatura stonata: tristezza, con un misto di rabbia, rassegnazione.
“Decisamente stonata, per uno come lui, forse l’ho giudicato affrettatamente. Perché non si è affatto presentato come una persona rassegnata o infelice della propria vita, come invece lo sono io”.
Vorrei invogliarlo a continuare con parole d’incoraggiamento ma l’unica cosa che esce è un mugugno d’assenso. Il mio sguardo ancora non riesce ad addolcirsi, rimango indifferente e ne ho tutti i diritti. Mi guarda di rimando con degli occhi da cane bastonato che, decisamente stonano ma, decide di farsi forza e andare avanti.
«Dicevo, siamo venuti qui per avere una qualsiasi posizione ma il motivo dell’avere una posizione di rilievo e, quindi rispetto è uno solo. Come ho detto, siamo detective e viviamo unicamente per proteggere e liberare il mondo dalla feccia, ‘nel nostro piccolo’. Per quello seguo il mio compagno, perché con lui non ci si annoia mai e poi perché è il migliore. È come un fratello, un amico, un amante se fossimo omosessuali, scommetto sarebbe il migliore anche in quello. Nessuno ha la sua determinazione. Comunque, siccome ormai Los Angeles per me e il mio povero fragile cuore».
“che spiritoso…”
«Era off limits, decisi insieme a lui che la nostra meta sarebbe stata appunto l’Italia. Non ne potevo più dell’aridità del nostro paese. Tanta potenza e caparbietà, tante risorse… per nulla. Per ottenere soltanto altro potere, tanto potere da non veder più ciò che è bello e importante nella vita. Mi volevo allontanare dalle grandi potenze per avvicinarmi invece ai… ‘bassi fondi’. Li preferisco di gran lunga. Il mio compagno non ci si trovava poi male dove stavamo prima. Quello è il suo ambiente, e avrebbe anche potuto troneggiare. Un giorno però, finiti i vari casini sempre riguardanti quel maledetto caso, si è accorto della freddezza e della tristezza che mi velavano gli occhi nei pochi sorrisi che riuscivo ancora a dispensare. Così mi ha fatto due, tre brevi e semplici domande a cui non ho potuto più mentire e, ha capito che non ne valeva affatto la pena. Siamo qua, in questa dolce e rinfrescante penisola da quasi dieci anni. Dopo il caso a Los Angeles abbiamo dovuto racimolare di nuovo i soldi necessari per sopravvivere finché non avessimo fatto dei passi avanti anche qua in Europa. E per sopravvivere… intendo, non certo rubando. O meglio… abbiamo fatto qua e là, ogni tanto, delle mosse mirate, ma abbiamo deciso di cambiare radicalmente il metodo di approccio col mondo. Siamo qua da tanto, perché ce la siamo presa comoda… molto comoda, anche se, senza dirmelo quel cane continuava a far le sue ricerche senza dare nell’occhio. E intanto ci siamo fatti i nostri bei viaggi del paese e solo l’anno scorso abbiamo deciso di trasferirci qui a Padova». Fa una pausa breve e apparentemente insensata.
“Ha detto ‘qui’ a Padova, quindi non siamo in capo al mondo come temevo. Questo significa che se in qualunque momento volessi scappare potrei farlo e non mi ritroverei sperduta chissà dove. Però pensando anche a quello che ha detto prima, mi sale una rabbia… io che avrei tanto voluto viaggiare almeno per il mio paese non l’ho mai fatto e, loro invece se lo sono mangiato tutto in pochi anni, porca puttana!”.
   
 
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