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Autore: Piperilla    28/06/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Il temporale della notte precedente aveva lasciato il passo a un mattino luminoso, spazzato da un venticello freddo che aveva reso l'aria ancora più limpida.
   Seduta sul divano, Vera leggeva un libro mentre ascoltava la radio, sbadigliando a intervalli regolari; il professor Maesani si era dimostrato incredibilmente comprensivo, quando poco prima l'aveva chiamato, ed era stato felice di lasciarle la mattinata libera. Vera gliene era grata: era così stanca che non riusciva a concentrarsi, e anche se fosse andata al lavoro, di sicuro avrebbe combinato poco o nulla.
   Mancava poco alle nove quando suonò il citofono; la ragazza si alzò e, senza neanche controllare chi fosse, aprì il cancello e poi la porta d'ingresso. Un minuto più tardi entrò Vittorio, anche lui sbadigliando.
   «Sono a pezzi» annunciò il carabiniere; sollevò le braccia sopra la testa e si stiracchiò con un gemito soddisfatto prima di seguire la ragazza in cucina.
   «Hai fame?» chiese Vera, facendogli cenno di sedersi. «Ho cucinato un po' di roba».
   Vittorio batté le palpebre più volte: Vera stava mettendo sul tavolo due torte, una crostata e due barattoli pieni di biscotti.
   «Un po'?» ripeté l'uomo. «Un po'?»
   «Be', sei stato tu a tenermi sveglia tutta la notte con chiamate e messaggi: in qualche modo dovevo passare il tempo» si difese lei.
   Vittorio scrollò le spalle, per nulla dispiaciuto.
   «Buon per me» commentò. «Passa quella crostata, va'».
   Vera si affaccendò in cucina per permettergli di fare colazione in pace, scoccandogli di quando in quando uno sguardo: il carabiniere era pallido, due pesanti occhiaie violacee gli adornavano il volto e in generale tutto il suo aspetto appariva un po' stropicciato. La ragazza sapeva di non essere in condizioni migliori.
   Quando Vittorio smise di mangiare e le puntò addosso uno sguardo penetrante, Vera capì all'istante che non avrebbe potuto evitare ancora a lungo le sue domande.
   «Dobbiamo parlare» esordì l'uomo.
   Vera sospirò. «Sì, ma non qui: andiamo di là».
   La ragazza fece strada fino al salotto e sedette sulla chaise longue, le gambe distese di fronte a sé. Vittorio rimase in piedi vicino al divano, chiaramente a disagio.
   «Siamo tutti e due stanchi morti: meglio qui che sulle sedie in cucina» spiegò Vera. Batté la mano sul posto accanto al suo. «Mettiti comodo» lo invitò.
   L'uomo la prese in parola: si buttò di schiena sui cuscini della seduta, lasciando solo i piedi a penzolare di fuori, e appoggiò la testa sulla gamba sana di Vera, usandola a mo' di guanciale. Vittorio chiuse gli occhi e mugugnò contento.
   Vera scosse la testa, incredula e divertita allo stesso tempo.
   «Sai, Valenti, visto che mio padre, mia madre e Hermes li conosci già, penso che coglierò l'occasione di presentarti il resto della tribù» annunciò. Affondò la mano tra i cuscini e ripescò un sacchettino di plastica che scosse con vigore. «Efesto! Vieni qui, piccolino!»
   Mezzo minuto più tardi un gatto varcò la soglia, miagolando sonoramente, e apparve davanti al divano: nonostante si muovesse senza appoggiare una delle zampe anteriori, Vittorio notò sorpreso che correva con notevole velocità.
   Vera sorrise al felino e prese uno snack dalla busta. «Sali, Efesto, dai».
   Il micio non si fece pregare: miagolò in risposta, saltò sulla chaise longue e prese lo snack dalla mano della padrona, divorandolo in pochi istanti.
   Vittorio agitò le dita in direzione del gatto. «Vieni qui, piccoletto».
   Senza alcun timore, Efesto zampettò da Vittorio; gli annusò la mano e, apparentemente soddisfatto, si infilò nello spazio esiguo tra il corpo dell'uomo e lo schienale del divano. Il carabiniere accarezzò il manto grigio chiaro del gatto, seguendo le striature con la punta delle dita, ed Efesto chiuse gli occhioni verdi mentre iniziava a fare le fusa.
   Vittorio sbuffò divertito. «Non perde tempo, il piccoletto».
   «È socievole, lui» commentò Vera. «L'esatto opposto della regina della casa». Agitò il sacchetto con tanta forza da farlo quasi volare attraverso la stanza. «Afrodite! Vieni a prendere la pappa!» urlò con quanto fiato aveva in gola.
   Che fosse stato il richiamo di Vera o il rumore della busta era impossibile dirlo, ma quasi all'istante una gatta bianca e nera apparve nel salotto, galoppando come un cavallo selvaggio nella prateria: l'irruenza del felino era tale che i suoi passi erano chiaramente udibili nonostante la radio accesa.
   L'ex ginnasta sventolò uno snack in direzione della gatta e batté la mano sullo schienale del divano. «Piantala di fare la preziosa e muoviti».
   A differenza di quanto aveva fatto Efesto, Afrodite non emise un solo suono: balzò sul punto in cui si era posata la mano di Vera e accettò lo spuntino che le veniva offerto, frustando i cuscini con la coda. Dopo essersi leccata i baffi, rivolse uno sguardo indifferente a Vittorio e si sdraiò con la pancia sul cuscino, lasciando penzolare le zampe ai lati dello schienale.
   Il carabiniere mosse una mano per accarezzare Afrodite; la gatta sbatté la coda con violenza e gli puntò addosso gli occhi gialli, e Vittorio avrebbe potuto giurare di averci visto dentro un avvertimento tutt'altro che amichevole.
   «Io non lo farei» gli consigliò Vera, nascondendo di nuovo la bustina tra i cuscini del divano. «A lei non piace essere toccata».
   «È bellissima» disse sincero Vittorio. «Anche Efesto lo è, ma lei ha qualcosa...»
   «... di regale?» concluse Vera al posto suo. «Sì, lo so. Di regale ha anche la spocchia, però: ci guarda come se fossimo tutti suoi servi e stare al suo cospetto sia un onore troppo grande».
   «Mi ricorda qualcuno» sogghignò Vittorio.
   La ragazza alzò una mano con cautela; passò un paio di volte la punta dell'indice sulla corta peluria che copriva il ponte del naso di Afrodite, che chiuse gli occhi, poi le accarezzò la testa tre o quattro volte col dorso delle dita, stando attenta a non toccarle le orecchie, prima di ritrarre la mano.
   «Attento, Valenti: potrei sempre aizzartela contro» minacciò infine.
   «E ti darebbe ascolto?» chiese l'uomo, scettico.
   Vera ci rifletté con attenzione per qualche momento. «Probabilmente no» ammise.
   Vittorio sorrise; accarezzò di nuovo Efesto, poi tornò serio.
   «Voglio parlare con te, Vera» disse piano.
   Lei spinse fuori un breve sospiro. «Di quello che è successo ieri sera, vero?»
   «No» rispose Vittorio. Vera, più sorpresa che mai, sobbalzò e lo fissò incredula, e lui chiuse gli occhi una seconda volta. «O meglio, non proprio». Si accarezzò il mento, coperto da un velo di barba; Efesto gli punzecchiò il petto con la zampa e l'uomo lo accontentò, riportando la mano sulla sua testa. «Anche se ho passato vent'anni a Milano io sono nato e cresciuto qui a Roma, ormai lo sai» esordì, cambiando completamente discorso. «Facevo la vita di qualsiasi altro ragazzino: andavo a scuola, giocavo a calcetto all'oratorio della parrocchia, aiutavo mia madre con le faccende di casa». Sorrise appena, gli occhi chiusi. «I miei genitori lavoravano entrambi: mio padre come vigile urbano e mia madre in una scuola elementare, in amministrazione, e mi è stato insegnato fin da piccolo che in casa bisogna dividersi i compiti e collaborare. Certo, più crescevo più erano le occasioni in cui mi scocciava fare la mia parte e a volte, quando mia madre non c'era, mio padre mi lasciava uscire e faceva anche quello che sarebbe toccato a me: è sempre stato lui a coprirmi quando combinavo qualche guaio, a comprarmi il motorino quando mia madre non voleva, a insegnarmi come comportarmi con le ragazze...». Sorrise di nuovo. «Mia mamma, lei era – è – una generalessa: comanda tutti a bacchetta, a volte senza che neanche tu possa accorgerti che ti sta facendo fare esattamente quello che vuole. L'unico che non riusciva a comandare era papà: quando discutevano era come... come guardare una palla d'acciaio che colpisce un muro di gomma: lei furiosa e lui impassibile. In questo, penso di aver preso da mamma». A quelle parole, sia Vittorio che Vera ridacchiarono. «Quando sono cresciuto un po', i fine settimana estivi sono diventati la pace. Letteralmente. Mia madre prendeva mia sorella, che ha cinque anni meno di me, e la portava a Santa Severa dalla zia; io e mio padre, invece, ce ne restavamo a Roma, per conto nostro, e mettevamo tutto in ordine solo un'ora prima che tornassero, la domenica sera. Erano belle giornate: parlavamo tanto, di tutte quelle cose di cui non potevamo o volevamo discutere davanti a mia madre. E poi sono cresciuto ancora: un'estate ho iniziato a uscire di sera con gli amici, ad avere una fidanzatina, e papà mi permetteva di tornare più tardi del solito. Mi guardava, ammiccava e diceva: “Quando la generalessa non c'è, i detenuti ballano!”. Ma io ero... ero stupido, no, come lo sono spesso i ragazzi a diciassette anni. A volte non mi bastava neanche così, e c'erano occasioni in cui non rispettavo il coprifuoco: rientravo una, anche due ore più tardi del previsto, senza avvisare, perché non pensavo al fatto che... che mio padre si sarebbe potuto preoccupare. E infatti si preoccupava; mi aspettava in piedi, e quando finalmente tornavo a casa, mi mollava anche un paio di ceffoni». La sua bocca si torse nell'amara parodia di un sorriso. «Ma continuavo a farlo: non importava che mia madre mi chiedesse di tenere d'occhio mio padre perché era stato poco bene, non importava che lui fosse già tanto permissivo di suo – ero un ragazzino egoista, ed ero arrivato in quella fase della vita che alcuni sperimentano: pensavo solo a quello che volevo io, e tutto il resto non aveva importanza». S'interruppe e deglutì vistosamente. «E così arrivò un sabato sera di metà luglio, caldissimo, afoso da morire: io e i miei amici eravamo riuniti nel rustico della casa di uno della comitiva, a bere birra ghiacciata e dire scemenze, e io non avevo voglia di tornare a casa. Non ce l'avevo. Così, anche se sarei dovuto rientrare all'una, sono rimasto fuori fino alle tre passate: ho aperto la porta di casa, sicuro che mio padre mi avrebbe riempito di schiaffi appena avessi varcato la soglia per aver fatto così tardi e aver bevuto tanto e poi guidato il motorino fino a lì, ma lui... lui non c'era, ed era strano, perché le luci erano accese e la televisione anche. Sono... sono andato in cucina e mio padre era lì... sul... sul pavimento, e io sono corso da lui ma non si muoveva, non respirava, non...». S'interruppe e prese un respiro spezzato; una lacrima gli scivolò verso la tempia e se l'asciugò con un gesto brusco. «Aveva avuto un infarto. Aveva avuto un infarto e io non c'ero: ero fuori, troppo impegnato a fare il deficiente, a bere troppo, a perdere tempo in modo stupido. Con l'autopsia hanno stabilito che si era trattato di un infarto fulminante: mi hanno detto tutti che anche se fossi stato a casa quando era successo non avrei potuto fare niente, quasi di sicuro sarebbe morto ugualmente, ma io mi odiavo comunque: ero disgustato da me stesso, e mi sono sentito in colpa per parecchi anni. Mi ritenevo responsabile per quello che era successo, e... e neanche mia madre è mai riuscita a convincermi che non fosse così: sono dovuto arrivare a trentaquattro anni per smettere di pensare che mio padre sia morto a causa mia». Rise amaro. «Ho smesso di odiarmi per la sua morte, soltanto per farlo per un altro motivo. Perché se non fossi stato tanto egoista magari non l'avrei salvato, ma almeno sarei stato con lui: invece, per colpa della mia stupidità, mio padre non solo è morto, ma è morto da solo, e questo sì non me lo perdonerò mai».
   Vera gli asciugò una seconda lacrima che era sfuggita ai suoi occhi, poi gli sfiorò le palpebre con i polpastrelli: Vittorio le schiuse, e vide che la ragazza lo stava fissando con aria comprensiva.
   «Perché mi stai raccontando tutto questo?» mormorò Vera.
   Vittorio prese un altro respiro profondo e puntò lo sguardo verso il soffitto. «Per farti capire che quello che hai detto ieri sera non è vero: io so che significa, perdere una persona amata e sentirsi in colpa per questo, e so che significa essere schiacciati da quel senso di colpa al punto da cercare l'autodistruzione. Tu hai provato a suicidarti; io ho iniziato a scatenare una rissa dopo l'altra per buttarmici dentro a testa bassa, per pestare a sangue gli altri ed essere massacrato con altrettanta violenza. Alla fine, è stato diventare un carabiniere che mi ha salvato: ho scelto l'Arma quando sono stato costretto a fare l'anno di leva obbligatoria e ho capito che non c'ero stato per mio padre quando ne aveva avuto più bisogno, ma che ci sarei potuto essere per altre persone; è stato il mio modo di espiare la colpa che mi soffocava, e lentamente si è trasformato nell'unica cosa in grado di rendermi felice e fiero di me stesso».
   La ragazza gli picchiettò un dito in mezzo alla fronte.
   «Pensi che diventare un carabiniere guarirebbe anche me?» chiese con leggerezza forzata.
   Vittorio tornò a fissarla.
   «Penso che anche tu possa trovare qualcosa che non ti faccia più sentire in colpa di essere viva» replicò serio.
   Vera si lasciò andare contro lo schienale del divano.
   «Come un salvagente?» chiese piano.
   «Come un salvagente». Vittorio chiuse di nuovo gli occhi, di colpo esausto; si girò su un fianco e si accoccolò meglio contro la gamba di lei, una mano appoggiata sulla schiena di Efesto. «Se vuoi, posso essere io il tuo salvagente. Finché non trovi qualcosa che ti renda di nuovo felice» mugugnò, già mezzo addormentato.
   Vera gli accarezzò la fronte. «Sarebbe carino» mormorò.
   Vittorio non rispose: il suo respiro era lento e profondo, chiaro segno che stava scivolando nel sonno. Vera chiuse gli occhi a sua volta, e nonostante la schiena le facesse male e le sue gambe fossero intorpidite, anche lei in breve tempo si addormentò.

******

Quella parentesi di tranquillità non durò a lungo: a mezzogiorno e tre minuti, infatti, Vittorio spalancò gli occhi, perfettamente sveglio.
   Il carabiniere si stiracchiò, rischiando di schiacciare Efesto. Il gatto tigrato miagolò intontito e gli rivolse un'occhiata in parte confusa e in parte offesa, e Vittorio gli concesse una veloce grattatina sulla collottola per farsi perdonare; Afrodite, invece, socchiuse un solo occhio, scoccò ai due uno sguardo indifferente e tornò a dormire. Per un momento, Vittorio invidiò la totale noncuranza del felino placidamente spalmato sullo schienale del divano; poi si mise a sedere con cautela e si girò a guardare Vera.
   Nel sonno, la ragazza si era inclinata su un fianco, fino ad accoccolarsi contro il bracciolo della chaise longue: la sua testa penzolava di lato, e quando si fosse svegliata, di sicuro sarebbe stata parecchio dolorante. A colpire di più Vittorio, però, fu l'espressione di Vera: persino mentre dormiva, il suo volto restava serio, quasi contratto in una smorfia aspra. Era triste – almeno ai suoi occhi – come neanche nell'incoscienza, Vera riuscisse a essere del tutto serena.
   Vittorio si sporse e le posò una mano sulla spalla.
   «Ehi, è ora di svegliarsi» mormorò, scuotendola leggermente. Vera si rannicchiò di più contro i cuscini e l'uomo alzò gli occhi al cielo. «Avanti, Gamba Bionica, svegliati».
   «La smetterai mai con questo dannato soprannome?» grugnì lei, rassegnandosi all'inevitabile e aprendo gli occhi.
   «Visto che funziona... no» ribatté Vittorio. «Allora, sei tornata nel mondo reale?»
   «Sfortunatamente, sì» mugugnò Vera. «Si può sapere perché non mi hai lasciata dormire?»
   «Perché io e te abbiamo una cosa da fare» rispose il carabiniere. Vera impallidì.
   «Oddio, e adesso che ti sei messo in testa?» gemette, sconfortata. Vittorio le lanciò un'occhiataccia, ma lei finse di non accorgersene. «Allora? Non tenermi sulle spine! Lo sai come si dice, no? Via il dente, via il dolore!»
   «Bene». L'uomo la guardò, un po' torvo. «Devi chiamare il tuo psicologo e dirgli che deve vederti subito».
   Vera gli rivolse uno sguardo incendiario. «E se non volessi?»
   Vittorio non perse un istante. «Non hai voce in capitolo» replicò duro.
   «Credi?» sibilò la ragazza. «Perché, per quanto ne so, non mi puoi costringere».
   «Io forse no, ma qualcun altro sì» ribatté mordace Vittorio. «Sono serio: se non chiami il tuo psicologo in questo istante, dirò ai tuoi genitori cos'è successo ieri sera. Scommetto che loro hanno il potere di costringerti e lo useranno».
   Vera boccheggiò. «Avevi promesso che non lo avresti detto a nessuno!» esplose, tradita.
   «E infatti non voglio farlo» disse Vittorio. «Ma non posso neanche permetterti di tenerti dentro quello che ieri sera ti ha fatta di nuovo arrivare al limite. Non posso, Vera, riesci a capirlo?»
   La ragazza appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa tra le mani.
   «Mi vergogno di essermi spinta tanto oltre» confessò con voce bassissima. «Dopo tutto quello che è successo, dopo aver varcato quel limite già una volta ed essere viva solo per un caso fortuito, dopo tutto il lavoro fatto per non ripetere quell'errore, io... io l'ho fatto lo stesso». Sospirò. «Ho fallito, Valenti. Mi sento una maledetta fallita».
   Il carabiniere di spostò più vicino a lei. «Non sei una fallita: sei una persona che nella vita ha alti e bassi come tutti... solo un po' più... accentuati, diciamo».
   Vera sbuffò. «Accentuati...» ripeté. «Questo è l'eufemismo dell'anno».
   «Sì, forse non è il termine adatto» ammise l'uomo. «Questo però non cambia la sostanza di quello che ho detto. Avere dei momenti di debolezza non significa fallire: soltanto essere umani». Le mise una mano sul ginocchio destro. «Vera, ci devi andare, dal tuo psicologo. Questa è esattamente una di quelle situazioni in cui è giusto e sacrosanto ricevere l'aiuto di uno specialista». Le sue spalle si afflosciarono. «Non è diverso dell'andare da... da un gastroenterologo, o da un fisioterapista, o da un qualsiasi altro medico. È la stessa cosa».
   «No che non lo è» replicò secca la ragazza. «Non agli occhi di molta gente, comunque».
   «Questo non toglie che devi andarci» sottolineò Vittorio.
   Vera si strofinò gli occhi. «Mi scoccia: andare dal dottor Sanesi significa parlare dei miei errori, ed è una cosa che non sopporto».
   «Commettere errori, o ammettere ad alta voce di averlo fatto?»
   «Entrambi».
   Vittorio sbuffò incredulo. «Tutti sbagliamo, e di continuo: mi sa che ti conviene fartene una ragione, Gamba Bionica». Le diede una pacca sul ginocchio e si alzò. «Avanti, chiamalo».
   Vera gli lanciò uno sguardo irritato, di cui Vittorio non si curò; rassegnata, prese il cellulare, selezionò il numero dello psicologo dalla rubrica e avviò la chiamata.
   «Gianpaolo? Sono Vera, Vera Nicolini» disse la ragazza non appena Gianpaolo rispose. «Lo so che sei pieno di appuntamenti ma... ma ho bisogno di parlare con te». L'uomo replicò brevemente e Vera si mordicchiò un'unghia. «Ne ho davvero bisogno: è... è un'emergenza. Una vera» pigolò. Rimase in ascolto per qualche momento. «Sì, va bene. Sì, sì. A dopo».
   Vera chiuse la chiamata e guardò Vittorio.
   «Può vedermi all'una: soddisfatto?» mugugnò.
   «Sì». Il carabiniere si frugò nelle tasche dei pantaloni e le lanciò le chiavi della macchina. «Prendi la borsa e andiamo».

******

La sala d'aspetto del dottor Gianpaolo Sanesi era piccola e confortevole: un rettangolo di nove metri quadrati scarsi, con due soffici divani posti uno di fronte all'altro, addossati alle pareti adornate da un paio di quadri astratti, e tra loro una finestra da cui la luce del sole entrava a fiotti.
   In quel momento, Vera e Vittorio erano gli unici occupanti della saletta: la prima era seduta il più vicino possibile alla finestra e guardava ostinatamente oltre il vetro dal momento in cui aveva messo piede lì dentro; il secondo, da parte sua, si era limitato a studiare l'ambiente circostante per circa trenta secondi e il resto del tempo l'aveva trascorso fissando l'ex ginnasta.
   Per il settimo minuto consecutivo, gli occhi di Vittorio rimasero incollati alle gambe di Vera: erano accavallate, la destra posata rigidamente sulla protesi, e il piede dondolava rapido e nervoso ormai da un pezzo.
   «Smettila».
   Preso alla sprovvista, Vittorio sobbalzò e scosse la testa prima di alzare lo sguardo sul volto della ragazza: lo stava fissando con espressione imperscrutabile, e soltanto una piccola ruga tra le sopracciglia lasciava intuire la sua irritazione.
   «Devo smettere... cosa?» chiese perplesso il carabiniere.
   «Di guardarmi le gambe: mi dà fastidio» spiegò secca Vera. Rimise a terra il piede destro e si massaggiò il moncone, una smorfia di dolore sul volto. «Stupida protesi» ringhiò.
   Vittorio osservò guardingo Vera; ripensò all'ultima volta che le aveva chiesto se stesse bene, e si chiese se fosse saggio azzardare di nuovo una simile domanda, proprio lì, proprio in quel momento.
   «Ti fa male?» domandò a bruciapelo. «E non mi mordere» aggiunse rapido prima che Vera potesse esplodere un'altra volta.
   Lei gli scoccò un'occhiataccia, ma si morse la lingua e contò fino a dieci per evitare di essere sgarbata. «Sì che mi fa male: sono stata in piedi troppo a lungo, non ho fatto riposare la gamba, non ho mai tolto la protesi... tutto quello che non dovevo fare». Si diede un pugno sulla coscia, come se quel gesto potesse far cessare il dolore invece di peggiorarlo. «Odio questi momenti».
   Il carabiniere incrociò le braccia al petto. «A nessuno piace star male».
   «Non è il dolore fisico: quello ho imparato a sopportarlo» brontolò Vera. «È che ogni volta che mi fa male questo inutile pezzo di gamba, ricordo quanto sono rotta, e difettosa, e limitata, anche nelle azioni più semplici».
   «Serve a qualcosa dirti che non sei così difettosa e limitata come credi?» replicò Vittorio.
   Vera tornò a guardare fuori dalla finestra. «Non serve, Valenti, perché è una bugia talmente evidente da essere ridicola».
   Vittorio la fissò, senza sapere cosa dire. Vera aveva ragione: affermare che non aveva dei grossi limiti era una panzana così sfacciata da risultare offensiva. Quello che avrebbe voluto dirle, e che non sapeva come esprimere, era che quei limiti, sebbene fossero reali, erano molto meno importanti di quanto potessero apparire: non diminuivano in alcun modo ciò che era, ma al contrario, finivano per accentuare tutto di lei, tanto i pregi quanto i difetti.
   Prima che Vittorio potesse trovare un modo di tradurre in parole quei pensieri, la porta dello studio dello psicologo si spalancò e ne emerse il dottor Sanesi; Gianpaolo lanciò loro un rapido sguardo, poi accompagnò all'uscita il paziente con cui era stato occupato fino a quel  momento. Quando si richiuse il battente alle spalle, lo psicologo scrutò la coppia nella sua sala d'attesa.
   «Vera» esordì in tono d'avvertimento, «credevo avessimo stabilito che lui» proseguì, indicando Vittorio, «non rientra tra le emergenze».
   I due si alzarono quasi contemporaneamente, ma fu Vittorio a prendere la parola.
   «Non è per parlare di me, che è qui» disse laconico il carabiniere. Prese Vera per un braccio e la sospinse con gentilezza oltre Gianpaolo e dentro l'altra stanza.
   «Guardi che lei qui non ci può stare» chiarì lo psicologo a Vittorio, seguendoli all'istante.
   «Me ne vado subito» lo tranquillizzò l'altro. Indicò Vera. «O almeno, non appena Vera le avrà detto perché ha bisogno di vederla».
   Gianpaolo gli lanciò uno sguardo tutt'altro che felice, ma decise di concentrarsi sulla ragazza. «Vera?»
   Lei deglutì. «Allora, ieri... ieri era l'anniversario dell'incidente».
   «Sì, ne avevamo parlato l'ultima volta» assentì Gianpaolo. «Qual è il problema? Hai avuto delle difficoltà durante la giornata?»
   «Sì, è... io ho... ho faticato un po' a... ad arrivare... a oggi» farfugliò Vera con voce sottile.
   Vittorio sbuffò. «Questo è l'eufemismo del secolo» dichiarò, tagliente. «Digli quello che hai fatto».
   Gianpaolo scoccò un rapidissimo sguardo al carabiniere prima di tornare a fissare Vera; la ragazza si torse le mani ed evitò il suo sguardo.
   «Ieri sera ho avuto un... un piccolo... momento... di confusione» proseguì lei.
   «Un piccolo momento di confusione?» le fece eco Vittorio, incredulo. Gianpaolo aprì la bocca per intimargli di tacere, ma non ne ebbe il tempo. «Quello non è stato un “momento di confusione”! Non è stato normale!» tuonò. «Digli cos'hai fatto!»
   «Lo sto facendo!» reagì la ragazza, furiosa.
   «Non è vero!» gridò Vittorio, arrabbiato quanto lei. «Ci stai girando intorno, stai cercando di non dire chiaramente cos'è successo per farlo sembrare meno grave!». I due si scambiarono uno sguardo cattivo, entrambi ansanti. «Avanti! Dillo! Se hai almeno un po' di coraggio, se hai almeno un po' di decenza e di rispetto per chi ti sta intorno, se hai un minimo desiderio di stare meglio quantomeno per loro, dillo!»
   «Volevo buttarmi giù da Ponte Milvio!» esplose Vera.
   La rabbia che riempiva l'aria sembrò sgonfiarsi come un palloncino bucato; Vera si coprì la bocca con una mano, scioccata dalla sua stessa ammissione, mentre le spalle di Vittorio persero tutta la tensione che le aveva irrigidite fino a quel momento e si afflosciarono. Gianpaolo guardò dall'uno all'altra, spiazzato dalla breve, improvvisa lite a cui aveva appena assistito e dalle parole di Vera.
   «D'accordo: questa è un'emergenza» commentò lentamente Gianpaolo, spezzando infine il silenzio. «Vera, siediti: abbiamo molto di cui discutere» disse in tono calmo e rassicurante. «Lei adesso deve proprio uscire» aggiunse, rivolto a Vittorio.
   Il carabiniere annuì; raggiunse la porta con un passo e la aprì prima di guardare Vera.
   «Ti aspetto fuori» mormorò.
   Vera si lasciò cadere sul divanetto al centro della stanza e chiuse gli occhi, esausta.
   «Non ce n'è bisogno, Valenti» sospirò.
   «Quando hai finito mi devi accompagnare al comando: sono senza macchina, ricordi?» replicò leggero Vittorio.
   L'ex ginnasta riaprì gli occhi e gli scoccò uno sguardo affilato. «E non c'è nessun altro che possa venire a prenderti, vero?»
   Il carabiniere scrollò noncurante le spalle. «Sicuramente c'è, ma preferisco farmi dare un passaggio da te».
   Vera sbuffò. «Solo perché così mi puoi tenere d'occhio» disse aspra.
   «Anche» confermò l'uomo, per nulla toccato dal suo malumore. Varcò la soglia e si richiuse la porta alle spalle. «A dopo!» urlò attraverso il battente.
   La ragazza scosse la testa; quando si fermò, Gianpaolo era seduto davanti a lei.
   «Allora, Vera: parliamo un po'» disse dolcemente.
   
 
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