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Autore: kanagawa    29/06/2018    2 recensioni
Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo ....
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica.. La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai. Tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla... tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili, e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
“Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
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[Edit capitolo 3 e 6]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenji Fujima, Shinichi Maki
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Light from a dead star'
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 AVVERTENZE: Questo non è l’ultimo capitolo. Per leggere l’ultimo andare al capitolo precedente.
EDIT: Ritagliata cronologicamente tra il terzo e il quarto capitolo, questa storia è un lapsus di tempo scritto con uno hiatus di.. forse 3 anni? Probabilmente lo stile non risulta lo stesso, è un capitolo aggiuntivo. Era una delle due cose che mancavano. Siccome ci tenevo a questa storia, per qualche ragione che nemmeno io conosco... Spero non stoni con il resto e che sia una passabile lettura.


 

 

Messaggi ricevuti
29 aprile 14:17
From: K.Fuji@hcg.jp
To: me
Sono qui.
 

Messaggi ricevuti
29 aprile 14:19
From: ShinMaki@xxx.al
To: me
Arrivo tardi, perdono. Vieni verso l’uscita est. Ci incontriamo a metà strada_ _
 

Scrisse al volo il messaggio mentre scendeva di corsa quei dannati gradini ravvicinati, sorvolando il comodo nastro delle scale mobili che vi scorreva imperturbato accanto. Aveva fretta. Troppa, in effetti, anche solo per rendersi conto che un moderno elevatore gli avrebbe risparmiato la metà delle fatiche e fatto guadagnare tempo -non sia mai, Kami-sama, arrivare in ritardo lui, proprio no-, sicché tutte le energie furono ingranate ai tricipiti impazienti e la ragione poteva andare a farsi benedire poiché lui, Shin’ichi Maki - e il nome è una garanzia-, oggi lo avrebbe rivisto dopo 7 lunghi mesi di attesa e non avrebbe aspettato un solo secondo in più, costi quel che costi.
O almeno, così congetturava …
 
Messaggi ricevuti
29 aprile 14:41
From: ShinMaki@xxx.al
To: me
Dove diamine sei??
 

Sulla soglia di una tremolante luce pomeridiana, Fujima dileguò una veloce smorfia e ponderò sulla tastiera poche parole esitanti “all’uscita est…”, che poi cancellò in fretta e corresse semplicemente con un “non ti muovere”. Schiacciò l’invio e si rimise la tracolla sulla spalla.
Reindirizzò i passi verso il sottosuolo di quel labirinto chilometrico, sotto i neon abbaglianti, a tracciare daccapo l’intricato percorso una seconda volta tra flussi in controvento di passeggeri in evacuazione da sommossa simulata, il cuore in gola e uno strano palpito allo stomaco. No, non aveva dormito in aereo, né sul treno, né in metropolitana; masticando poco più di un cracker al sale marino, ma non c’entrava la stanchezza, o il fuso orario. Questo stordimento cosciente, come un velo ovattato sulla nuca. Questa ansia, che sapeva di paura e d’euforia; era forse felicità?
Respira, respira. Ed era ciò che fece a ridosso delle scale mobili che aveva fiancheggiato poc’anzi per risalire e dove, come previsto, aveva sorpassato la discesa trafelata dell’altro in sua rincorsa mancata che era rimasto lì -a metà strada come aveva detto-, come un allocco a maledire i suoi contrattempi, mentre lui lo aspettava alla fine della stazione, dopo aver esaurito la strada su cui si erano prefissati di incontrarsi, ma eccoli lì, tutt’e due, finalmente, a guardarsi con i loro veri occhi, per quanto increduli e impacciati fossero, estorcersi a vicenda di un sorriso che non seppero sedare sotto i muscoli facciali. Fujima si lanciò dalla cima delle scale, lo zaino che ballava dietro di sé, e in una manciata di gradini gli fu sul collo, con tanta foga da sbilanciarlo in quell’unico intenso abbraccio che gli tolse la voce e ogni fiato di ricusa. «Maki, Maki …» Mormorò stringendolo più a sé, e lui ne lambì il respiro umido lungo il tendine mentre ricambiava, le dita tra i capelli setosi. Non frenò all’eco di una risata profonda e suadente che gli accarezzò la gola per sommergere le prime parole che emersero dalle sue belle labbra arcuate. «Stupido.»
Ah, e ancora. «…Bentornato.»
 

D’accordo, non erano 7 mesi. Ne erano trascorsi 12, in realtà, quasi un anno intero ad attendere sue notizie e procrastinare ogni centimetro di ottimismo e tolleranza man mano che il tempo -le ore, i giorni, i mesi- cominciava a pesare su tutto il resto, ma ecco che quasi a ridosso della primavera finalmente giungeva la fatidica chiamata d’oltreoceano, asmatica e tossicchiante d’interferenze tropicali, ad assodare la sua tuttora esistenza da qualche parte disperso nel continente sudamericano: sono vivo, sto tornando. Perfetto, gli rispose; non sarebbe stato Fujima, altrimenti.
No, non era particolarmente risentito. Aveva avuto in fondo il suo da fare nell’anno trascorso, esami, uscite, nuove compagnie, nuova vita; nulla di cui lamentarsi. E in fondo, confidava nel fatto che prima o poi sarebbe tornato, con le sue tempistiche ben intenso. Non era stato deluso.
«Hai solo quello di bagaglio?»
Varcata ormai l’entrata del campus, Maki finalmente mise a fuoco un dettaglio screditato lungo il tragitto di ritorno dalla stazione metropolitana, non del tutto irrisorio in effetti. «Ho con me le cose essenziali, il resto è da un amico a Rio.» Nell’anno che non si erano visti era dimagrito, strusciava le suole Fujima sul selciato del giardino con palme e siepi basse, le lenti scure a infrangere i raggi di un’insolazione decisamente fuori stagione, che fra parentesi gli donavano divinamente, mentre passeggiava con le mani nelle tasche dei jeans stretti, a maniche corte improbabili e un’aria svagata da turista capitato per caso in città. Sarebbe rimasto poco e per nessuna ragione al mondo sarebbe tornato a casa sua in quel poco o più; sicché fu soluzione fatta nel momento in cui Maki telefonò a casa per comunicare ai suoi che per il Golden Week sarebbe rimasto nel dormitorio dell’università con un permesso speciale, al contrario della consuetudine che voleva sgombro e pacifico l’edificio per le prime festività dell’anno accademico in transito, e dal momento che il suo compagno di stanza aveva buona abitudine di non contravvenire alle ferie d’ordinanza, per quella settimana Fujima sarebbe stato suo ospite in incognita.
Non si scambiarono tante parole per tutto il tempo, Fujima gli camminava accanto affacciandosi ogni tanto a infrangere il silenzio con un sorriso, poi niente. Era sempre lui. Era qui… Aveva cercato di dileguare questo punto, Maki, trattenendo a sé quello strato di distacco velato per non dargli ulteriore spazio nel cuore, come si potrebbe affermare la sua non presenza anche se lo aveva di fronte a sé senza sventagliare contraddizioni ontologiche? No, ma non scherziamo, lui non frequentava fortunatamente il dipartimento di filosofia della quale una scettica mente scientifica avrebbe fatto volentieri a meno, cosicché altro non rimase che accettare la sciagurata realtà dei fatti e amplificare stoicamente quel tratto di disagio che pian piano incominciava a formicolare la pelle esposta dopo aver superato la soglia della paura. Le farfalle allo stomaco. No, non voleva sentirsi così.
Incrociarono poco più di due ombre vaganti per diversi isolati di palazzi didattici, per lo più ricercatori infestanti i laboratori in cerca di luce e viveri. L’edificio B4 adibito a dormitorio maschile era un silenzio regnante di bianco su 4 piani, nei giorni feriali intasato di odorosa e chiassosa gioventù, ora filtrava quell’insolita aria di abbandono che qualche volta raramente gli era capitato di cogliere nelle ore di lezione o in certe serate un po’ alla deriva. «Scusa.» Allungò e ritrasse la mano come scosso da elettricità statica nel medesimo istante in cui lui fece altrettanto, come un curioso specchio dei rovesci, ma in perfetta impacciata simmetria. «Scusami tu.» Fujima si portò l’incriminante all’altezza della fronte, accarezzandone lieve una porzione sulle nocche, scuotendo il capo in un riso nervoso. Come un cavallo inquieto Maki indietreggiò di un passo per trottare di nuovo in avanti e sostando sulla maniglia, maledetta, la impugnò infine per dare accesso al proprio ospite. E dire che si era premurato di non mostrarsi in alcun senso ansioso o esasperare ingloriose galanterie, perciò ebbe adito a entrare per primo e lasciare attecchire lentamente la porta dietro di sé senza farlo apparire un gesto di voluta delicatezza ed evitando di sbattergliela in faccia, in fondo. Sospirò, cominciamo bene la settimana. Sperò di essersi sbagliato. Tensione, Fujima era teso. Lui teso… Che sia il fuso orario? Non che indugiasse in dubbi profondi, ma preferiva ignorare alcuni palesi dettagli. Troppo palesi.
Forse era ora di smetterla di fingere… Ebbe l’urgenza di focalizzare un punto stabile sotto di sé per non distogliere gli occhi dallo spazio e dagli eventi, trovò curiosamente avvincente l’incrociarsi dei lacci sugli scarponi marroni. Lui lo sapeva; e sapeva che Fujima sapeva. Questo non potrebbe essere sufficiente a spianare ogni dubbio o avversità? Ma per logica non era mai andato molto lontano con lui, poi c’era il tempo, già, il tempo… E forse quel tempo ingoiato nel silenzio da 12 mesi alimentava la sua ansia irrazionale più di ogni altra cosa. Doveva sapere, sapeva di dover chiedere, avere risposte, conferme, sperando forse in un non rifiuto; a questo punto, una parte di sé capiva perfettamente di averlo già accettato in parte … Ma quale parte, in fondo? Il coniglietto gira intorno all’albero, va nella tana e tira forte …
«Rilassati, sei teso come una corda.» Buttò Fujima gettandosi sul letto -presumibilmente suo- affacciato di fronte alla debole luce del cielo appena rannuvolato che una scrivania ordinata rifiniva sotto il telaio della finestra. Lo zaino afflosciato alla medesima sorte accanto alla fiancata, incrociò le gambe sopra la coperta leggera, le scarpe ancora indossate, batté due volte il materasso con una mano spigliata. «Bel posticino.» Maki si sedette. «Dici?» Che cavolo dici? Sarebbe suonato più sincero. Accavallò le gambe per disperdere lo sguardo in giro vagamente corrucciato.
«Cosa mi racconti?» Gli sembrò di svegliarsi da un lungo trance. «Eh?» Fujima si era allungato in avanti e tendeva ora il collo per vederlo più espressamente in viso. Sorrideva. Sorrideva con quella maledetta punta di malizia negli occhi che sapeva in lui di irritazione e aspettative tradite, di incognite seducenti e trappole insondabili. Adorava quello sguardo. Sorrise, Maki, non potendo velarsi di un moto di tenerezza. «Non so, cosa vuoi sapere?» Chiese piano. Fujima flesse il capo da un lato e divagò sornione. «Qualcosa che ti preme io debba chiedere, immagino.» Lui annuì due volte, vicino, sollevando gli angoli delle labbra. Qualcosa di caldo, denso, senza voce. Un tepore appena percettibile. Non si sfiorarono.
Forse qualcosa stava per finire, o forse iniziava, in quel pomeriggio nuvoloso disperso dietro alle tende di trama ruvida, sul vetro sibilato dal vento che premeva sabbioso, chiuso in un pugno stretto al suo grembo. Che cosa fossero diventati a quel punto non lo sapevano, superate le distanze necessarie anteposte all’ego che un tempo solcavano le differenti battaglie dei loro cuori trincerati, ora esposti nell’ultimo strato di orgoglio che li copriva, la pelle reciproca, latenti e vulnerabili, finalmente se stessi.
Da quando era cominciato? Da quando le cose tra loro si erano evolute fino a prendere il soffio di questa forma effusa e impalpabile? Da una parte coscienti, ché per quanto ostinati mai furono sprovveduti, c’era tuttavia ancora quell’altra metà di loro stessi che si trastullava sul taglio del limite senza alcuna fretta di varcarne la soglia già intravvista, a quanto pare. Se tutto cominciava da un bacio, forse tutto era destinato a terminarvi entro, e in entrambi i casi ne sarebbe bastato uno solo. Uno solo … Lo ricordi ancora il vento che mugghiava nel fischio della locomotiva? Le ricordi le tue dita tra i suoi capelli aggrovigliate? La furia frettolosa e la tenerezza smembrante fra le sue braccia, una goccia lenta di sudore tergeva la tempia. Era aprile.
E improvvisamente si era reso conto che non aveva più bisogno di sapere…
«Ricordami per quale ragione siamo qui…» Riebbe in un mormorio inconscio, Maki, i ricettori sensibili a tastare il respiro di Fujima sulla fessura lacera e delicata delle sue labbra, una, due, tre volte, fino a perderne il conto, quando la ragione in ritardo era giunta finalmente ad accodarsi affannata alla corsa dei suoi sensi. «…Non me lo ricordo.» Soffiò lui preoccupandosi di sprecare meno sillabe possibili. Le parole gli erano d’intralcio.
Il corpo non dimentica. Un anno era passato da quell’unico bacio in stazione eppure era come se non si fosse mai interrotto, come se per tutti quei trecentosessantacinque o più giorni non avessero fatto altro dalla mattina alla sera. Tutte le sensazioni provate quel pomeriggio d’aprile si accesero una a una come fuochi offuscati tra le onde in tempesta lungo le sue membra e lui si lasciò guidare, inseguendo un non si sa quale meta nella cecità più ignara, incespicando ogni tanto per riprendere fiato e sbalordito porsi dubbi su come proseguire. Si sfilò innanzitutto le calzature per buona creanza e aiutò il compagno -amico, amante, o qualunque cosa fosse- a fare altrettanto, fu metodico e delicato mentre slacciava una a una le stringhe delle logorate Converse bianche; Fujima lo osservava come in trance, sorreggendosi sulle braccia, lo sguardo azzurro rapito. La destra cadde sulla punta e si distese, nel tonfo seguì la sinistra. Non fece in tempo a voltarsi e si ritrovò nuovamente quel palpito precipitoso sulla bocca, sospingersi, solleticarla, lo prese da sotto le ascelle e lo issò su di peso, accomodandoselo sopra l’intreccio delle proprie gambe. Lo accarezzò gelosamente sotto la striscia di cotone, mentre si immergeva sempre più nelle viscere del suo respiro, l’alternarsi delle vertebre appena accennate lungo il crinale dell’esile schiena, in cima come ali le scapole appuntite. Fujima gli teneva il viso tra le mani, stringendosi nelle spalle nell’angusto riparo offerto dalle sue braccia. Risalendo aveva rialzato per metà la maglietta ormai sgualcita del compagno lasciandola lì dov’era, le dita forti strinsero un ciuffo di chioma sulla base della nuca costringendolo a sollevare il mento e scoprendo la giugulare inerte su cui Maki affondò immediatamente i denti. Un mugolio di piacere sofferto e un fremito nel basso ventre, mentre i suoi sensi si incendiavano.
La maglietta era sul parquet, rigettata nella confusione alla rinfusa con un altro paio di indumenti. Febbrilmente lucido, per tutto il tempo Maki si chiese quale fosse la procedura esatta, ponderò inumidendosi il labbro inferiore, il viso corrucciato, e prese a sbottonare l’apertura dei jeans che lui portava sentendosi un po’ idiota. Non mancava di immaginazione, senz’altro, ma nella fattispecie Fujima rappresentava un territorio, un avversario del tutto sconosciuto, nonostante quel carico complicato di trascorsa conoscenza reciproca; e ancora una volta, Maki si rendeva conto di non conoscerlo affatto, cosa originasse il piacere e dove confinasse col dolore… Ma lo stesso non valeva forse anche per se stesso? E fu cercando la sua approvazione che le dita presero a misurare per la prima volta l’epidermide tesa e pulsante sfogliata poc’anzi del risvolto di stoffa che l’accarezzava soffocandola, racchiudendone la lunghezza in un palmo madido e comprimendo un soffio di assestamento. «…Non sono pratico, scusa.» Disse muovendosi lentamente quasi a scuotere il capo per imputarsi d’impreparazione. «Stai andando bene.» Sospirò Fujima incoraggiante, altrettanto in difficoltà. Maki si chinò per baciarlo. «Più veloce…» Istruì pazientemente e lui eseguì. Era sempre stato un bravo coach. Stavolta gli ansiti giunsero distinti e Maki si rese meno cristallizzato liberandosi degli ultimi freni attorno alla propria presa, effetto che non tardò a riflettersi maledettamente su di sé e, perciò, nell’intento di scansare lo specchio dell’imbarazzo che era l’immagine del volto dischiuso sotto di lui, andò a divorargli le labbra in preda a un’ansia famelica. Fujima avrebbe voluto ricambiare, era stato sul punto di farlo, ma la mano fu ricacciata nel montare di una fosca marea dentro la testa; rimase là, inerte, le sillabe spezzate sul nascere del fiato, contrarsi di secondi tesi e vibranti finché l’onda non lo raggiunse travolgendolo nell’interezza del suo essere. Fu come una corda che si strappa improvvisamente.
Rimase appoggiato contro la spalla di Maki e ansimò piano. «Troppo in fretta?» Pensò che gli aveva proprio tolto le parole di bocca. «No, va bene. Sei stato bravo.» Recuperò il sorriso in un residuo di fiato e lo premiò di un bacio vellutato. Pareva così calmo, Maki, lì seduto, eppure di quelle periferiche trasformazioni del suo corpo non era stato di certo all’ignaro, essendo peraltro a cavalcioni su di lui; senz’altro non doveva essere stato facile sopportarlo e al contempo riuscire a sorreggere il suo peso tremulo come una colonna portante. Fujima si sganciò dal suo abbraccio scendendo in un terreno relativamente più stabile e si apprestò ad allontanare ogni ingombro tessile, per quanto sottile, possibile ai lati dei suoi fianchi già scoperti che gli impedisse di rimediare. Maki si era già fatto una vaga idea, ma vi rimase ugualmente come paralizzato, mentre sentiva il tocco sulle labbra migrare verso il collo, la spalla un po’ infreddolita morsicata che si contrasse al loro tiepido passaggio, i pettorali sfiorati con le dita fredde e sottili che indugiarono affascinate e ridiscesero ancora sul sentiero accidentato degli addominali ben definiti, ribattezzando il verso delle punte all’altezza del legamento inguinale ed immergersi, laddove i muscoli si tesero allarmati, mentre infine la fronte del compagno si chinava repentinamente a togliervi ogni dubbio rimasto. Lo colse lo stesso di sorpresa. La prima reazione fu di difesa e riluttanza, Maki gli agguantò subito un polso sollevando il resto del braccio che si ripiegò in protesta e con l’altra mano tentò di rinsavire quel capoccione ostinato ma senza riuscire ad allontanarselo. «No…» Soffiò accigliato e ripeté ancora. «No!» Non del tutto convito neppure lui su cosa volesse dire e quanto pesasse realmente quel “no”. Rammentò di non essersi lavato prima di… Si morse un labbro e ansimò, «Dio…» Sentendo salire il sangue alle guance, mentre si portava una mano alle tempie come per distendere le pieghe di rassegnazione quando invece fu il proprio imbarazzo che avrebbe voluto celare. Distolse lo sguardo sopra il lento e voluttuoso inarcarsi della sua schiena, dannandosi di ogni respiro sanguigno contro l’inguine, per tutto il tempo combattuto tra il desiderio di lasciarsi bruciare fino all’ultimo frammento di midollo dalle fiamme dell’inferno e quel vago timore di essere capitato in qualche modo in una situazione senza ritorno, sgradevole, per quanto fosse la cosa più eccitante e sbagliata che avesse mai sperimentato. Si levò la mano dagli occhi e gliela pose tra i capelli. Lo sguardo estatico rivolto in alto e le labbra socchiuse, un rivolo cristallino scivolava sul collo. Fu tentato di assecondare i suoi vezzeggiamenti, solo per un attimo, anche se quell’attimo era durato probabilmente più di quanto la coscienza avrebbe ammesso in seguito, e in uno sprazzo di ragione infine riuscì a retrocederlo dolcemente, sollevandolo tergergli con il pollice quel filo di saliva che rasentava lascivo un lembo delle labbra dischiuse delle quali si riprese velocemente possesso. Non avrebbe permesso che finisse così…
Lo baciò. Lo baciò rabbiosamente per ripagare tutto il flusso di piacere interrotto, seppure per volontà propria, e Fujima si aggrappò a lui con forza, insinuandosi dalla nuca fin sotto le spalle, l’altra mano che andò a cercare uno strappo dei capelli folti di Maki, avvolgerlo in una morsa possessiva e rimasero lì, un po’ traballanti, a divorarsi il fiato a vicenda. Le lingue che si assaggiarono intrecciandosi e respingendosi, incapaci di trovare un equilibrio ogni volta che il ritmo indocile pareva sul punto di spezzarsi e precipitare, senza mai cadere veramente, come due piume al vento. Da piccolo aveva visto al museo di geologia le placche di terra sfregarsi, slittare l’una sopra l’altra fino a fondersi dei loro alieni sedimenti in un unico inscindibile elemento, simile a una cicatrice cauterizzata; aveva immaginato il Fuji-San sfracellarsi tragicamente contro la costa sudcoreana e si era chiesto cosa ne sarebbe stato di casa sua, considerazione non irrilevante per il barcollante arcipelago. Non sapeva perché gli fosse venuto in mente… Era quanto di più lontano possibile dal suo stato d’animo, e sarà che dacché le loro labbra si erano scontrate in quella faglia tremante per lunghi attimi aveva creduto di sprofondare e nel buio a raddrizzarlo fu solo il dolore, il dolore in qualche angolo remoto delle camere cardiache a comprimersi e diramarsi lentamente lungo il torace, i muscoli del collo, le mascelle ormai prossime all’infiammazione, fino a raggiungere il setto nasale in quel pizzicore così tipico di quando il mondo si annebbiava sotto una cortina di luce tremula e lui si sarebbe preso volentieri a schiaffi pur di farlo tacere… Smettila, ingiunse a se stesso con un filo di rabbia mentre i denti affondavano non troppo dolcemente a strappargli un lamento ruvido sulla bocca e sbatterlo contro la testata del letto affinché potesse dominarlo e dominarsi. Maki che, dal canto suo, aveva rottamato la ragione da un pezzo, all’ignaro delle sue battaglie interiori, in quel corpo senza coscienza fu armatura di sola e pura frenesia, sicché, ritto sopra di sé come lo scorse nella nebbia cocente, bianco e longilineo, ebbe in quel momento un singolo pensiero. Si coricò quel tanto basta da aver agio di controbilanciarsi al baricentro del compagno e senza scorgere altre verticalità, accompagnarlo con le mani intorno ai fianchi pronto a violarlo. «Aspetta…» Fu il sussurro che giunse ad arrestarlo, soffocato. «Così mi fai male.» Una luce di malizia in fondo ai suoi occhi sorridenti, mescolarsi alla tenerezza. Fujima si portò le sue dita alla bocca inumidendone le diramazioni metodicamente, sorridendogli tutto il tempo, con lentezza. E per una volta Maki seppe esattamente ciò che doveva fare.
20 minuti circa dopo, adagiato al suo fianco Fujima piegò il collo verso le palpebre distese di Maki vagamente assonnato. «Posso farti una domanda?» Lo sentì annuire. «Stai uscendo con qualcuno adesso?» Maki inspirò e sollevò una spalla per stendersi meglio. «Mi vedo con un paio di ragazze, ma nulla di serio…» Fiatò lui a occhi chiusi e accolse il suo monosillabo in replica che non voleva essere punteggiatura di sottile schifamento né di velata delusione o addirittura approvazione, e in effetti non voleva dire proprio niente. Nell’intervallo rimasero così, soddisfati, silenziosi e senza pretese, uno il soffitto e l’altro il buio, a contemplare ognuno i propri pensieri, dopo un po’ Maki si era svegliato fuori copione a rammentare un particolare sorvolato e lo aveva cercato con lo sguardo, il sorriso caldo e placido come un mare tropicale a lustrare la sua domanda invece un po’ impertinente «…mi stai chiedendo per caso un appuntamento?» Prima che un cuscino in faccia fosse di soluzione per tacerlo con istantanei risultati.
 

Quando si era svegliato al buio qualche ora più tardi aveva pensato che fosse già sera e invece erano le 5 di mattina, avevano dormito tutta la notte, e in effetti a Rio erano le 18 del domani, l’ora in cui era appunto solito a svegliarsi.
Maki dormiva ancora come un ghiro stretto al cuscino. Recuperò un paio di indumenti dal pavimento fiocamente illuminato, se li infilò senza sapere se erano suoi e uscì in cerca dei servizi. Aveva un certo fiuto per queste cose e non si perse nemmeno stavolta. Mentre tornava gocciolando in giro a curiosare con aria casual, rinfrescato senza asciugamani si strofinava il collo evaporante con il bavero della maglietta, aveva incrociato l’ombra furtiva di una ragazza che sgattaiolava fuori scalza da una delle porte lungo il corridoio e sparire cheta cheta dietro l’uscita di sicurezza. Entrò in camera e vide Maki seduto sul letto ad aspettarlo. Gli indicò qualche punto contro il paraspiffero, «sono mie quelle.» Fujima si guardò in basso e sorrise chiudendosi la porta alle spalle. «Mi pareva un po’ strano camminarci dentro.» Maki si rituffò tra le coperte ricordandosi di avere ancora sonno. Un vago blu dipinto sull’intonaco dell’edificio di fronte. «So che ci tieni tanto a provare le mie Converse e ti do vivamente il mio permesso.» Tirò la cerniera a rovistare nella borsa in cerca di una salvietta di scorta e la bocca tanto per dire qualcosa congetturava contro il suo sommo orrore. «Io non indosso quella roba!» Infatti rigettò Maki, uno sguardo di traverso alle scarpe di tela bianca sotto di sé, da sempre disdegnato oggetto di culto a lui indifferente, che per qualche ragione a Fujima non pareva dispiacere. Del resto, lui non era mai stato vanitoso e soprattutto non era mai stato tanto fedele a un singolo repertorio del proprio guardaroba. «Sai che ho visto una tipa uscire da una stanza, prima…» Stroncò sul nascere un bel seminario mentale sulle ginocchia storte di Chuck Taylor e certi lati frivoli di Fujima, perché lui aveva a quel punto già tagliato i ponti col discorso e confinato l’asciugamano spiegazzato nell’antro della sacca. «Ah sì?» Maki si raddrizzò a pancia in su riunendo i polsi alla nuca, affettando interesse per destare interesse nell’altro che gli si venne a coricare sopra a cavalcioni e si tenne puntualmente le scarpe addosso, Fujima puntellò le braccia. «Devo presumere che accada spesso da queste parti.» In diverso contesto avrebbe avuto la garbatezza di motteggiare i sistemi di sorveglianza del suddetto edificio, i quali consistevano in un portinaio 54’enne e la sua sedia di paglia su cui spendere una decennale passione per la lettura di giornali scaduti, e prosaici problemi disciplinali chiamati in causa, ma non sarebbe stato adesso quel momento. «Certo! E succede in ogni stanza!» Maki snudava i bianchi canini in una luce suadente, le arcate sopraciliari a flettersi complici. «È un dormitorio maschile, in fondo, cosa ti aspetti.. Io e il mio inquilino lo facciamo tutte le ser.e!» A una sberla in fronte seguì la sua risata sguaiata. Replicò di tenerezza il suo cipiglio a un tempo indispettito e indifferente, avvicinandolo a sé per un braccio e tutto ciò che non seppe dire lì per lì lo restituì in un bacio, tra spifferi di risa, lungo e languido.
«Togliti le scarpe.»
 

Più o meno verso mezzogiorno si ricordarono di mangiare. Al suo secondo risveglio si era ritrovato a strusciare contro il profumo della pelle calda di Maki, in punta di naso solleticandogli l’incavo del collo, rubandogli un sorriso compiaciuto. «Che c’è?» Bisbigliò. Lo vide sporgersi in avanti appoggiando con le braccia al suo petto nudo e lustrare lo sguardo sotto le lunghe ciglia brune come a volergli confidare un segreto sottovoce. «Non hai fame?» Domandò a mo’ di fusa, diaframma permettendo, con insolita mansuetudine che lo indusse ad accarezzargli la testa e capitolare precoce. «Cosa ti va di mangiare?»
Il servizio del refettorio era strategicamente sospeso per le vacanze e i pochi disgraziati alloggianti ancora nella struttura si dovevano avvalere di alternative che non prevedessero l’incendio accidentale della residenza e i custodi per buona connivenza chiudevano un occhio ai fattorini delle consegne. «Salve.» Passò davanti all’ometto succitato che gli accennò un brontolio confuso tra le pagine inchiostrate dalle quali non si preoccupò minimamente di sollevare lo sguardo, come volevasi dimostrare, lui passava piuttosto inosservato a spacciarsi per lo studente universitario che non era, ma era abbastanza compiaciuto di interpretarne le parti. «Duro lo studio, eh?» Scoppiò la bolla del chewing-gum che ritornò a masticare in faccia all’allegro ragazzo della pizzeria. «A chi lo dici.»
Tornò che Maki si stava strofinando i capelli fumanti di doccia, la maglietta nera appiccicata addosso a rivelarne i contorni tonici del corpo. Si adagiò sul letto con la scatola e incominciò incurante a masticare la sua fetta, mentre se lo squadrava tutt’altro che pudicamente dalla testa agli alluci. «Hanno fatto presto oggi.» Lui annuì facendogli spazio tra le lenzuola stropicciate. Maki fece per incrociare le gambe di fronte a lui, seduto nella medesima posizione. Sbocconcellò a fatica sentendosi osservato, rise nervoso. «Cosa c’è?» Fujima scosse il capo e fece spallucce per trattenere una riga di sorriso senza riuscirvi. Si sentì leggero come aria, come in un letto d’aria, giusto un poco intontito. Non ricordò esattamente che sapore avesse la pizza. Strana sensazione, complicata da definire…  
«Vuoi andare da qualche parte dopo?» Ruminò all’improvviso Maki. «Da qualche parte dove?» Si portò un fazzoletto alla bocca, mentre Fujima si accontentava del dorso della propria destra, senza rinnegarsi di quella sottile eleganza come solo lui sapeva tradurre in qualunque suo gesto. «Non penserai di restartene chiuso qua dentro tutta la settimana… Che progetti avevi?» Maki sistemò rapidamente e diligentemente i resti del pranzo, pose tutto in un angolo a portata di braccio della scrivania e spazzolò in due decisi colpi di mano la coperta adibita a tovaglia. Stava quasi per dire “non sarebbe male” e invece arenò in un «nulla di particolare,» rispose Fujima tornando a ciondolare con le gambe fuori dal letto, Maki lo osservò pensieroso, dopodiché inalò incerto e gli fece. «Ti và una passeggiata?»
 


I piedi a spazzare i petali viola resi crespi e trasparenti dal vento e dalla pioggia sotto il lungo porticato di glicine, c’era il sole e un primo accenno di cicale tra gli alberi, avevano preso a vagare per un po’ senza meta, la cittadella universitaria deserta come un improvvisato paradiso privato non per occhi affrettati a cui sfuggisse ogni bellezza e ogni luce, nello specchio della realtà riflessa sul lago, un mondo vacillante, quel tempo di felicità color seppia in cui le loro giovani sagome slanciate già parevano sul punto di svanire.
«E da quella parte abbiamo l’edificio dedicato a Nishima Yoshio-Sensei 1890-1951.» Fujima ciondolava dal capitello di un pilastro che stava abbracciando in bilico, gli occhiali da sole a schermare qualunque interesse al di fuori di sé. «Chi cavolo sarebbe?» Fiatò retorico ruotando a 180° prima di tornare da Maki in piedi a leggere didascalie che forse lui stesso ignorava. «Padre fondatore della fisica moderna in Giappon.e--» Schiaffato dal basso il depliant si increspò, Maki sobbalzava. «Che fai! Stammi a sentire..» Ma lui non lo fece di certo. Continuò a piroettare agganciato per un braccio solo e spensierato risplendeva, abbagliante, snudando denti candidi alla sua vista… Avanti, indietro, avanti. Come sogno in altalena. Incresparsi delle acque, uno sbuffo di vento le chiome sollevate a sospingere lieve l’asse dell’equilibrio verso la gravità di quelle sue labbra, si posò labile, e si allontanò. Abbagliante…
Il tragitto di ritorno si ridusse a una corsa sostenuta e impaziente con l’unica preoccupazione di raggiungere al più presto il dormitorio, la porta della stanza, l’intimità di quelle tende, per inciampare sul materasso a singola piazza che costituiva il solo rifugio possibile dove il mondo non sarebbe stato di ostruzione a quel loro cercarsi e violarsi feroce, senza remore.
Quella fu l’unica passeggiata che fecero.
 
Per il resto della sua permanenza al campus rimasero chiusi dentro quella stanza, il cellulare a portata di mano per chiamare a domicilio o al massimo qualche capatina al minimarket, senza quasi mai mettere piede fuori dalla porta, e anche se le bibite finivano c’era sempre il rubinetto. A cosa serviva poi? Ogni secondo sprecato in qualche altro luogo che non fosse tra le braccia reciproche sembrava una menzogna, un inutile furto del tempo, perché in fondo seppur sconsiderato e precario era di quel piacere morboso che andavano ricercandosi a ogni ora con urgenza lacerante l’uno nell’altro. E la cosa aveva cominciato a sfuggirgli di mano quando si era reso conto che questo non gli sarebbe bastato… Che tutto il tempo del mondo non gli sarebbe bastato. Bastato per cosa, tuttavia, ancora lo ignorava.
In cuor suo aleggiava quella presenza anomala di un qualche ingranaggio fuori posto, saldato nel punto sbagliato del meccanismo a distorcere tutta la funzione dell’organismo della verità. Che cosa fosse giusto o sbagliato, a quel punto, aveva perso del tutto la ragione. Eppure c’era qualcosa di avido ed egoistico in quella loro cieca esclusione dal mondo, come sospinti dall’ombra di un atto struggente e fatale che paventava l’imminenza della fine, e al tempo stesso, travolti dalla più sconveniente, ridicola, insensata forma di felicità mai comparata. Sette volte condannato e sette volte lo avrebbe rifatto.
Sedeva alla finestra, Maki, sul torso nudo la camicia aperta e una gamba ripiegata sopra la scrivania a rinvangare il colore delle nuvole in cielo, con cipiglio assorto. La sigaretta consumata fievolmente stretta tra l’indice e il medio, andava sgretolandosi nel scivolare via melanconico di ogni secondo. Il tempo non spingeva alle parole, anche perché le uniche che non avessero stonato alla quiete decadente del quadro sarebbero state solamente «torna qui,» come di lì a poco la sua voce vellutata avrebbe sussurrato nell’offrirgli l’attesa di una mano vuota, rovesciata sul cuscino. «Un attimo.» Espirò distratto una voluta di fumo, poi lo guardò, disteso languido a scoprire il dorso levigato di poche minimali imperfezioni e quelle curve scivolare armoniose che avevano così poco di mascolino in sé, come un frammento di bassorilievo appena dissotterrato dalla Storia, le accarezzò allusivo domandandosi se la sua pelle non si sarebbe tesa al tocco del proprio sguardo. Fujima si fece leva sulle braccia, il busto raddrizzato raggiunse il pacchetto di Marlboro lasciato in bilico sulla testata del letto e ne sfilò una per sé, picchiettandola leggermente sul legno nocciola chiaro. Maki gli lanciò l’accendino che senza sorpresa prese al volo. «Non ricordavo che fumassi.» Tagliò via il punto interrogativo, infine, assegnando direttamente un numero infinito a quel nebuloso principio temporale al fine di enfatizzare ciò che stupore non era, Fujima rettificava così cantilenante, dopo aver fatto scattare la scintilla con il pollice due volte finché non si era accesa la fiammella a cui accostò l’estremità della sigaretta, aspirò e si girò per osservarlo, il capo piegato sulla coppa della mano. Maki scrollò via la cenere, «è solo una cosa così, giusto per.. allentare lo stress,» sbuffava evasivo e Fujima lo guardava ancora perché quasi giurò di averci scorto dell’ironia in quel ghigno sibillino sul suo volto. «Non è come pensi…» Roteò gli occhi vistosamente per dare spazio ai sottintesi sotto le ampie sopracciglia inarcate, Maki distolse lo sguardo sapendo di essersi tradito all’istante. Fece per tossire nervoso.
La mente andò a un pomeriggio impacciato di 13 mesi fa, un’altra sigaretta ma identica la stizza, non era passato poi tanto tempo da allora …
«Mi piace.»
«Cosa?» Ti prego, non rinvangare…
«Che fumi.»
Si voltò e lo trovò lì a sorridergli. Maki deviava uno spiffero di fumo interdetto. Capitolò.
 
 

Non so che cosa volessi di preciso… Giusto che durasse un po’ di più, non pretendo l’eternità, ma solo quel po’ in più. Forse chiedo troppo. Sono stato cieco, ma in fondo in fondo, lo sapevo. Più il tempo passava e più mi rendevo conto che stavo mentendo a me stesso, che fin dall’inizio ne ho preso le parti, a quella farsa. Sono stato egoista, ma era tutto ciò che potevo offrirti, il mio egoismo.
 
Si svegliava in certe ore del giorno per trovarselo accoccolato sotto una spalla, i pugni stretti al petto a mormorare sogni tra le labbra socchiuse e rosee. Smarrito e indifeso come mai si sarebbe mostrato alla luce del giorno. E in lui era quel privilegio di sorprendere una rara creatura pascolare nel folto della selva, su cui forse nessun altro occhio umano si era mai riflesso, né di terrore, né di tenerezza.
Sapeva dove andava a pararsi…
Condannato in contumacia.  
 

Nella tasca dello zaino teneva il passaporto e il biglietto aereo di ritorno, glieli aveva trovati un giorno mentre frugava in cerca di un cambio di biancheria per lui che era andato alle docce senza, non intenzionalmente, sia chiaro. Faccia da bambino, da studente. Un bambino che viaggia senza accompagnatore. Non era di certo un segreto, anzi… Ma chissà per quale ragione non diede mai peso a quel fattore già assodato, nemmeno quando lo aveva avuto tra le mani. Il volo era fissato per dopodomani, alle 10 di mattina.
«Che pensi di fare d’ora in poi? Rimani oppure…» Si parlava già del futuro a quell’ora, o in termini più approssimativi, del futuro che scadeva a vista d’occhio. Il discorso cominciava innocente su progetti estivi, paesaggi abbozzati in un tempo felicemente indeterminato, senza impegno, per poi ricadere magari impercettibilmente su una certa frase del tutto fuori contesto e quel tempo, quelle vedute scintillanti tutt’a un tratto si coloravano di toni inquieti, alieni, impregnandosi della linfa sinistra della realtà. Fujima indugiava. «…Credo che tornerò là.» Si finse sprovveduto come lui lo credeva. Si guardava le unghie delle mani e la sua voce ovattata giunse come da un’altra stanza con frequenza ritardata, o forse era solo una sua impressione. «Quindi procede tutto bene.» Assodò. Sarebbe stato scortese non sbilanciarsi in un «già», anche perché un’affermazione in più non faceva di certo danno e frattempo sarebbe valsa quanto quel silenzio che puntualmente venne a giustificare l’infecondità orale, e fu contraccambiato a lungo, finché simmetricamente non si vennero a sovrapporre in un pastrocchio di vocali e consonanti declamabile nel seguente quesito:
“Quando, sai
Pensi, a dire
Di, il
Tornare, vero?” Si fissarono attoniti.
Condivisero un breve riso, poi Maki gli cedette la parola. «A dir il vero...» Fujima le riordinò in cerca di un principio spontaneo. «A Rio si parlava di un prolungamento del contratto, cercavano qualcuno da mandare in Perù per degli itinerari piuttosto scomodi e siccome si stava via molto e molti hanno famiglia…» Fece una pausa rendendosi conto di essersi già perso e con un vago gesto della mano rettificò. «Ormai mi conoscono, mi sembrava una buona occasione e mi sono offerto io.» Maki lo fissò annuendo atono, serrò le labbra tra due sopracciglia levate. «Mi sembra ottimo. Quindi?» Pensava che quel suo quindi fosse ormai assodato per entrambi ma ebbe impressione che forse qualcosa gli era sfuggito, nella risposta che Fujima gli diede di petto. «Quindi nulla cambia per adesso.» Maki scosse nervosamente il capo ridacchiando un po’, «no, cioè» palpebre socchiuse, levò i palmi come per dire alt e darsi tempo di puntualizzare. «Quanto! Quanto pensi di stare via stavolta?» Non riusciva a capire dove stesse l’incaglio al linguaggio che rendeva tanto difficile quella conversazione all’apparenza idiota nella sua elementarità.
«Non lo so.»
Ebbe una frazione di smarrimento.
«Come non lo sai??» Bruscamente, stavolta il tono si levò distinto e inequivocabile; anche se a stento, Maki cominciava a capire… «Non lo so!» Raddoppiava sotto accusa Fujima, un ginocchio a tramare di latente frustrazione, tentò di temporeggiare. «…Un anno o forse anche di più, non c’è nessuna certezza….» E qui si arrestò. «…Che torni?» Fu la voce ferrea di Maki a concludere. Quel silenzio non presagiva che una sola risposta. Frammezzò le articolazioni lentamente recuperando i moti congelati del corpo, si portò incerto una mano tra i capelli e ne strinse una ciocca disordinata, l’espressione difficilmente riassumibile in un solo ragguaglio di incredulità. Seduto sul bordo del letto Fujima tenne una gamba ripiegata verso di sé, lo sguardo scostato da parte per non doverlo affrontare a viso aperto. Nessuno dei due parlò. Maki fece qualche passo per allontanarsi poi tornò subito indietro, come se si fosse improvvisamente ricordato di essere incazzato marcio, gli si avventò contro a voce dispiegata. «E quando contavi di dirmelo?!»
Ma fu freddezza ciò che ricevette in risposta, «era già tutto deciso.» Tanto compassata da spezzargli ogni elusivo autocontrollo e in sé, frammisto al riso gelido, avvertì quella remota fenditura ardersi al buio come carbone assopito nella cenere calda, mentre enfatizzava caustico. «Già   tutto deciso…» Annaspò sul filo dell’esaurimento. «Una settimana!! Te ne sei stato qui a far finta di niente, ti fosse venuto in mente almeno una volta di dire che so “sai, Maki, pensavo di trasferirmi per sempre dall’altra parte del mondo?!” Così almeno mettevamo tutte le carte in tavola invece di prenderci in giro come abbiamo sempre fatto!!» Fujima lo folgorò all’istante. «Ah! Adesso sarebbe “una presa in giro” questo?? È così che la pensi?!» Al diavolo tutto quanto… Tremavano dalle viscere rivoltate di acido e indignazione, le spalle, le braccia, il cuore, in silenzio. Ora la parola era solo grida. «Certo! Da parte tua non poteva essere più chiaro!» Sentiva dolore, ma non fu abbastanza certamente per farlo a pezzi, perché lui sarebbe rimasto lì in piedi finché l’un l’altro non si fossero fatti a pezzi e non ne fosse rimasto che il sollievo delle fiamme, e avrebbe ricordato l’azzurro irradiante di quegli occhi inesorabili e bellissimi, nei quali esanime guizzava la propria ombra poco prima di incenerirsi. «Ma non venire a fare il virtuoso con me! Vuoi forse farmi credere di non averlo capito fin dall’inizio? Che avresti scopato con me per una settimana intera senza saperne niente??» Ipocrisia, oppugnava meticoloso Fujima, levatosi per distanziare solo di pochi centimetri quel capo superbo che tuttavia non poteva superare, senno con astuzie e slealtà. Prese fiato e raddoppiò. «Te lo dico io come stanno le cose! Tu lo sapevi benissimo e hai voluto lo stesso approfittarne!! E non venirmi a dire che ti è dispiaciuto!» Maki era furioso ora, perché sapeva che lui aveva ragione, si impuntò, le mascelle serrate. «Che cazzo stai..!!» Ma l’umiliazione lo scioccò a tal punto che si era ritrovato senza voce, in testa un fuggi fuggi irrazionale di parole sconnesse, mentre quel piccolo residuo di ragione tentava di recuperare ciò che rimaneva di sé. La gola gli bruciò. «...Questa cosa non ha senso…»
Fujima rimase muto nell’ombra del proprio volto, vittorioso senza glorie, e come era insorto altrettanto rapidamente era precipitato il suo temperamento lì in piedi, con flemma spiazzante replicò. «Ti è dispiaciuto scopare con me?» Quasi un sussurro. Si bruciò a pelo e sussultò, dopodiché sembrò sul punto di inveire ancora ma qualcosa lo fece desistere, Maki abbassò le spalle, guardò altrove e infine rispose, piano. «No.»
Avrebbe voluto metterci più astio, più indifferenza, più menzogne di quanto la gravità incensurata della propria voce non seppe instillare.
Non seppe quanto tempo trascorse da quando le grida avevano lasciato spazio al silenzio tra quelle mura. Si era acceso nervosamente una sigaretta, ingiuriando un paio di volte quel maledetto accendino asmatico che gettò tra le coperte terminata l’utilità, la punta incandescente, aspirò inquieto una veloce boccata e rimase lì tutto ingobbito, i gomiti sulle ginocchia, il volto discosto, tenebroso. Trattenne il fiato acre sentendolo scendere rovente lungo la trachea, nutrire le radici cancerose dei bronchi e sazio rilasciarlo nell’aria che man mano andava saturandosi della sua aroma ostica. La mente si dilatò e i muscoli indugiarono languidi. Un filo di fumo ascendeva. «Non penserai di certo che sarei rimasto solo per te.» Maki guardava di fronte a sé, verso quel vuoto sfocato dove la sua sagoma poco più di una macchia defilava la rifrazione dell’iride, e parve balenare lì immobile, allontanandosene di diottria in diottria… E avrebbe voluto dire sì, avrebbe voluto giocarsi quel sfacciato vorrei che rimanessi con me, mettendo in palio tutto il suo orgoglio e la sua fede, fregandosene della perentorietà dei fatti che sapeva non si sarebbero piegati di fronte all’atto di un folle, e tuttavia, quantomeno sconveniente e infantile, seppure molto spassoso, fu per un momento pensarlo… Maki aprì la bocca e ancora una volta a salvarlo fu la ragione. «No.» Fu la menzogna.
«C’è altro che vuoi sapere?» Alluse Fujima retorico. Ma si erano già detti tutto. Tutto o niente. Maki scrollò le spalle e ributtò fumo, corrucciato in fronte. «Vado a farmi una doccia.» Concluse in tono definitivo e non attese. Brevemente si allineò la sua schiena emaciata contro la cornice della soglia prima di sottrarvisi al di là, insieme a uno spiffero di polvere. E il giorno dopo sarebbe uscito ancora da quella stessa porta e non sarebbe più tornato. Sì, c’era una cosa che non aveva ancora detto, Maki pensò. Glielo aveva urlato contro per tutto il tempo nella speranza sciocca che lui se ne rendesse conto, e glielo aveva ripetuto per tutta la settimana dall’alba al crepuscolo in ogni abbraccio clandestino e ogni furtivo sguardo senza che lui stesso se ne rendesse conto; l’unica frase che si era forse scordato di scagliargli contro nella furia cieca del suo cuore, allo stesso modo che subissarlo di epiteti e soprammobili, quell’intraducibile “sono innamorato di te”, alla resa dei conti sarebbe stato ugualmente indifferente. E lui non aveva il potere né la forza di fermare un aereo da 600 tonnellate a mani nude, come non avrebbe impedito il sorgere inesorabile del sole, in quell’indomani dove loro sarebbero invecchiati di un altro giorno, lontani l’uno dall’altro, e nulla sarebbe cambiato. Parole, nient’altro che parole. E anche loro erano solo parole.
Non ci furono lacrime né clamori, perché, in fondo, nessuno dei due avrebbe potuto sopportare la certezza di questo dolore.
Maki scostò la tenda e guardò fuori. Era troppo presto e troppo tardi, ormai, per dirsi addio. Si accese un’altra sigaretta.

 

 
 






 
 



   
  
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