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Autore: ClodiaSpirit_    30/06/2018    1 recensioni
- Si alzò in piedi, insieme all’onda del pubblico coinvolto dall’esibizione, applaudendo.                                                                                                                                     
[...]  Nonostante quello sguardo fosse lontano, Alec poté indovinare che erano diversi rispetto a quelli che aveva visto tante volte. -
Alec è un ragazzo intelligente, giovane, eppure gli manca qualcosa di fondamentale: vivere.
Ma cosa succede quando Alec comincia a fuggire e a rintanarsi a Panshanger Park, durante uno spettacolo dato dal circo? E soprattutto, chi è l'acrobata che si cela e cerca dietro tutti quei volti?
Cosa succede quando due mondi opposti ma simili per esperienze di vita si incontrano?
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Clodia's: Ragazzi, erano secoli (okay, credo un anno e mezzo su per giù) che non scrivevo così tanto. Il che è tutto dire dato che l'uni come primo anno mi ha abbastanza spremuta e strizzata a dovere ( letteralmente) Tutto questo però non ha mai spento la mia fantasia o meglio, i miei filmini mentali a propulsione (rumore di razzi in sottofondo) Che dire, per chi è nella Shadow family sa cosa sta accadendo da almeno un mese e sa cosa stiamo facendo noi e i nosti ogni giorno.

Keep going strong, ragazzi.
Possiamo fare tutto: ricordatevolo.
E che dire, spero vi piaccia questo mio nuovo progetto,
ci tengo tanto come se fosse mio figlio (i'm not joking) 
Buona lettura
#SaveShadowhunters



Niente guarisce il passato come il tempo.

Forse è solo un modo di dire, forse è davvero quello che serve. Ciò che può definirsi certo è che il passato rimane sempre lì, anche se in minima parte, ritorna a galla per sprazzi, attimi, microsecondi che s’incatenano nella mente, nel corpo.
Il passato lo senti ovunque ed è inevitabile. Lo senti peggio di quando senti di stare male, lo senti molto di più di un influenza.
Una figura indefinita rise amaramente. Sbiadita quasi, inesistente veniva invasa dal passato ogni volta che chiudeva le palpebre.




La penombra di solito veniva ad aiutarti in caso di distanza dalla realtà. Dicono che quando ci si sente soli la cosa migliore è cercare qualcuno. Rifugiarsi in qualcosa. Una di quelle sensazioni che senti solo tue, che percepisci confortanti e confrontandoti faccia a faccia in silenzio e che offuscano tutto intorno. Solo che non c’è nebbia.
E’ tutto come sempre, terribilmente preciso, definito che non può cambiare.
Il rumore si assottiglia, diventando ovatta che si disfa e si disperde nell’aria.
Un pensiero profondo ma che inganna se si analizza e si mette un po’ a fuoco quello che, giustamente, Alec si trovava a fare in quel preciso istante. Alec era un ragazzo giovane, una ventina d’anni, più o meno.
Come un po’ tutto il via vai delle cose della vita, si ritrovava piantato con un cuscino schiacciato all’altezza delle orecchie per sentire solo il rumore del suo corpo. I battiti, le gocce di sudore, tutto fuorché le voci ormai eco, che provenivano al di fuori della sua porta chiusa intelligentemente a chiave. Alec si definiva un ragazzo senza problemi, una volta uscito fuori nel mondo – estraneo - per definirlo al meglio.
Come un po’ quelle persone che preferiscono svagarsi e riempirsi i timpani con la musica, l’alcool, qualsiasi cosa le mandi fuori dal posto o luogo di eventi sfortunato in cui si trovano. Mentre Alec cercava di concentrarsi su ciò che perturbava e si sviluppava nel suo corpo, gli venne in mente la distanza rispetto alla sua infanzia, alla sua adolescenza, alla casualità che prima era solo quello: caso. Adesso non era più una coincidenza se il suo essere in conflitto col vivere, forse ad aver messo in dubbio sé stesso anche, portava chi lo aveva messo al mondo a litigare, ogni giorno, stessa ora, stesse urla.
Motivi? Ah, quelli erano una nuvola nera sopra la sua testa tanto quanto quella dei suoi genitori. Eppure pensava di aver capito, assimilato nel tempo che il sentimento che legava due persone, lasciava sempre spazio, sempre un compromesso, un passo in avanti rispetto all’altro per cedere all’armonia.
Eppure, poteva pensare di essere fortunato.
Vivendo in una contea come quella dell’HertfordShire, possedendo una casa con almeno tre piani e vantare di un giardino, sentire il canto degli uccelli arrivare direttamente sotto la tua finestra, dovrebbe pur essere qualcosa che poteva dirsi fortuna. Non tutti potevano di certo vantare lo stesso. Aggiungi anche una famiglia unita, che si ama, che dimostra il suo interesse e che potrebbe arrivare a sacrificarsi per il tuo bene stesso ed è un quadro indimenticabile, cornice di una foto che non può essere scalfita all’interno. Il solo pensiero gli diede il voltastomaco. Se l’amore era qualcosa che avrebbe dovuto ritenersi sacrificio, rispetto e fiducia, l’immagine di quelle emozioni nel suo quadro si erano arrugginite e riempite di polvere e ragnatele da almeno un po’ di anni.
Alec aveva ventiquattro anni. E gli sembrava di essersi fermato lì da una vita. La stessa vita che proseguiva più veloce, in corsa.
Senza possibilità di dire stop.
Non ricordava nemmeno l’ultima volta che li aveva compiuti in modo decente. E non intendeva in grande, ma in modo sentito. Di quelli che anche solo pochi sorrisi di chi è presente e una torta riempiono la stanza. Anni.
E con un po’, forse Alec intendeva almeno sei o sette anni. Credeva fermamente di averne perso il conto e anche l’importanza. D’altra parte, chi era lui per mettere in discussione il carattere austero del padre e quello della dittatrice di leggi della madre? E dio solo sa quanto avesse invano provato a sedici, diciassette anni. Età vissute ma in modo sgranato, i bordi mangiati dalla fiamma dell’indifferenza più totale. E chi era lui per ricordare l’affetto di ogni bacio e storia della buona notte, per la perdita di poter essere ascoltato o tenuto in considerazione nell’arco degli ultimi anni, delle cene con lui e sua sorella Isabelle - che adesso era lontana da tutto quello – e di cui sentiva tanto la mancanza? Sua sorella, la più piccola di qualche giorno, mese, anno, la stessa che con il suo aiuto era riuscito a fuggire verso una destinazione meno oscura, la stessa che gli aveva fatto capire tante cose. La stessa che aveva sentito solo qualche settimana fa.
Alec rise amaramente, sentendo il suo riso che si strozzava contro il rumore del suo stomaco in ribellione.
L’arte della recita, della finzione…com’era quella famosa frase Shakespeariana?
Ah sì.

‘’ La vita è un'ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, significante niente’’

Come di ogni buon libro, restava la citazione o l’aforismo che si imprimeva dentro.
E Alec di libri, ne aveva letti fin troppi.
La vita in questione, era diventata solo un antro ristretto e soffocante, per lo più oscillava in bilico tra oggi sarà sempre lo stesso e vorrei scappare. E quella piccola sensazione che si faceva spazio pesava e si svuotava solo quando Alec decideva di prendere possesso della sua voglia di liberarsi dalla morsa che lo intrappolava. Incastrato neanche fosse dentro una gabbia fatta apposta per lui, con misure e il resto.
All’ennesimo scatto di ira che vibrò lungo le pareti simulando il tono del padre, Alec buttò il cuscino incurante dove potesse andare a finire, se per terra o sul suo stesso letto, prese la giacca scura – in quel momento era l’icona del suo stato d’animo – le chiavi di casa posate sulla scrivania ordinata, candida, in legno chiaro e pulito di fronte il letto. La luce entrava dalla finestra creando un’illusoria sensazione di pace, le tende che simulavano piccole righe d’ombra serpentine, come rettili. Si guardò allo specchio laccato e intarsiato.
I suoi capelli neri corvino erano come sempre un ammasso arruffato più del solito. Gli occhi sembravano più grigi che verdi quel giorno. Per non parlare dell’accenno di barba che stava crescendo. Le sopracciglia folti ma disegnate, due archi che gli davano un aspetto autoritario. Sembrava stranamente più grande. Aveva già le scarpe ai piedi, si era dimenticato anche di togliersele. Respirò a fondo, aprì la porta, la richiuse e corse fino al corridoio sfuggendo al possibile sguardo di attenzione che, non sarebbe arrivato. La porta sbatté così forte sulla parete quasi come fosse fatta di piombo.


**

Alec.

Alec Lightwood stava camminando, ma più che camminare, sembrava stesse pesando ogni suo passo verso l’ignoto. La poca luce del sole era ormai calata e adesso una scia violetta mista al blu pesto solcava il cielo sopra le teste di qualche altro passante per il centro della città. Parliament Square era semivuota, se non per qualche lampione e negozio aperto. La statua del cervo si alzava così, al centro di quello spazio, di quelle case e negozi e la luna ne illuminava la testa e le corna ramificate. Come se fosse uno spirito dominante dall’alto. Alec si sentì giudicato in qualche modo, dentro di sé, sentendo di dover spostare lo sguardo.
Hertford era una piccola città della contea dell’HertfodShire e di giorno poteva sembrare piccola e basta. Se invece, ti ci perdevi nella notte e vedevi gli angoli accendersi e altri restare in penombra, se ti concentravi sul suo silenzio e le finestre grandi e illuminate, era qualcosa di diverso. Addirittura qualcosa che suggeriva magia.
Alec si sentiva abbracciato dalle stradine che diramandosi sembravano invitarlo a continuare, fino a tarda ora. Gli orologi tondi quasi cristallizzati al suo passaggio sospesi sui mattoni dei vari edifici. Era come se avessero saputo prenderlo, avessero avuto modo di conoscerlo a memoria dopo tutti quegli anni. Strano il pensiero che una cosa inanimata, come una città, potesse parlare nel silenzio e accoglierti, Ma mai più strano di sentirsi estraneo all’interno di ciò che avrebbe dovuto chiamarsi casa. Non andava bene mescolare due cose completamente opposte, Alec pensava ed era questo il problema.

Andare in profondità è peggio.

Bisognava offuscare la mente, era necessario spegnere per un attimo quel vortice. Alec guardò in basso: i suoi piedi, dentro dei mocassini lucidi, proseguivano ad inerz
ia lungo l’asfalto, incontrando ogni tanto qualche tombino e schivandolo di conseguenza. Soltanto in quel modo riusciva a stare bene. Fuori, perso, senza meta, senza richiamo, senza niente. Le case assomigliavano a quelle delle favole, piccole, quadrate, in ordine, qualcuna con qualche fiore alla finestra, qualcun’altra che riportava il segno del tempo. Alec poteva vederci dentro delle figure, ombre indaffarate nelle loro cose, travolte in semplici affari, altre che si scambiavano piccoli gesti, altre ancora che fermavano le porte principali e spegnevano le luci.
La loro quotidianità normale e mai vuota. Come mi piacerebbe farne parte.
Mentre ricorreva a queste meditazioni interiori, si ritrovò in al 31 di Bull Plain senza nemmeno accorgersi di starsi dirigendo verso uno dei bar in cui capitava spesso di rifugiarsi e fermarsi fino a quando il sonno non vinceva su di lui. L’Old Barge dava proprio sulla riva del fiume di Hertford in cui si riversavano altri tre, il Lea River.
Di solito Alec non prendeva niente di speciale, si limitava a sedersi e basta, chiedendo soltanto qualcosa da bere. Svoltò l’angolo e si ritrovò l’edificio davanti. Pochi tavolini vuoti fuori, probabilmente la gente sentiva troppo freddo considerando l’aria di ottobre. Alec era apatico al clima a quanto pare. La caratteristica porta rossa, il tetto spiovente e le poche luci che creavano zone di penombra inghiottendo i mattoni lo invitarono come una calamita. Nonostante non sentisse l’aria che tagliava il respiro, Alec entrò dentro: l’ambiente era accogliente, caldo, due divani lungo le due sale, camini, pareti rosse che si sposavano agli infissi di legno che seguivano i tavolini però più scuri, qualche candela, rosa dentro qualche bottiglia decorava sopra. Dei poster e quadri riempivano qua e là rendendo il tutto vintage. Prese posto e la prima occhiata fu della ragazza (non sorpresa dal vederlo lì) al piccolo bar ad isola anch’esso in legno, intenta ad asciugare uno dei bicchieri di vetro. Ogni sera, era diversa. Ma l’obiettivo era sempre lo stesso: evadere.

   
 
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